Su LETTURA, supplemento del sabato del CORRIERE della SERA, Livia Manera intervista oggi, 29/07/2012, a pag.12, Nathan Englander, con il titolo "Englander: chi penserebbe a Nabokov babysitter ?

Nathan Englander (nella foto sotto) è nato nel 1970 a New York e vive a Gerusalemme. In Italia sono usciti «Per alleviare insopportabili impulsi» (Einaudi), e «Il ministero dei casi speciali» (Mondadori). «Di cosa parliamo quando parliamo di Anne Frank» esce il 4 settembre nei Supercoralli di Einaudi.
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Esiste uno scrittore capace di prendere le parti dei nemici più acerrimi — israeliani e palestinesi, ebrei laicizzati e fanatici ortodossi, rabbini e prostitute — e farsi un sacco di amici ed estimatori. Difficile trovare negli Stati Uniti un narratore che susciti più affetto di Nathan Englander.
Basta guardare la quarta di copertina della sua nuova raccolta di racconti What we talk about when we talk about Anne Frank (Di cosa parliamo quando parliamo di Anne Frank, in uscita da Einaudi a settembre), per rendersi conto che coetanei competitivi come Jonathan Franzen, Michael Chabon, Colum McCann, Jonathan Safran Foer e Dave Eggers, sono pronti a inchinarsi all'«umiltà e alla dirittura morale» di questo storyteller «che ha il coraggio di trattare tragedie di larga scala con una comicità di grana fine» (Franzen). Englander, in effetti, è come un ponte tra due mondi: uno scrittore nato quarantadue anni fa nella comunità ortodossa di Brooklyn, che ha studiato in una Yeshiva e si è laicizzato all'età di diciott'anni. Che fortuna per uno scrittore giovane e di talento, avere due set di parametri morali — laico ed ebraico ortodosso — con cui affrontare i temi che gli stanno a cuore: l'ambiguità dei concetti di giustizia e ingiustizia; il potere di corruzione della violenza su oppressi e oppressori, la distanza tra ciò che è virtuoso per una cultura e inaccettabile per un'altra.
È di questo che trattava il suo libro d'esordio "Per alleviare insopportabili impulsi", ed è di questo che parlano anche i nuovi racconti, storie di coloni alle prese con l'intifada, di giovani laici e religiosi, e di sopravvissuti all'Olocausto che diventano carnefici.
Eppure salta sempre fuori qualcuno che le rimprovera di essere apolitico. Vuole chiarire una volta per tutte questo equivoco?
«Sono una persona cresciuta in un mondo in cui tutto era o bianco o nero, e perciò ho sviluppato un'ossessione per le zone grigie. Per esempio: il mondo non è un luogo giusto. Una volta che ne prendi atto, come traduci in narrativa l'idea che la giustizia non esiste? Nel racconto Camp Sundown, ho scritto di un gruppo di anziani ebrei in campeggio che si alleano contro un altro campeggiatore che accusano di essere un criminale nazista travestito da ebreo. Lo è, non lo è? È difficile rispondere».
Chi è il suo lettore ideale?
«Chiunque sappia leggere una storia per il piacere di leggere una storia e vederci dentro l'universale».
Nabokov diceva che la letteratura non è nata quando un ragazzo è entrato in un villaggio gridando al lupo al lupo, ma quando un ragazzo è entrato gridando al lupo al lupo, e non c'era nessun lupo.
«E vero, è quello che nasce dopo che è interessante. Per me la Storia — che sia il ricordo dell'Olocausto o il primo insediamento di coloni — è solo il punto di partenza per esplorare la bellezza e l'arte. Non credo che nessuno, dopo Lolita, avrebbe mai chiesto a Nabokov di fare da baby sitter alla propria bambina. Non era quello il punto».
Il racconto che dà il titolo al suo nuovo libro riprende un celebre racconto di Raymond Carver, «Di che cosa parliamo quando parliamo d'amore». Come le è venuta l'idea di riscriverlo?
«Erano quindici anni che non rileggevo il racconto di Carver. Tutto quello che ricordavo era: due coppie intorno a un tavolo, una bottiglia di gin nel mezzo e la luce che cambia. Averne un ricordo vago mi ha reso libero di inventare. Non c'è niente che mi spaventi di più di quelli che dicono: ogni storia è già stata scritta. Allora perché baciare una ragazza? Ogni ragazza è già stata baciata. Tutti noi scrittori potremmo riscrivere il racconto di Carver alla nostra maniera, e portarvi tante novità da dimostrare che la fiction ha possibilità infinite».
Il tema su cui divergono le due coppie nel racconto di Carver è l'amore. Nel suo, invece, i due giovani ebrei laici americani si confrontano con una coppia ortodossa israeliana, e il tema diventa l'identità e l'appartenenza religiosa. Come hanno reagito i lettori?
«È successa una cosa straordinaria. Tra le lettere che ho ricevuto, ce n'è stata una, della scrittrice Ann Patchett, che mi ha fatto notare che il racconto di Carver veniva da un'idea di Cechov. Non lo sapevo. E ho pensato: che meraviglia calarsi nell'identità di un altro e appropriarsi di un'opera d'arte in questo modo! Insomma: fare mia l'opera di un altro e poi scoprire che l'altro aveva fatto la stessa cosa con un altro ancora. È stato il dono dei doni».
Le coppie del racconto finiscono per giocare al gioco di Anne Frank, chiedendosi chi li nasconderebbe o li denuncerebbe in un nuovo Olocausto. È un gioco che ha mai giocato?
«Come no! Io e mia sorella ci giocavamo sempre! Quando conoscevamo una nuova coppia, lei diceva: lui ci nasconderebbe, lei invece ci denuncerebbe, o il contrario. E io sapevo che era un'intuizione precisissima perché aveva colto qualcosa nella loro anima. Allora mi sembrava un gioco del tutto naturale. Solo oggi, a distanza, capisco quanto fosse patologico!».
Sa cosa colpisce di lei, Englander? L'energia, e anche l'allegria. La maggior parte degli scrittori americani, al suo confronto, sembra depressa...
«In effetti, ho tanta energia che non so cosa farne. Per me scrivere è la cosa più gioiosa al mondo, anche se è un processo con alti e bassi. È come essere assuefatti all'eroina e abbassarsi alle cose più orribili, mentire, rubare, e poi, nel momento in cui ti appropri finalmente di ciò che cerchi, trovare un'emozione e un benessere assoluti...»
Una metafora drammatica.
«Perché essere scrittore, mi creda, è imparare a vivere la vita dello scrittore. Le farò un esempio. Quando sei dentro una storia e dei personaggi, tu non esisti più. E lo spazio tra l'energia creativa e l'esecuzione è luogo dove si annida la tortura. Il trucco è riuscire a sostenere quell'ansia fino al momento della creazione, che è emotivamente così forte che quando le cose vanno a gonfie vele ti ritrovi ad alzarti e farti un caffè perché quasi non ce la fai a sostenerlo... Si è mai chiesta perché Philip Roth scriva più libri di tutti quanti noi? Non perché riesca a battere più veloce sui tasti. Ma perché ha molta più forza d'animo di noi scrittori più giovani e riesce a fronteggiare quell'emozione senza sottrarvisi. Abbiamo molto da imparare».
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