Sul FOGLIO di oggi, 08/09/2012, a pag.1/4, con il titolo " Obama guarda al futuro per scacciare i drammi del presente americano", Mattia Ferraresi commenta la Convention democratica.
Ecco l'articolo:
New York. Mitt Romney ha azzeccato la battuta: “La scorsa notte hanno festeggiato, questa mattina hanno i postumi della sbornia”, ha detto subito dopo la pubblicazione dei dati sulla disoccupazione, quei numeri che hanno immediatamente raffreddato gli animi democratici e che mettono a repentaglio le speranze di un rimbalzo nei sondaggi dopo la convention di Charlotte. La stoccata del candidato repubblicano è ancora più devastante perché l’immagine della bisboccia irresponsabile seguita dall’hangover è un topos che la narrazione obamiana ha ritagliato attorno all’immagine di Bush: il presidente repubblicano, dicevano, era quello che con perfetta noncuranza ha tagliato tasse, mosso guerre e accumulato debito, mentre noi ci troviamo a subire le conseguenze di una festa alla quale non abbiamo nemmeno partecipato. Romney ha rovesciato l’immagine, sospinto dai dati sul 43esimo mese consecutivo in cui il tasso di disoccupazione è al di sopra dell’8 per cento, altezze alle quali nessun presidente è stato rieletto dopo Franklin Delano Roosevelt. Il Bureau of Labor Statistics spiega che il mese scorso in America sono stati creati 96 mila posti di lavoro, contro i 125 mila delle previsioni; il trend è positivo, in termini assoluti, ma il 2012 è finora un anno peggiore rispetto al 2011 dal punto di vista occupazionale, visto che lo scorso anno la media mensile di posti creati è stata attorno ai 153 mila, contro i 139 mila del 2012. Contestualmente il tasso di disoccupazione è sceso dall’8,3 all’8,1 per cento, il che a prima vista può sembrare positivo, ma è l’esatto opposto. La percentuale viene calcolata dal Bureau of Labor Statistics in un sondaggio separato e riguarda soltanto le decine di milioni di americani che stanno attivamente cercando lavoro, mentre non tiene conto di quelli che, disperando di poter trovare un’occupazione in questi tempi di vacche magre, sono usciti dalla “work force”. Per questo gli economisti si aspettano che una fase di effettiva ripresa economica sia piuttosto accompagnata da un temporaneo aumento del tasso di disoccupazione, segno che il mercato del lavoro sta infondendo abbastanza fiducia da convincere gli americani a rimettersi alla ricerca di un’occupazione. Sono quasi 89 milioni gli americani che non rientrano nella forza lavoro, un record assoluto. A ulteriore dimostrazione del carattere fortemente negativo dei dati ci sono le reazioni degli economisti delle banche d’affari di Wall Street, fra cui Goldman Sachs e Morgan Stanley, che ora scommettono che la Fed annuncerà un nuovo round di Quantitative Easing nella riunione di mercoledì e giovedì prossimo. Gli stessi analisti erano convinti che la Banca centrale americana non avrebbe annunciato un nuovo intervento prima di dicembre o gennaio, ma fra le dichiarazioni interventiste di Ben Bernanke al summit di Jackson Hole e i dati pubblicati ieri hanno fatto cambiare il vento. Non smarrirsi nell’hic et nunc Quando ieri notte Obama è salito sul palco di Charlotte per accettare formalmente la nomination conosceva in anteprima i dati sull’occupazione, e tutti i riferimenti alla creazione di posti di lavoro sono stati prudentemente coniugati al futuro, collocati nel faldone degli obiettivi da raggiungere piuttosto che in quello delle cose fatte: “Nei prossimi anni grosse decisioni verranno prese a Washington su posti di lavoro, economia, tasse e deficit, energia, educazione, guerra e pace, decisioni che avranno un impatto enorme sulle nostre vite su quelle dei nostri figli per i decenni a venire”. La macchina elettorale di Obama ha lavorato a lungo per dare credibilità a un messaggio che giocoforza deve passare dal non entusiasmante ambito dell’hic et nunc a quello speranzoso del “forward”, del futuro, della prosperità che verrà ma che ancora l’America non può toccare con mano. La parola “hope”, speranza, è comparsa dodici volte nel discorso di Obama: è una speranza spogliata dalla lirica sacerdotale del 2008, dai suoi tratti messianici e sognanti, dalle colonne greche di Denver, ma è una speranza necessaria anche alla nuova narrazione obamiana, perché funge da ponte per il futuro, unica dimensione possibile per una leadership ammaccata dalle ristrettezze economiche e politiche del presente. Per questo la “hope”, “messa alla prova dai costi della guerra, da una delle peggiori crisi economiche della storia e dallo stallo politico”, in questa campagna elettorale non s’accompagna naturalmente al “change”, quanto piuttosto alla “scelta”, categoria più terragna che permette a Obama di entrare in una competizione fra ricette e visioni alternative per il futuro, nel tentativo di non smarrirsi nella selva oscura dell’oggi.“Su qualunque issue, la scelta che vi trovate a fare non è soltanto fra due candidati o due partiti. E’ una scelta fra due diversi percorsi per l’America, una scelta fra due visioni del futuro radicalmente differenti”, ha detto il presidente, che ha ripreso anche un passo della Bibbia in cui si dice che “il futuro è pieno di speranza”. E’ un brano tratto dal libro di Geremia, profeta che di sofferenze presenti e speranze proiettate nel futuro se ne intendeva parecchio. Per lo stratega clintoniano James Carville, quello di Obama “non è stato il miglior discorso della convention”, mentre per il suo omologo repubblicano, Karl Rove, il grande show di Bill Clinton la sera prima ha “reso Obama più debole”. Dana Milbank sul Washington Post ha parlato di un “semidio che ritorna sulla terra”, e più che la sola performance di Charlotte il giudizio inquadra il primo mandato di Obama nella sua interezza. Davanti a un popolo disilluso e tuttavia ringalluzzito nelle aspettative (quando Obama tiene un grande discorso le aspettative salgono, è fisiologico) Obama ha ammesso di essere umano, di avere commesso degli errori, di avere perso alcune battaglie con le drammatiche circostanze che si è trovato ad affrontare, ed è allora che ha aperto i cancelli del futuro e ha disegnato una strada che porta là. Come a dire: in questi quattro anni abbiamo navigato controvento, il voto è il giro di boa dopo il quale riprenderemo velocità. Lo scopo era trasmettere fiducia sulla direzione dell’Amministrazione, quella che secondo Romney ha “il peggior record economico della storia americana”, e sul futuro, la dimensione che spaventa gli americani in generale e i giovani in particolare, gli artefici della grande scorpacciata elettorale del 2008 e che ora guardano Obama come un semidio ferito, divinamente ispirato nelle promesse e crudamente umano nel mantenerle. La pubblicazione dei dati sulla disoccupazione è arrivata con un tempismo crudele per un presidente che in fondo spera ancora di cavare consensi dalle sue strepitose dosi retoriche. Il futuro, dunque. Nei prossimi due mesi Obama deve lucidare la sua leadership offuscata e nutrire la sua battaglia elettorale con la benzina universale, i soldi, quei soldi che Mitt Romney sta raccogliendo a velocità impressionante. “Dove posso essere più utile negli ultimi sessanta giorni di campagna?”, si chiedeva retoricamente il sindaco di Chicago, Rahm Emanuel, dopo aver annunciato il suo ingresso nella batteria di fundraiser del Super Pac Priorities Usa Action. E il dispiegamento di un pezzo d’artiglieria pesante come Emanuel nella raccolta fondi è il barometro del nervosismo che regna nel quartier generale di Chicago. Il futuro è un alleato infido: è quella la dimensione della rivincita obamiana dopo quattro anni di cabotaggio, di dottrine introvabili, di stimoli contestati, di ricette economiche sterili, di ideali a intermittenza, di litigi interni e telefonate rabbiose, di perdita dell’aureola in favore di altri poteri di Washington, come racconta Bob Woodward nel suo “The Price of Politics”, in uscita martedì (il giorno prima che la Fed si riunisca per decidere se dare una spinta all’economia e indirettamente anche a Obama). Ma il futuro è anche il tempo in cui si annida la paura più grande di Obama: non essere all’altezza di se stesso.
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