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La Stampa Rassegna Stampa
27.08.2012 La scoperta dell'acqua calda
grazie a Federico Varese, l'esploratore che è andato fino a Tel Aviv per scoprire la prostituzione

Testata: La Stampa
Data: 27 agosto 2012
Pagina: 15
Autore: Federico Varese
Titolo: «Le nuove schiave dell’Est. 'Noi, prostitute part-time per sopravvivere a Tel Aviv'»

Riportiamo dalla STAMPA di oggi, 27/08/2012, a pag. 15, l'articolo di Federico Varese dal titolo " Le nuove schiave dell’Est. 'Noi, prostitute part-time per sopravvivere a Tel Aviv' ".


Federico Varese

Prostituzione, la scoperta dell'acqua calda. Una scoperta dovuta ad un esploratore interessato al destino tragico di alcune donne che, per sopravvivere, si dedicano alla professione (non nuova!) della prostituzione.
Dov'è andato a cercarle l'esploratore Federico Varese, presentato dalla Stampa come insegnante di criminologia a Oxford ? Ma in Israele, ovviamente, dato che è universalmente noto che cose del genere non avvengono in nessun altro Paese, sono una peculiarità dello Stato ebraico.
Come fanno alla Stampa a non accorgersi di quanto sia ridicolo un pezzo simile ?
invitiamo i lettori a mandare la loro opinione al direttore della Stampa Mario Calabresi : direttore@lastampa.it

Israele è considerato una delle principali destinazioni della tratta di esseri umani a scopo sessuale. Giovani moldave e ucraine vengono vendute ai bordelli di Tel Aviv dopo essere state rapite nei territori dell’ex Unione Sovietica. Fino a che punto è ancora valida questa immagine?

Per molti anni i giornali occidentali hanno raccontato di un fiorente traffico di giovani donne nate nell’ex Urss le quali, rapite nei villaggi della Moldavia o dell’Ucraina, arrivavano al Cairo con i loro carcerieri dopo aver fatto scalo a Mosca. Giunte in Egitto, passavano nelle mani dei Beduini che le trasportavano attraverso il deserto del Sinai, fino alla città israeliana di Beer Sheva per essere vendute ai gestori di bordelli di Tel Aviv. Questa è ad esempio la storia di «Ludmilla Balbinova» (nome di fantasia) raccontata nel bestseller di Misha Glenny, «McMafia» (Mondadori 2008). Il racconto straziante e preciso di Glenny ci riporta ai primi anni del duemila. Che cosa è cambiato nel frattempo? Glenny continua la sua narrazione con una visita a uno dei bordelli di Tel Aviv, il Banana Club. Lo scrittore inglese entra nel Club, ma non parla con nessuna delle giovani donne al lavoro («tutti in questo mercato si guardano bene dal parlare»). Ho deciso allora di completare la narrazione di Glenny e scoprire qualcosa sulle donne che lavorano oggi al Banana.

Il locale si trova nella periferia della città, circondato da capannoni di lamiera, non lontano da un altro bordello e da un famoso bar di lap dance. Sono arrivato con la mia guida un venerdì sera. Lo stabile è tutt’altro che attraente, con balconi che sembrano destinati a crollare da un minuto all’altro sotto il peso dei sistemi dell'aria condizionata. A differenza di Glenny, non entro. L’accordo è di incontrare la domenica successiva due delle donne che vi lavorano. E così due giorni dopo faccio la conoscenza di Nastya, una quarantenne bionda che arriva con la borsa della spesa. I convenevoli durano poco. Le spiego chi sono. Lei mi racconta di essere arrivata col marito nel 1993 dalla Moldavia, dove aveva studiato economia. Quando le dico che anch’io ho studiato la stessa materia, precisa: «Economia socialista, che non serve a molto!». Il marito, dal quale ha divorziato, è di origine ebraica, e Nastya ora ha la doppia cittadinanza, moldava e israeliana. Dopo il divorzio si ritrova sola, in Israele, con un bambino da crescere e con poche frecce al suo arco. Ha un lavoro fisso, fa la ragioniera in una azienda, ma lo stipendio non le basta, e così ha deciso di lavorare al Banana part-time («solo il venerdì»). «La vita è molto dura qui e per sopravvivere sono costretta a fare due lavori. Ma la cosa peggiore per mio figlio erano le continue discussioni con un padre violento e insensibile. Ora almeno abbiamo pace in casa». Quando è il momento di lasciarci, mi fa una raffica di domande, sul tempo in Italia, su Roma e sui miei viaggi in Russia. Provo un’affinità immediata con Nastya e mi interrogo su come circostanze del tutto casuali, e non solo il merito o l’intelligenza, possano determinare il nostro destino.

La mia indagine continua nel pomeriggio dello stesso giorno, quando incontro Yulia, una corpulenta venticinquenne di origine russa, che ha un libro sottobraccio. Yulia appartiene a una generazione diversa rispetto a Nastya, ma la sua storia non è troppo dissimile. Anche lei arriva in Israele nei primi Anni Novanta, all’età di sei anni. Oggi la famiglia non riesce più a mantenerla agli studi cui tiene tantissimo. Ha deciso di lavorare al Banana per poter finire il corso parauniversitario e poi dedicarsi alla sua passione, i computer («sono anche un’appassionata di science fiction!»). Anche lei, come Nastya, lavora part time («due mezze giornate alla settimana»).

Queste due storie sono solo un piccolo frammento di una quadro complesso. Eppure combaciano con studi recenti. Daphna Hacker e Orna Cohen, dell’Università di Tel Aviv, hanno appena pubblicato un rapporto sui due luoghi di accoglienza per vittime della tratta di persone a Tel Aviv. Quando i due centri – Atlas e Ma’agan – aprirono i battenti nei primi anni di questo secolo, la maggioranza dei residenti erano donne provenienti dall’ex Unione Sovietica (la definizione di «persona trafficata» consiste nell’essere illegalmente in Israele e lavorare in un bordello). Ma la situazione è cambiata negli ultimi quattro anni, quando «le nuove ospiti dei centri non sono vittime del traffico per scopi sessuali», scrivono le due ricercatrici. Le prostitute straniere individuate dalla autorità israeliane hanno oggi un profilo diverso dalla Ludmilla intervistata da Glenny. «Sono sposate, appartengono alla classe media ed entrano in Israele con visti turistici con lo scopo di prostituirsi, per poi tornare nel loro paese d’origine». Non è più la forza bruta del trafficante post-sovietico, bensì la crisi economica che spinge queste persone a vendere il proprio corpo, siano esse israeliane o straniere. Questa drammatica «scelta» getta molte donne nelle mani di sfruttatori e clienti senza scrupoli. Per questo una coalizione di attivisti israeliani, guidati dalla deputata del partito Kadima, Orit Zuaretz, propone una legge che criminalizzi i consumatori di servizi sessuali, sul modello della legislazione svedese.

Lo sfruttamento e la tratta hanno nuove vittime in questo lembo di Medio Oriente. Sempre più numerosi sono i casi di lavoratori stranieri (soprattutto braccianti agricoli thailandesi) tenuti in condizione di schiavitù da imprenditori senza scrupoli. E la rotta che dal Sinai porta ad Israele è sempre in uso. I rifugiati dall’Eritrea e dal Sudan che tentano di passare il confine vengono torturati e sfruttati, anche sessualmente, dai trafficanti beduini. La cooperazione con l’Egitto per il controllo della zona demilitarizzata del Sinai è dunque cruciale, non solo per ridurre attacchi terroristici come quello del 5 agosto.

I dilemmi per Israele sono dunque simili a quelli di paesi come l’Italia: trovare una soluzione all’immigrazione clandestina, accogliere i rifugiati, e liberare donne come Nastya e Yulia dalla schiavitù della loro professione. Ma questi dilemmi si intrecciano con la peculiare posizione geopolitica del paese e la mancanza di fiducia tra Israele e i paesi arabi. Chi ne fa le spese sono anche le vittime innocenti della crisi economica e delle guerre.

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