Il commento di Luciano Tas
Luciano Tas, storico e giornalista, ha diretto per anni il mensile ‘SHALOM’, collabora con Informazione Corretta
C’è una locuzione inglese – wishful thinking – di difficile traduzione in italiano. Approssimativamente si può dire che il wishful thinking sia un’idea maturata non tanto dalla visione dei fatti quanto da un desiderio di vederli come si vorrebbe che fossero. Non tutti questi “desideri” sono condannabili, anzi. Per esempio se si ama la pace – come tutti ovviamente amano – il desiderio è commendevole. Se però si ama la pace comunque, a qualsiasi prezzo, ecco il desiderio suscettibile di diventare pericoloso. L’esempio più classico di wishful thinking lo abbiamo avuto nel 1938 quando le potenze democratiche, Francia e Regno Unito, vollero credere di aver salvato la pace (“Peace in our time” ebbe a dire l’allora Premier britannico Neville Chamberlain al suo ritorno da Monaco, aggiungendo “pace con onore”) cedendo tutto quello che c’era da cedere, alle richieste, meglio, alle intimazioni di Hitler. La pace non era stata salvata, commentò il futuro Premier Winston Churchill, e l’onore, cioè avere tradito la Cecoslovacchia, nemmeno. Il ritardo di un anno della guerra, che alla fine scoppiò lo stesso, significò la seconda guerra mondiale con i suoi 50 o 55 milioni di morti. Questa pace ad ogni costo si chiamò, ancora con una parola inglese, appeasement, cioè “l’ottenimento della pace a un prezzo eccessivo”, ma, se mi si consente l’errore grammaticale, davvero “troppo” eccessivo perché il punto d’arrivo dell’appeasement è una guerra più vasta e rovinosa. Non è la prima volta, dalla fine della seconda guerra mondiale, che il fantasma di Monaco 1938 viene rievocato, ma oggi il wishful thinking che fu di inglesi e francesi, si è ammantato di nuovi adepti e di nuove valenze. Mi riferisco alla “visione desiderosa” del problema costituito non tanto o non solo dal terrorismo islamico, ma dal dilagare “politico” di quel terrorismo negli animi delle popolazioni di paesi a cui i terroristi fanno credere, come era stato fatto credere in Europa nei secoli bui che “Dio lo vuole” e che ogni efferatezza è una rosa che si offre a chi uccide un Crociato. Già, i Crociati sono stati spesso evocati, e la sconfitta finale di un Islam che aveva dominato una parte d’Europa doveva ora essere vendicata. Nulla nel Corano giustifica questo rumore di scimitarre, ma può darsi che rappresenti per quei popoli una sorta di riscatto dallo stato di soggezione e miseria che caratterizza anche i paesi dove sgorga il petrolio. Anche qui abbiamo degli esempi. Mi riferisco alle celebrate “primavere arabe”, la cui scintilla può essere venuta da giovani in perfetta buona fede e stanchi delle malefatte dei loro governanti, ma che sono serviti a dare il via a sollevazioni sanguinose il cui esito non sembra aver portato a nuove strutture democratiche. In Libia certamente il potere dispotico di Gheddafi era durato anche troppo, ma la guerra civile che, con il determinante aiuto militare dell’Occidente che su quella guerra aveva fatto conto e i propri conti, ha fatto crollare una dittatura per sostituirla con due, una in Tripolitania e l’altra in Cirenaica, regioni che difficilmente resteranno incollate al paese chiamato Libia. La guerra civile che oggi insanguina la Siria non vede di fronte “buoni” contro “cattivi”, o almeno non se ne ha traccia. Come non si ha traccia di una qualsiasi altra “primavera”. Eppure dalle nostre parti si è più pronti a inneggiare che a riflettere. Il wishful thinking dei nostri giorni ha, è vero, vita corta, ma i suoi effetti rinfocolano un nuovo (o antico) male che sembra inquinare le migliori intenzioni. E faccio un esempio. Il 5 agosto scorso sedici soldati egiziani di guardia al confine con Gaza venivano trucidati. Da chi? Mah. La notizia era riportata il giorno dopo dai mezzi d’informazione in modo molto prudente. Attenzione. Una riga sopra al titolo: “L’attacco. L’allerta è scattata in tutta la regione, appello del governo Netanyahu a chiudersi in casa”. Il titolo:” Battaglia al confine Egitto-Israele”. Sotto ancora: Terroristi uccidono 15 soldati (erano 16) del Cairo. Intercettati dallo Stato ebraico”. Ora, il fatto che Netanyahu, Premier israeliano, abbia invitato la gente (israeliana) a chiudersi in casa, può suggerire pensieri. Se lo fa, ci si potrebbe chiedere, non sarà mica perché teme la vendetta e dunque… Quel “Battaglia al confine Egitto-Israele” non chiarisce di quale battaglia si era trattato. Perché non dire subito che si trattava di terroristi islamici? Si capisce la prudenza, la delicatezza e così via, ma perché lasciare, almeno a prima vista, nel dubbio? Il fatto è che dopo questo 6 agosto, sulla vicenda cala un provvisorio silenzio. Prudenza. Solo due o tre giorni sono necessari per riparlare del massacro (i soldati egiziani non hanno avuto neanche il tempo di imbracciare un’arma) e si informa che elicotteri israeliani a combattimento hanno distrutto le due autoblinde di cui si erano impadroniti i “jihadisti” prima di varcare il confine e dirigersi verso i centri israeliani. Israele poi forniva all’Egitto le coordinate per individuare gli altri terroristi e ucciderli. Chi erano questi terroristi? Jihadisti, si è detto per tenersi nel vago e non chiamarli loro e i loro mandanti, con il loro nome. Meno vago l’Egitto che provvedeva a chiudere la maggior parte delle gallerie o cunicoli scavati tra l’Egitto stesso e Gaza e non temere di accusare Hamas dell’attentato. Forse sì e forse no, ma se gli attentatori non fossero stati di Hamas o almeno complici di Hamas, perché mai il nuovo Presidente egiziano Morsi avrebbe ordinato di chiudere a doppia mandata il confine con Gaza? In Occidente però prudenza. Meno prudenza viene esercitata quando, se non c’è altro da imputare allo Stato ebraico, viene ricordato che Israele “stringe i tempi” per attaccare i siti iraniani dove si prepara la bomba atomica. Si pubblicano persino le cartine con i percorsi che devono fare gli aerei (o i missili) israeliani per colpire quei siti. È strano che non venga in mente a nessuno che in ogni paese i responsabili della Difesa fanno sempre i “compiti” e nei loro cassetti ci sono i progetti per eventuali misure di difesa o di offesa. Spesso si svolgono le Manovre militari proprio per testare un piano o l’altro. È probabile che venga preparato qualche nuovo attacco informatico da parte d’Israele, che ha qualche legittima preoccupazione per i preparativi bellici dell’Iran, i cui missili oggi sono in grado di raggiungere Roma, tanto per indicare il possibile chilometraggio. Quanto però a scatenare una guerra atomica, sembra una soluzione più difficile. Non si può dimenticare che Israele ha l’estensione di un’unghia nel vastissimo territorio islamico, magari un’unghia intelligente che però non può farlo dilatare territorialmente. L’Iran potrebbe subire gravi danni e piangere gravi perdite umane, ma Israele, l’unhia del mono arabo, scomparirebbe. La speranza che alla fine le idee liberali, le strutture politiche delle democrazie, possano essere assorbite dai popoli islamici e fatte proprie nella libertà di pensiero, di espressione e di religione, è una speranza legittima, ma di troppo lungo periodo. Nel frattempo i sentimenti nei confronti degli arabi non alzano solo la bandiera buonista, ma mascherano malamente altri sentimenti, l’odio per Israele, cioè l’antisemitismo. È probabile invece che in tempi più brevi a fare breccia nella corteccia dell’estremismo terroristico, siano gli arieti e le catapulte dei computer, di Internet, di Google, dei blog, di facebook, twitter e quant’altro, insomma quanto di facile diffusione è oggi facilmente proposto. Sono questi che rappresentano la chiave del cambiamento, al riparo della censura. Non aiuterà quei popoli l’ansia di piacergli, di dargli sempre ragione, riesumando sotto veste rinnovata antiche vergogne, antiche colpe: non li aiuterà un antisemitismo che male si mimetizza truccandosi da alfiere di pace.