Cosa propone l’icona letteraria israeliana David Grossman dalle colonne di Repubblica e Haaretz per spegnere le centrali atomiche iraniane? Una tenda di protesta a Tel Aviv. Per protestare forse contro l’arricchimento dell’uranio e la minaccia di una nuova Shoah da parte dei mullah? No. Per criticare “l’estremismo” del premier israeliano, Benjamin Netanyahu, da Grossman definito “monomaniacale”. Legittime e sensate sono certe critiche della classe intellettuale israeliana rispetto all’ansia pre-atomica che stiamo vivendo all’ombra del possibile strike israeliano. Ma è lecito chiedersi se la paura di Grossman non sia un modo per rifugiarsi nella più nobile noncuranza, addirittura mettendo in ridicolo la concezione di Israele quale “nazione eterna”. C’è un divario crescente tra la pretesa “buona coscienza” di questi scrittori e il realismo della storia ebraica, alle prese con la più tragica scelta esistenziale di Israele dal 1948 (bombardare o no i siti iraniani). Non solo Grossman ignora la prospettiva vera di un conflitto che per i nemici d’Israele può cessare soltanto con la distruzione dell’“entità sionista”. Nel suo articolo, Grossman legittima anche il più letale dei paradigmi, che ricorre anche nella poesia sciagurata di Günter Grass che tante polemiche ha sollevato di recente: Israele deve cessare il suo ruolo di “occupante”, “attaccante” e “oppressore” se si vuole che l’assedio finisca, palestinese o iraniano che sia. La cosiddetta moralità di questi scrittori ebrei non è più in sintonia con la sicurezza di Israele e la sua stessa esistenza, identità e memoria. Questi letterati, che con i loro articoli campeggiano sulle prime pagine dei maggiori giornali europei, attraggono una così grande attenzione all’estero grazie alla nociva influenza che hanno sulla reputazione di Israele, dal momento che diffondono le più scorrette distorsioni nei confronti del proprio popolo e del loro stesso stato. Le parole di Grossman sono minate da una “langue de bois” irresponsabile, indifferenti al criterio di responsabilità della politica e alla concreta questione della sicurezza esistenziale di uno stato sotto minaccia pre-nucleare.
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