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La Stampa Rassegna Stampa
26.08.2012 Non è un voto a fare la democrazia
Alain Elkann intervista Dan Meridor sulla 'primavera' araba

Testata: La Stampa
Data: 26 agosto 2012
Pagina: 20
Autore: Alain Elkann
Titolo: «Primavere arabe, non basta il voto per la democrazia»

Riportiamo dalla STAMPA di oggi, 26/08/2012, a pag. 20, l'intervista di Alain Elkann a Dan Meridor dal titolo " Primavere arabe, non basta il voto per la democrazia ".


Alain Elkann, Dan Meridor

Dan Meridor, qual è la situazione di Israele dopo la primavera araba, con la guerra civile in corso in Siria, una situazione aperta con i palestinesi e con i mass-media che lasciano intendere l’imminenza di una guerra con l’Iran?

«Il Medio Oriente sembra molto instabile. Israele è un’isola di stabilità. La democrazia è viva e l’economia è relativamente buona in confronto a quella europea. Ma qualunque cosa accada, non ci sarà stabilità in Medio Oriente: la primavera araba ha creato incertezza e instabilità».

E per quanto riguarda l’Egitto?

«Sta andando verso un cambiamento storico che non si sa ancora esattamente come sarà».

E la Palestina?

«Non è chiaro chi abbia in questo momento l’autorità e a secondo di chi l’avrà vi sarà un cambio significativo. Nel mondo arabo stiamo assistendo al ritorno dei Fratelli musulmani che ormai si trovano ovunque: un tempo, cioè più o meno alla fine degli Anni Venti, erano addirittura illegali, mentre oggi hanno ottenuto una vittoria molto significativa. Certo, in Egitto e in altri Paesi arabi c’è stata una chiamata alla democrazia e alla libertà, eppure esiste un paradosso: è vero che in democrazia decide la maggioranza del popolo, ma in molti degli Stati in cui è avvenuta la cosiddetta rivoluzione, quando si è votato, la maggioranza è andata a partiti non democratici o molto religiosi».

Come mai questa crescita religiosa?

«È superficiale pensare che democrazia significhi soltanto maggioranza, la democrazia in ogni caso deve avere come base i diritti umani. Ovviamente è importante avere la maggioranza, ma se quest’ultima vuole imporre leggi religiose il problema è diverso. Stiamo assistendo ovunque a questo ritorno verso Dio: lo si capisce ad esempio dai movimenti evangelisti negli Stati Uniti o da un rinnovato peso della Chiesa in Russia. Ma lo si vede anche marginalmente tra gli ebrei e in modo molto flagrante nell’Islam: questo fatto avviene soprattutto per una ragione di identità».

Cosa c’entra l’ identità?

«C’è frustrazione verso le idee occidentali di libertà, e per questa ragione sono nati nuovi movimenti terroristici estremi come quello dei talebani o di al-Qaida. Intorno a chi muove questi movimenti c’è qualcosa di grande e di importante come la religione, che un tempo sembrava limitata alla vita privata e non aveva conseguenze su quella politica. In Europa non vedo il ritorno alla religione, ma nel mondo musulmano sì».

In che condizioni si trova Israele oggi?

«Nel mondo ebraico gli estremisti religiosi sono marginali, il 5% circa, quindi una netta una minoranza, ma non so cosa accadrà in futuro».

Con tutti questi movimenti di ritorno è difficile governare il Paese?

«Certamente non è facile. Anche perché un altro fenomeno da studiare con attenzione è l’Iran che combatte per l’egemonia del Mezzo Oriente e del Golfo: questo fatto spaventa gli arabi perché la politica dell’Iran è quella di esportare la rivoluzione un po’ ovunque, oggi si può dire che il regime iraniano sia fanatico e religioso e usi mezzi di terrore e di violenza. Inoltre in Iran hanno il fermo proposito di diventare una potenza nucleare. Quindi da un lato si assiste ad un Iran che vuole a tutti i costi diventare più forte, e dall’altra alla debolezza degli altri Paesi Arabi».

E Israele?

«La mia posizione verso i palestinesi è che bisogna cercare una soluzione di pace. Forse Abu Mazen non può parlare di Gaza, è una situazione che però non può rimanere così per sempre. Abbiamo bisogno di una soluzione e cioè di due Stati con dei confini che non siano quelli del 1967. Dobbiamo trovare degli accordi sicuri e mettere fine al conflitto ma senza altre reminiscenze, senza altre recriminazioni. Si può dire che vi sia l’accordo sulla questione di due Stati ma non quello per la fine del conflitto. Il Governo precedente al nostro, ossia quello di Olmert, quattro anni fa offrì ad Abu Mazen tutto quello che voleva, ma lui non ha accettato. Bisogna cambiare questa anomalia nella quale siamo vivendo, occorre fare tutto quello che si può per trovare la pace».

Che impatto ha tutto ciò sull’Egitto?

«Abbiamo interesse a mantenere il trattato di pace firmato da Sadat e Beghin. La stabilità e la pace in Medio Oriente dipende dalla relazione tra Israele ed Egitto. Per il momento non c’è conflitto e non c’è tensione: speriamo che continui così».

Per quanto riguarda i rapporti tra Giordania e Israele?

«Esiste un trattato di pace e dobbiamo aiutarli il più possibile. Nulla in questo momento è chiaro, comunque la Giordania è stabile e rivolta verso l’occidente. In questa situazione ci sono molti rischi ma anche delle opportunità, se guardiamo attentamente ci potrebbero essere più possibilità di alleanze con altri Paesi che hanno paura dell’instabilità. Molti non lo ammettono ufficialmente perché l’entusiasmo islamico non lo permette, ma vorrebbero stabilità e moderazione. Quando si introduce la religione le cose cambiano, un tempo c’erano dei conflitti ma non erano religiosi, si faceva la guerra ma poi anche la pace. L’Iran invece dice che avere un Paese non musulmano in Medio Oriente è una inaccettabile. Insomma, non si può risolvere un conflitto se c’è Dio, perché Dio è la verità. Il pericolo quindi è la religione. Del resto anche nel mondo arabo sunniti e sciiti sono tra loro in conflitto».

Quindi la religione ha cambiato tutti i parametri?

«Siamo nell’occhio del ciclone, non sappiamo cosa succederà e come finirà. Non so assolutamente cosa accadrà in Siria, ma se vi sarà meno controllo potrebbe diventare un luogo di terrorismo e lo stesso vale per il Sinai. Spero che l’Egitto controlli il Sinai, tanto noi non vogliamo in alcun modo attaccare l’Egitto».

Ma cosa fa Israele?

«Dobbiamo essere sempre preparati alla guerra. La guerra civile però indebolisce la Siria, e la Siria è l’unico alleato arabo dell’Iran ed è molto bene equipaggiata e armata così come il Libano».

Israele è preparata contro un attacco di armi chimiche?

«Ci siamo preparando, bisogna sempre essere attrezzati a dovere. Dobbiamo seguire una politica razionale e forte e soprattutto prevedere nuove alleanze. In un’epoca di grandi cambiamenti è importante cambiare».

La percezione all’estero è che Israele voglia la guerra con l’Iran. È così?

«È in essere una grande discussione pubblica sulla possibilità di una guerra, ma questo tipo di discussione è senza precedenti. C’è una campagna contro l’Iran nel mondo, l’Europa e l’America hanno stabilito sanzioni bilaterali. Inoltre l’America sostiene che bisogna impedire un Iran nucleare e c’è una vera e propria battaglia per convincere l’Iran in tal senso, ma quello di cui sono personalmente convinto è che non convenga e non si debba parlare o discutere troppo in pubblico di queste cose».

Che tipo di città è oggi Gerusalemme?

«Gerusalemme è una città aperta, non soltanto religiosa ma anche laica, in cui la vita quotidiana è ultra-moderna. Chi si muove nelle sue strade ha l’impressione di trovarsi in un Paese europeo: e infatti molti stati vicini non amano questo tipo di vita, o forse la invidiano. Credo che il processo di accettazione di Israele sia lungo e complesso, ma dobbiamo sempre pensare che abbiamo cominciato a esistere soltanto 64 anni fa e che quello che abbiamo fatto da allora è impressionante: ad esempio lo scorso anno abbiamo accolto un milione di emigrati dalla Russia. Ma quello che è certo è che oggi in Israele c’è tensione, perché se dovesse vincere l’Islam estremo ciò sarebbe molto pericoloso. Ripeto, è assolutamente importante stipulare una pace definitiva con i palestinesi».

E il terrorismo?

«Da più di tre anni non si sono più verificati episodi eclatanti. Con i palestinesi ci vuole maggior cooperazione, bisogna costruire più ponti e più legami per raggiungere la pace».

E i muri che dividono Israele dallo Stato Palestinese?

«Sono delle vere e proprie barriere, come quelle che esistono tra gli Stati Uniti e il Messico, ma i muri sono cominciati per via del terrorismo, e non credo che sia soltanto a causa dei muri che vi siano meno atti di terrorismo. In questo senso devo dire che l’autorità palestinese lavora con noi».

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