Sul FOGLIO di oggi, 06/09/2012, a pag.II dell'inserto, Giulio Meotti commenta l'ultimo libro di Bernard Lewis, non ancora uscito in edizione italiana, del quale il Foglio pubblica alcuni estratti. Una pagina di ottima informazione, sulla quale ci permettiamo una chiosa. In merito alla conquista islamica dell'Europa entro questo secolo, scrive Meotti "A domanda su cosa dovrebbero fare gli europei, Lewis risponde, sarcastico: “Sposatevi da giovani e fate figli”. Un consiglio del tutto fuori tempo, in Europa la natalità è scesa ad un livello tale da non far prevedere nessuna risalita. Non ha senso quindi lanciare appelli a fare figli, cadranno tutti nel vuoto. Per bene che vada, oggi di figli se fanno più pochi, molte coppie si fermano al figlio unico, moltissime altre manco quello. Sono in aumento vertiginoso le unità famigliari formate da una persona sola, per cui ci chiediamo se la soluzione non debba essere un'altra. L'unica possibile è fermare del tutto l'immigrazione islamica, almeno quella di provenienza da paesi che da noi non si integrano. L'unica eccezione è l'Albania, un paese contraddistinto da un islam moderato. Occorre accettare immigrati di provenienza non islamica, come sta avvenendo già in altri paesi.
Perchè il Foglio non apre un dibattito ?
Ecco i due pezzi:
Giulio Meotti: "L'islam prenderà l'Europa non con la spada, ma con la demografia "
Roma. Fra i più grandi esperti del mondo islamico, professore emerito all’Università di Princeton, nonostante i novant’anni passati e l’udito malmesso, Bernard Lewis se ne esce con un nuovo libro di quattrocento pagine. Un libro di memorie, “Notes on a century”, pubblicato negli Stati Uniti da Viking Press. Bernard Lewis, ebreo innamorato della storia araba, ha letteralmente creato gli studi di islamistica in occidente, in un periodo in cui gli occhi di tutti erano puntati su Mosca e le università erano pieni di lettori di russo. Quando Lewis iniziò a insegnare a Londra, alla fine degli anni Trenta, meno di cento persone in tutta la Gran Bretagna conoscevano l’arabo. Lewis è stato il primo non turco a esplorare gli archivi ottomani. Alcuni dei suoi diciotto libri sono tradotti e letti in tutto il mondo. Per anni non c’era leader arabo che non gli chiedesse consiglio. Dopo l’11 settembre, il professore è stato richiesto ai livelli più alti della politica americana. Il libro di memorie è come un congedo dello studioso le cui tesi hanno sempre avuto eco profonda nella storia. Fu Lewis a capire per primo, unico ad aver letto gli scritti dell’ayatollah Khomeini, come il nuovo regime islamico iraniano, accolto in genere come una benefica rivoluzione contro lo Scià, fosse invece un fenomeno di una inimicizia assoluta. Fu sempre Lewis a capire già nel 1998 come lo sceicco saudita Osama bin Laden, che quell’anno lanciò la sua “jihad contro i crociati e gli ebrei”, rappresentasse un pericolo mondiale. Fu sempre Lewis a indicare alla Casa Bianca che gli iracheni perseguivano con coraggio da leone il desiderio di libertà represso da Saddam Hussein. Un Lewis che anche i più acerrimi nemici rispettano. In Egitto i Fratelli musulmani, che hanno tradotto in arabo i suoi libri, lo hanno definito “candido amico o nemico onesto”. Dalle pagine del libro di memorie emerge l’uomo che scherza con lo Scià Pahlavi, che prende un tè con il primo ministro israeliano Golda Meir, che pranza con re Hussein di Giordania e che dialoga con Giovanni Paolo II. Le memorie ci parlano di un ragazzo ebreo che ha la fortuna di nascere in Inghilterra e che per questo sopravvive all’Olocausto. Un giovane talmente grato alla madre patria britannica che farà da spia al Cairo per l’intelligence di Londra. Magnifica la descrizione che Lewis fa di Kemal Atatürk, padre della Turchia moderna: “Un uomo di grande volontà e vitalità. Il suo governo è stato molto differente da quello degli altri dittatori in Europa e nel medio oriente. Era un autocrate, dominante e imperioso per temperamento, tuttavia mostrava rispetto per la decenza e per la legalità, per i valori umani e i principi politici, in aperto contrasto con il comportamento degli altri uomini di potere di maggiori ambizioni ma di minori qualità. La sua è stata una dittatura senza la paura di guardarsi alle spalle, o di sobbalzare nel terrore al suono del campanello della porta, o di sentirsi minacciati d’essere deportati in un campo di concentramento”. Fu Dick Cheney, vicepresidente americano nell’ora fatale dell’11 settembre, a fare di Lewis la nemesi dei dipartimenti di studi islamici. A ridosso dell’invasione di Baghdad, Cheney a “Meet the press” nominò il professore: “Credo fermamente, assieme a uomini come Bernard Lewis, che una forte risposta americana al terrore e alle minacce agli Stati Uniti possa calmare le cose in quella parte di mondo”. Per riportare a una certa misura il mito dell’islamologo novello Rasputin della guerra irachena, Lewis pubblicò una serie di e-mail che spedì a Stephen Hadley, allora consigliere per la Sicurezza nazionale del presidente George W. Bush. Come si evince dalle e-mail, la preoccupazione principale di Lewis era e resta la bomba nucleare iraniana. Da anni a dominare i pensieri di Lewis è lo spettro di una Europa islamizzata. Quattro anni fa, in un’intervista al Jerusalem Post, il professore disse che l’islam potrebbe diventare “la forza dominante” in Europa, perché “nel nome del politically correct gli europei hanno rinunciato a combattere la battaglia per il controllo della cultura e della religione”. Anche sul quotidiano tedesco Die Welt Lewis ha suonato l’allarme: “L’Europa sarà parte dell’occidente arabo, del Maghreb”. Adesso nell’ultimo suo libro Lewis articola meglio questo fosco scenario europeo. E lo fa partendo da lontano. “Secondo la narrativa islamica, il Profeta Maometto spedì messaggi agli imperatori di Bisanzio, Iran ed Etiopia chiedendo loro di accettare la versione finale della vera fede. L’Iran venne conquistato e islamizzato. La cristianità, nonostante molte sconfitte e perdite, è sopravvissuta a Bisanzio e in Etiopia, così come in Europa. I seguaci del Profeta hanno allora conquistato paesi cristiani come Iraq, Siria, Palestina, Egitto, Nordafrica e hanno invaso l’Europa, conquistando Sicilia, Spagna e Portogallo. Dopo centinaia di anni, i cristiani hanno ripreso la Spagna, Portogallo e Sicilia ma non l’Africa del nord. Il secondo attacco islamico venne quando gli ottomani crearono un nuovo impero in medio oriente. Conquistarono l’antica città di Costantinopoli e invasero l’Europa. Anche questa fase è finita con una sconfitta. Il collasso dell’impero ottomano durante la Prima guerra mondiale è seguito dall’espansione degli imperi europei, Inghilterra, Francia, Russia e Olanda e Italia, nelle terre dell’islam. Un dominio finito dopo la Seconda guerra mondiale. Quello che sta accadendo ora è il terzo tentativo dei musulmani di realizzare la missione divina di portare la verità di Dio a tutta l’umanità. Questa volta non sarà tramite l’invasione e la conquista, ma l’immigrazione e la demografia”. Chiede il vecchio storico: “Sarà una Europa islamizzata o un islam europeizzato?”. La prognosi è fallaciana, ma scandita da un intellettuale innamorato dell’islam: “Se continua così, alla fine del XXI secolo l’Europa avrà una maggioranza islamica”. A domanda su cosa dovrebbero fare gli europei, Lewis risponde, sarcastico: “Sposatevi da giovani e fate figli”.
Bernard Lewis: " A spasso nel secolo di Lewis "
Un anno prima della Rivoluzione del 1979, incontrai lo Scià a Palazzo, dove aveva un enorme studio con la scrivania posta all’estremità dello stesso. Credo sia un trucco mutuato da Mussolini, quello di far percorrere al visitatore una lunga stanza per arrivare al cospetto della scrivania reale. Quando entrai, la prima cosa che disse fu “Perché continuano ad attaccarmi?”. Non avendo la benché minima idea di ciò a cui si riferisse, gli dissi con grande cortesia “Chi, Sua Maestà?”. E lui li snocciolò uno dopo l’altro: “Il New York Times, il Washington Post, il Times di Londra, il Manchester Guardian e il Monde. Le cinque parche che danzano attorno al destino dell’occidente. Ma voi tutti non vi rendete conto che io sono il miglior amico che avete in questa parte del mondo? Perché tutte quelle critiche?” Dissi, tirando fuori la mia malizia, “Vede, Sua Maestà, deve ricordare che la conduzione della politica estera occidentale si basa su principi marxisti”. Questo lo sorprese. Quindi dissi “Non intendo Karl, intendo Groucho. Ha visto i film dei fratelli Marx?”. Rispose “Sì, naturalmente”. Continuai: “Ricorda il momento in cui Groucho dice ‘Non vorrei far parte di nessun club che mi volesse come membro?’ Un principio delle politiche estere occidentali consiste nel non preoccuparsi dell’amicizia di un governo che cerchi la nostra amicizia. Ci interessano solo i nostri nemici”. Disse che capiva perfettamente. Il giorno prima di questa intervista con lo Scià, ero a colazione con amici iraniani quando il mio ospite disse di aver saputo che la nipote di Sua Maestà studiava a Princeton e chiese come andasse. Risposi “Non ne ho la più pallida idea; non ha mai frequentato i miei corsi. Per quanto ne so, non si è mai avvicinata al nostro dipartimento, e non so cosa succede a tutti gli studenti a Princeton”. Il mio ospite disse che sapeva che io avrei avuto un’udienza con Sua Maestà il mattino seguente e che siccome venivo da Princeton era molto probabile che Sua Maestà mi avrebbe chiesto come andasse sua nipote. “Se gli rispondi come hai appena risposto a me, non va bene”. Replicai: “Non c’è nessun altro modo in cui posso rispondergli. Non so come vada, non l’ho mai vista”. Con un cenno della mano indicò il telefono e disse che grazie alla saggezza e lungimiranza di Sua Maestà, adesso abbiamo la linea diretta con gli Stati Uniti. “Perché non chiami Princeton per scoprirlo?”. Fortuna volle che il consulente per gli studenti stranieri fosse la moglie di un mio caro amico, quindi non solo sapevo con chi parlare, ma conoscevo persino il numero di telefono. Era Janina Issawi, la moglie del grande storico ed economista Charles Issawi. Feci il numero e rispose Janina. Chiacchierammo un poco. Lei stava facendo colazione, io avevo finito di pranzare. Con disinvolutra, dissi: “A proposito, chiamo da Teheran”. Ripresasi dallo choc, mi chiese se stessi chiamando per un particolare motivo. Dissi: “Sì”. Volevo essere molto cauto, perché pensavo che probabilmente le telefonate erano sotto controllo, quindi dissi “Domani incontro una persona molto importante che ha un parente stretto che studia da noi”. E, benedetto il suo cuore polacco, capì immediatamente. Se il mio interlocutore fosse stato un qualunque americano, mi avrebbe detto “Chi intendi? Di cosa stai parlando” senza il suo innato senso della cospirazione, ma capì. “Bene, allora come va?” chiesi. Rispose: “Oh, senza speranza. Abbiamo deciso di buttarla fuori”. “Cosa?” farfugliai. Apparentemente, la ragazza non si alzava mai prima di mezzogiorno e quindi perdeva automaticamente tutte le lezioni del mattino. Per il resto della giornata considerava le lezioni come qualcosa con cui riempire i vuoti del suo carnet di impegni sociali. Dissi: “Non potete darle un po’ di tempo in più, solo un altro semestre, fino a quando rientrerò a Princeton?”. Rispose: “La decisione è già stata presa. Cambiarla è molto difficile”. La pregai di provarci. Mi chiese di richiamarla un’ora dopo, cosa che feci. Mi spiegò che aveva sollevato la questione al suo dipartimento e aveva parlato al responsabile che l’aveva mandata dal preside, il quale a sua volta l’aveva mandata dal rettore. Tutti dicevano che non volevano revocare una decisione altrui, ma Janina disse che ci stava lavorando e mi chiese di darle un’altra mezz’ora e poi richiamarla. Lo feci. Con voce esaltata, mi disse che era tutto a posto. La ragazza avrebbe avuto un altro semestre ma se non si fosse rimboccata le maniche sarebbe stata fuori. Fui enormemente sollevato. L’anno seguente scoppiò la Rivoluzione. Se fosse stata buttata fuori, sarebbe stata rimandata in Iran e sarebbe stata in guai seri. Invece era a Princeton, e quindi, malauguratamente, all’improvviso perse la scorta e il suo status; era la nipote del diavolo perché lo Scià era molto impopolare nei circoli liberali e illuminati. Diede prova di grande coraggio e dignità e affrontò estremamente bene la situazione. L’altra conseguenza fu che suo padre mi mandò una grande confezione di caviale.
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Quando il cardinale polacco Wojtyla fu eletto Papa Giovanni Paolo II nel 1978, il fatto rappresentò un evento importante non solo all’interno della chiesa cattolica romana, ma più ampiamente in Europa e quindi, in un certo senso, a livello mondiale. Il cardinale Wojtyla fu il primo non italiano a essere eletto al soglio pontificio da molti secoli. Ancora più importante, è stato il primo eletto proveniente da una nazione profondamente e saldamente cattolica come la Polonia e ciò è avvenuto mentre la Polonia, con gran parte dell’est Europa, era soggetta alla dittatura comunista, imposta e sostenuto da una superpotenza, l’Unione sovietica. L’elezione di un polacco a quella che è probabilmente la posizione più importante in tutta la cristianità ha provocato parecchia preoccupazione tra le autorità comuniste. Con sé ha portato anche un’ondata di speranza nella popolazione polacca. Dopo attente considerazioni e consultazioni, Papa Giovanni Paolo decise che nemmeno i leader comunisti polacchi si sarebbero potuti opporre più di tanto ai suoi inviti rivolti ad alcuni dei suoi connazionali di trascorrere qualche giorno come ospiti nella residenza papale estiva a Castel Gandolfo, sulle colline non lontane da Roma. Negli anni Ottanta cominciò, come prova, a invitare piccoli gruppi di amici e colleghi polacchi a trascorrere poco tempo, durante l’estate. Le autorità polacche disposero un controllo accurato, ma non impedirono né ostacolarono che ciò accadesse. Allo stesso tempo chiamò gruppi di ospiti, composti da occidentali attentamente selezionati e con preoccupazioni, interessi e professioni condivise con gli ospiti polacchi. Nello scegliere gli ospiti provenienti dall’occidente, il Papa seguì i suggerimenti e l’aiuto del compatriota Krysztof Michalski, uno scienziato sociale che aveva vissuto per un certo periodo a Vienna e che in quella città aveva fondato e diretto l’Institute for the Human Sciences. Per qualche tempo sono stato un frequentatore dell’istituto dove, in qualità di ospite di Krysztof Michalski, ho potuto svolgere dei ruoli in questo dialogo. Fu a Michalski che il Papa si rivolse per essere consigliato su chi invitare dal mondo occidentale e, devo concludere, che fu su consiglio di Michalski che anch’io venni invitato. Dal 1987 al 1998 ha convocato una serie di incontri, alla maggior parte dei quali ho preso parte. Gli incontri si tenevano a intervalli di due o tre anni e ciascuno era dedicato a un tema principale con partecipanti di entrambi i blocchi. Venivano presentati dei saggi e questi erano poi pubblicati in una serie di volumi, sia in polacco che in tedesco. I miei saggi sono stati pubblicati in cinque di questi volumi. A parte tutto questo e aspetto probabilmente molto più importante, gli incontri formali diventavano contatti non ufficiali tra i due gruppi ospiti del Papa, un’esperienza unica e preziosa per entrambi. Eravamo ospiti del Papa, che si dimostrava un padrone di casa cortese e interessante. Ad una cena fu rivolta una domanda sull’islam e il Papa commentò che la teologia dell’islam è molto semplice. Risposi che era così all’inizio, ma che in seguito arrivarono i teologi e complicarono tutto. Il Papa non capì e mi chiese di ripetere la sciocca battuta tre o quattro volte e alla fine delle quali avevo sperato di essere scomparso sotto il tavolo. In occasione della mia ultima visita la salute del Papa stava peggiorando e il suo inglese non era più così buono. Un ospite ebreo gli chiese quale fosse il suo atteggiamento, come Papa, verso gli ebrei e il giudaismo. La sua risposta fu veramente memorabile: “Come quello nei confronti di un fratello più grande”. La profondità di questa affermazione inizia a piacere. Negli anni Ottanta venni invitato a un meeting a Vienna che era ospitato dal cardinale arcivescovo della città, Franz König, un uomo molto distinto. Era un incontro tra cristiani ed ebrei. C’erano l’arcivescovo di York e dignitari di entrambe le religioni e un gruppo di quelli che si potrebbero definire liberi intellettuali, nel senso che non avevano legami religiosi. Il cardinale arcivescovo ci accolse e parlò dell’importanza della tolleranza. Quando fu il mio turno, citai una lettera di George Washington nella quale scriveva: “Non parliamo più di tolleranza come se questa dipendesse dall’indulgenza di una classe di persone perché altri possano godere dell’esercizio dei loro diritti naturali”. Con sorpresa e soddisfazione, il cardinale arcivescovo rispose dicendo che avevo ragione e che non avrebbe più parlato di tolleranza, ma di mutuo rispetto. Ciò fece crescere enormemente il mio rispetto già considerevole nei confronti di König. E’ tipico di un grande uomo rispondere in modo così esplicito. Sarebbe stato semplice andare oltre il mio commento o ignorarlo. Un aspetto mutevole e sfaccettato della mia vita è stata la così detta “Bernard Lewis Docrtine”, che si è presentata in una varietà di forme diverse e spesso contraddittorie. Fu inventata da Lyndon LaRouche, un politico eccentrico, sul finire degli anni Settanta. Secondo LaRouche e le sue pubblicazioni, non avevo, com’era la visione generale, distinto lo sviluppo del radicalismo musulmano. Lo avevo causato, lo avevo deliberatamente fomentato allo scopo di assecondare i miei ulteriori propositi. Era per questo motivo che, tra le altre cose, avevo organizzato e condotto la Rivoluzione iraniana e altri esempi di estremismo musulmano. Per un periodo fui sottoposto a un trattamento che non potrebbe essere meglio descritto come molestia da parte degli agenti di Lyndon LaRouche. Alcuni di loro presenziavano alle mie lezioni, interrogavano la platea e più in generale i miei studenti e tentarono in diversi modi di provare la mia colpevolezza. La ragione per cui il radicalismo islamico servisse alle intenzioni imperiali britanniche non è mai stata chiarita, ma né la ragione né la limpidezza hanno mai avuto importanza tra gli obiettivi di LaRouche. Il legame con La Rouche è svanito gradualmente ma la “Lewis Doctrine” è sopravvissuta e si è trasformata in forme spesso esclusive. La più notevole è stata un articolo in prima pagina del Wall Street Journal scritto nel 2004 da Peter Waldman, un giornalista. Fu pubblicata senza una intervista o indagine direttamente rivolte a me. L’articolo era una interessante selezioni di nonsensi. La più recente e persistente forma della “Lewis Doctrine” mi vede responsabile delle politiche dell’Amministrazione Bush e in particolare per l’invasione dell’Iraq.
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La storia del mio legame con Bush aveva qualche base modesta, ma era ampiamente esagerata, distorta e male interpretata. Cominciò con la mia conoscenza con Dick Cheney ed è soprattutto con l’ufficio del vicepresidente che ho mantenuto i contatti. Dopo l’11 settembre sono stato invitato a casa di Cheney un paio di volte per cenare con lui e un piccolo gruppo del suo staff. Il mio compito era di parlare del medio oriente e di islam e trovai una audience aperta e che poneva eccellenti domande. Mi sono incontrato con questo gruppo anche nell’ufficio di Cheney diverse volte. Il mio ruolo non era quello di offrire suggerimenti politici quanto piuttosto un background – alcuni dei dettagli e delle informazioni che sono prese in considerazione quando vengono prese le decisioni politiche. Il mio ruolo nella policy-making era davvero minimo. L’esagerazione dei media a tal riguardo era assurda. Questa esperienza fece crescere la mia diffidenza per ciò che leggo e sento sulle amministrazioni in carica. Ho considerato Cheney premuroso, ed era inusuale che tra tanti politici volesse sapere cosa io avevo da dire. Abbiamo affrontato la sfida posta da specifiche nazioni. Fece delle interessanti domande, ascoltò attentamente le mie risposte e chiese pungenti controlli. Durante gli ultimi due anni dell’Amministrazione Bush l’ufficio del vicepresidente era praticamente accostato ai danni della politica e degli interessi degli Stati Uniti. Ero rattristato dall’ostinata denigrazione di Cheney da parte dei media liberal. Il Cheney che descrivono non è il Cheney che conoscevo e rispettavo. In una occasione sono stato invitato a conferire in via ufficiosa con lo staff della Casa Bianca. E’ stata un’occasione piacevole, socialmente interessante e intellettualmente stimolante. Il mio ricordo più vivido riguarda una discussione su vari argomenti con Condoleezza Rice, consigliere per la sicurezza nazionale, che mi ha chiesto di recarmi nel suo ufficio per una discussione privata. Spero sia stato d’aiuto. Sono stato invitato a incontrare il presidente George W. Bush in tre occasioni – una discussione in piccolo gruppo dopo l’11 settembre, una cena in smoking alla Casa Bianca nel 2005 e alla presentazione di una premiazione nel 2006. Mi era stato detto che qualora avessi voluto fornire dei suggerimenti avrei dovuto inviarli via e-mail a Stephen Hadley, che a quel tempo era il consigliere per la sicurezza nazionale. Così gli ho mandato qualche e-mail, che tuttavia erano sull’Iran e non sull’Iraq ed erano state inviate molto tempo dopo la guerra in Iraq. Nell’interesse di fugare i teorici della cospirazione, o magari offrire loro più sostanza per la loro delirante speculazione, permettetemi di riportare alcuni estratti da quelle e-mail del 2006: nel corso degli anni in medio oriente si è sviluppato uno schema tale per cui la gente dei paesi “amici” ci odia per il fatto che ci vede, e spesso a ragione, supportare i tiranni da cui è mal governata, mentre il popolo dei paesi “nemici”, quelli retti da governanti ostili, fanno di noi la massima speranza di liberazione dai loro governanti. Ricordo che un iraniano di alto livello mi disse: “Non c’è paese nel mondo in cui il sentimento pro americano sia più forte, più profondo e più diffuso dell’Iran”. Ho riscontrato ampia conferma di ciò, ad esempio, in un commento che gli iraniani ripetono spesso: “Avreste dovuto affrontare i vostri problemi in ordine alfabetico”, cioè prima l’Iran, poi l’Iraq… Quello che dobbiamo fare è incoraggiare la gente e spaventare i leader. La negoziazione nelle circostanze attuali produrrebbe esattamente l’effetto contrario. Ben altra linea – e migliore – è invece quella di fornire incoraggiamento e persino supporto ai movimenti di opposizione, e simpatia per le sofferenze del popolo iraniano sottomesso a padroni corrotti e tirannici. Il regime contempla due sole politiche – la tirannia in patria e il terrore all’estero – entrambe al servizio dei medesimi obiettivi… [da inizio pagina] questo come l’ultima battaglia fino alla Fine dei Tempi e non sono dunque frenati da massacri e distruzioni di ogni e qualsiasi entità, anche nel loro stesso popolo. “Allah tanto lo saprà” è la frase comunemente usata per dire che tra le molte vittime Dio sarà in grado di riconoscere i musulmani e di offrire loro accesso rapido al paradiso. In questo contesto, il deterrente che ha funzionato così bene durante la Guerra fredda, detto M. A. D. (Mutual Assured Destruction – distruzione mutua assicurata), non avrebbe alcun significato. Alla Fine dei Tempi ci sarà comunque una distruzione generale. Ciò che importa è la destinazione finale dopo la morte – l’inferno per gli infedeli e le delizie del paradiso per i credenti. Per chi possiede questo assetto mentale, la M. A. D. non è certo un limite; è un incentivo…
(Traduzione di Studio Brindani e Dario Mazzocchi) Brani estratti dal libro di Bernard Lewis, “Notes on a Century. Reflections of a Middle East Historian”, Viking, 388 pp.
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