Riportiamo dalla STAMPA di oggi, 14/08/2012, a pag. 14, l'articolo di Andrea Malaguti dal titolo " Siria, esecuzioni e torture anche i ribelli sotto accusa ", a pag. 27, l'articolo di Marta Dassù dal titolo " Per la Siria ci vuole una terza via", preceduto dal nostro commento.
Ecco i pezzi:
Andrea Malaguti - " Siria, esecuzioni e torture anche i ribelli sotto accusa"
La tortura e la barbarie non ci restituiranno i nostri morti. E le azioni efferate non faranno altro che renderci come il regime» Tweet di @Rafif Jouejati dopo un video diffuso su Internet che mostra i ribelli gettare da un tetto i corpi di alcuni soldati dell’esercito siriano.
Si è rotto il vaso di Pandora. E adesso c’è solo sangue. Dappertutto. La Siria è un macello in cui non si salva nessuno e dove nessuno è al sicuro. L’esercito di liberazione e i militari governativi usano gli stessi metodi selvaggi, mentre le fosse si riempiono di cadaveri e jihadisti calati dall’Europa e dall’Africa aggiungono violenza a violenza nella certezza incrollabile che quando il tiranno Bashar Al-Assad sarà cancellato toccherà alla sharia riportare ordine e pace nel Paese.
Nelle ore in cui le forze fedeli al regime intensificano i bombardamenti su Damasco e Aleppo (150 i civili uccisi nelle ultime quarantotto ore) e continuano i rastrellamenti nei quartieri di Qaimerya, al-Qashla, Shagut e nella Città Vecchia, il Los Angeles Times mette in rete un filmato in cui mostra la ferocia degli autoproclamatisi «eroi di Al Bab». Sono soldati dell’Esercito di Liberazione che salgono all’ultimo piano di un ufficio postale. Hanno le granate. E le lanciano sul tetto. Cinque uomini perdono la vita. Cecchini di Assad. I ribelli esultano. Lanciano i cadaveri nel vuoto. La folla che si è radunata sotto grida estasiata il loro nome. La normalità del male.
Il video scatena le proteste della rete, una sorta di impersonale gigantesco tribunale planetario che sposta umori e sensibilità, così un portavoce del Comitato di Coordinamento di Al Bab sente il dovere di giustificarsi: «Quegli uomini erano criminali. C’era molta rabbia. Quello che è accaduto è orribile. Le vittime sono state sepolte secondo il rito islamico. Dovremmo rispettare i morti anche se sono nostri nemici». Lo dice come se un equilibrio fosse possibile, come se in quello stesso istante la Tv di Stato non stesse annunciando l’assassinio del giornalista Hatem Abu Yahiya, rapito assieme alla troupe nella provincia di Al Tal. «Non sono prigionieri. Sono ospiti. Li lasceremo andare quando cesseranno i bombardamenti indiscriminati delle truppe governative». Anche il linguaggio diventa surreale.
Abu Yahiya è il quinto reporter ucciso in Siria dall’inizio dell’anno. Ed è solo un caso se anche i nomi dell’inglese John Cantlie e dell’olandese Jeroen Oerlemans non si sono aggiunti alla lista. È Cantlie a raccontare la storia sul Sunday Times. Diciannove luglio. Lui e l’olandese entrano il Siria dalla Turchia assieme a una guida: Mohamed. Hanno fame. E sete. Vedono delle tende e decidono di chiedere ospitalità. «I siriani sono amichevoli con i giornalisti occidentali». Rivolgono il saluto di sempre: Salaam alaikum, la pace sia con voi. Stavolta la risposta è un kalashnikov puntato sulla faccia. «Credevamo fossero Shabiha, le forze speciali del governo che seminano terrore nella regione. Invece erano jihadisti venuti da fuori convinti di potere imporre la sharia una volta caduto il regime. Erano una trentina. Metà di loro era cresciuta a Londra. Come me. Parlavano un inglese impeccabile: siete spie dell’MI5, preparatevi all’Aldilà». I tre provano la fuga appena cala la sera. «Ci hanno inseguito. Sparato addosso. Ripresi. Una pallottola mi ha trapassato un braccio. Jeroen è stato ferito alla testa. Solo Mohamed ce l’ha fatta. Uno dei jihadisti londinesi mi ha raccontato di avere lavorato in un supermercato vicino a casa mia. Poi ha aggiunto: cercando la fuga avete firmato la vostra condanna a morte. E mi ha orinato addosso». Perché siete salvi John? «Perché Mohamed ha cercato aiuto. E l’ha trovato. Ci hanno salvato i ribelli antiregime». Sono arrivati con le jeep e con le armi. Hanno fatto scappare i combattenti islamici. «Quella gente non ci rappresenta. Noi vogliamo solo un mondo più giusto», hanno giurato, sicuri di conoscere il confine impossibile tra la giustizia e l’orrore.
Marta Dassù - " Per la Siria ci vuole una terza via "
Marta Dassù
Se questi sono i risultati dell'incontro ad Aspen fra americani, europei e cinesi, forse sarebbe meglio non programmarne per il futuro.
La soluzione della terza via per la Siria è talmente assurda che persino Marta Dassù la ritiene impraticabile.
Forse gli illustri partecipanti al convegno di Aspen potrebbero dare il buon esempio organizzando - perchè no? - una flotilla umanitaria che attracchi a un porto siriano, ma subito, altrimenti sono solo chiacchiere, oltre a tutto, riteniamo, molto costose.
Ecco il pezzo:
Caro Direttore, intervenire in Siria porrebbe rischi simili alla guerra in Iraq, più che alla guerra di Libia. Per chiunque guardi a Damasco, il punto di riferimento è Baghdad. Questo dato di fatto, unito al possesso di armi chimiche da parte dell’esercito di Bashar-Al Assad, spiega parte della prudenza americana. Certo, si potrebbe abbattere con la forza l’erede non designato del Leone di Damasco, ma sarebbe poi difficile stabilizzare un Paese spaccato da tensioni settarie, diviso fra sciiti (nel caso siriano, alawiti) e sunniti, appoggiati rispettivamente da Iran e Arabia Saudita. Non solo: l’opposizione siriana include, come quella irachena, fazioni legate ad Al Qaeda. In che modo appoggiare le componenti moderate della resistenza ad Assad, senza finire per «premiare» anche l’estremismo radicale?
Barack Obama esita da mesi a compiere una scelta netta: come ha dimostrato appunto il precedente dell’Iraq, intervenire con la forza militare in contesti del genere è una scelta difficile, che impegna a lungo termine sul terreno. Ed è una scelta politicamente costosa. Compierla nella situazione di oggi, a due mesi circa da elezioni americane dominate dall’economia, appare quasi impossibile. Tuttavia, come ha confermato un incontro ad Aspen fra americani, europei e cinesi, anche la linea del «non intervento» comincia a diventare insostenibile di fronte alla gravità della crisi umanitaria. Anche non intervenire ha dei costi. E la coperta usata fino ad oggi – la mancanza di un mandato da parte del Consiglio di sicurezza, dati i veti di Russia e Cina – sembra in qualche modo troppo corta.
«Sono a favore di un impegno più deciso e più diretto perché non possiamo restare inerti mentre la gente viene uccisa»: Madeleine Albright, segretario di Stato ai tempi di Clinton, ha espresso in questi termini, nel colloquio di Aspen, il disagio di gran parte dei democratici, non solo dei repubblicani, per l’impotenza occidentale di fronte ai bombardamenti di Aleppo. Dopo un anno di scontri brutali, le vittime della guerra civile stanno lievitando, sono ormai molto più numerose di quelle della guerra in Libia. Vanno aggiunti centinaia di migliaia di sfollati e rifugiati, in fuga verso Giordania, Turchia, Libano, Iraq.
Rompendo il dilemma fra i due estremi - impotenza occidentale o intervento militare - è possibile immaginare una «terza opzione»?
Nessuno, nell’amministrazione americana e in quelle europee, prefigura un’azione militare sul terreno. Il precedente iracheno, si è visto, funziona potentemente da freno. Ma anche una politica di «sanzioni e basta», combinata a piani di pace affidati alla mediazione della Lega Araba e dell’Onu, sembra non funzionare: in mancanza di un accordo con la Russia, che difende attraverso Damasco i suoi residui interessi strategici in Medio Oriente, una soluzione negoziata appare lontana. E ci vorrà ancora tempo perché le defezioni al vertice del potere alawita segnino un vero sgretolamento del regime di Bashar. In questo contesto, l’amministrazione Obama si sta spostando verso una politica di sostegno attivo all’opposizione che combatte Assad sul terreno, in accordo con gli alleati regionali – Arabia Saudita e Qatar, anzitutto. Parallelamente, Hillary Clinton ha cominciato a discutere con Ankara la possibilità di istituire una no fly-zone sulla Siria e zone rifugio ai confini con la Giordania. Il calcolo è che, alterando gli equilibri militari sul terreno, un accordo politico sulla successione ad Assad diventerà meno arduo: anche Mosca, alla fine, lo prenderà in considerazione. Uno degli obiettivi essenziali è di arrestare un rischio già evidente di contagio regionale, l’allargamento del conflitto al Libano, alla Giordania e infine all’Iraq.
Il problema, hanno ricordato ad Aspen gli interlocutori cinesi, è che questo tipo di attivismo può finire per scivolare verso una sequenza «libica»: da un intervento iniziale limitato – e che Pechino non aveva ostacolato a New York – a una vera e propria guerra. Per la Cina, il precedente negativo è la Libia. Se oggi Pechino è iperprudente sul caso siriano, lo è per ragioni diverse da Mosca: non per esercitare una sua ultima chance di influenza in Medio Oriente, ma perché si è sentita in qualche modo «beffata», sul caso libico, in Consiglio di sicurezza. Vedremo. Intanto, con un’apertura inedita, uno dei partecipanti cinesi al dialogo di Aspen ha cominciato a parlare di «interferenza responsabile»: una sorta di diritto di ingerenza limitato, che escluda azioni militari dirette ma permetta di contenere la tragedia umanitaria.
E’ davvero realistico pensare che si possa aiutare una popolazione colpita e ferita senza farsi coinvolgere nella dinamica militare di un conflitto che non sembra avere (per ora) una soluzione diplomatica?
Il dilemma che la Siria pone alle diplomazie occidentali è questo. La risposta è tutt’altro che semplice: si tratta di capire fino a che punto e come appoggiare l’opposizione che combatte Assad sul terreno, tentando così di condizionarla e plasmarla. Solo con un impegno più attivo, verso cui l’Italia sta giocando le sue carte (umanitarie e politiche), americani ed europei avranno anche una voce sui futuri assetti della Siria. E potranno sperare di ottenere garanzie concrete sul rispetto delle minoranze, di tutte. Prima che sia troppo tardi.
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