L'economia dell'Anp ai minimi termini. Colpa di Israele, ovvio, no ? Michele Giorgio, ex miracolato, torna quello di sempre
Testata: Il Manifesto Data: 11 settembre 2012 Pagina: 7 Autore: Michele Giorgio Titolo: «'Dignità per la Palestina'»
Riportiamo dal MANIFESTO di oggi, 11/09/2012, a pag. 7, l'articolo di Michele Giorgio dal titolo "«Dignità per la Palestina»".
Michele Giorgio Abu Mazen
Ci eravamo illusi che in Michele Giorgio fosse cambiato qualche cosa. Illusi, appunto. Il pezzo che segue ci ha riportati alla realtà. E' sempre lo stesso Giorgio, noioso, prevedibile e animato più dall'odio per Israele che dal desiderio di diffondere notizie veritiere e corrette. L'economia dell'Anp va a rotoli. Colpa della corruzione di Abu Mazen, certo, ma, soprattutto, come scrive a chiare lettere Giorgio, dell'occupazione israeliana. E' sempre colpa di Israele per qualunque cosa in Medio Oriente. Ammettere che l'economia dell'Anp è ai minimi termini perché la sua unica occupazione in questi anni è stata quella di lavorare alla cancellazione di Israele e intascare soldi gettati dall'occidente a fondo perduto nelle casse di Abu Mazen sarebbe troppo per Michele Giorgio, troppo preso dal suo livore anti israeliano per dimostrare un minimo di oggettività. Ecco il pezzo:
«Mettiamo fine al silenzio sulla dipendenza dell’Autorità nazionale palestinese dallo Stato occupante, alla corruzione dilagante nelle nostre istituzioni». Non fa sconti a nessuno il documento diffuso da “Palestinians for Dignity”, il movimento palestinese che questo pomeriggio terrà a Ramallah una manifestazione di massa contro l’aumento dei prezzi e, più di tutto, il Protocollo di Parigi che blinda l’economia palestinese e lamette sotto il controllo completo di Israele. Sotto accusa, ancora una volta, gli accordi del 1993-1994 tra Israele e Olp che portarono alla nascita dell’Anp a condizioni svantaggiose. Sul terreno, 19 anni dopo quelle intese, il governo palestinese controlla meno del 20% della Cisgiordania ed inoltre Israele decide cosa entra e cosa esce dalle aree autonome. La frustrazione perciò cresce. Autotrasportatori, impiegati, operai delle cave, insegnanti, studenti sfilano da giorni per le strade delle città autonome palestinesi scandendo slogan contro la politica economica del premier Salam Fayyad, appena salvato dalle dimissioni dal presidente Abu Mazen. È una protesta per certi versi inedita, che unisce temi sociali ed economici alla battaglia contro l’occupazione israeliana. Alcuni gettano acqua sul fuoco. «Non è una Intifada sociale» affermano. Altri sostengono che dietro le manifestazioni ci siano gli islamisti di Hamas che tentano di dare la spallata ad Abu Mazen. Invece parlando con imanifestanti ci accorge che in maggioranza sono di Fatah, il partito-spina dorsale dell’Anp, e delle formazioni della sinistra. Lo sa bene ilministro degli Affari Civili (ed esponente di Fatah), Hussein al- Sheikh, che non a caso ha chiesto che la revisione profonda del Protocollo di Parigi, anche per spostare sull’occupazione israeliana la pressione popolare. «Chiediamo la riapertura del Protocollo di Parigi, incompatibile con l’attuale situazione economica », ha detto Sheikh. «Per troppi anni (i leader dell’Anp) sono rimasti in silenzio di fronte alla rapina dell’economia palestinese da parte degli israeliani, ora all’improvviso denunciano il Protocollo di Parigi che andava abbattuto e sepolto sin dal primo giorno», commenta un attivista di “Palestinians for Dignity” che ha chiesto l’anonimato. Non ha tardato ad arrivare la risposta israeliana: su secco “no”. «Non sono d’accordo con la riapertura dei negoziati sul trattato economico - ha detto il vice ministro degli esteri Ayalon - perché troppo interconnesso con gli accordi politici per poter essere modificato». E Ayalon non ha mancato di ricordare i debiti per decine dimilioni di dollari che l’Anp deve alla società israeliana per l’energia elettrica. Firmato il 29 aprile 1994, il Protocollo di Parigi intreccia dipendenza economica e occupazione militare. Se da un lato l’Anp è responsabile in materia di importazione e politica doganale dall’altro questa autorità è limitata a pochi beni e determinate quantità che devono essere decise sempre e comunque con Israele. L’economia palestinese dal 1994 a oggi di fatto è stata aperta solo verso l’occupante. Se si tiene conto che le merci palestinesi per entrare in Israele devono essere sottoposte ad una infinità di controlli ed ottenere diverse autorizzazioni, è facile capire perchè i palestinesi importano per un 80% da Israele ed esportano pochissimo. A causa del Protocollo di Parigi l’Anp non ha la possibilità di controllare l’aumento dei prezzi e di svolgere delle politiche economiche incisive. L’accordo, ad esempio, stabilisce che se la benzina aumenta in Israele deve aumentare automaticamente nei Territori occupati e il prezzo non può essere inferiore più del 15% a quello israeliano. I carburanti non possono essere importati dai paesi vicini ma acquistato dalle compagnie petrolifere israeliane. L’Iva sui prodotti commercializzati in Cisgiordania e Gaza può essere inferiore a quella israeliana solo del 2%. E tenendo presente che il reddito pro capite nei Territori occupati è inferiore di venti volte rispetto a quello israeliano, sono immaginabili gli effetti dirompenti che queste imposizioni hanno sulla vita quotidiana dei palestinesi. Infine, non certo per importanza, c’è il capitolo della raccolta delle tasse e dei dazi doganali che Israele svolge per conto dell’Anp ai valichi di frontiera e tra i palestinesi che lavorano nello Stato ebraico. Questa facoltà permette a Israele di poter congelare somme enomi - decine dimilioni di dollari ogni mese – tutte le volte che scoppia una crisi politica tra le due parti, rendendo ricattabile il governo palestinese. Ora la popolazione palestinese presenta il conto, non solo a Israele ma anche ai leader dell’Anp che per troppo tempo hanno taciuto su queste condizioni inaccettabili.
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