"La lettura del Sabato", per chi non l'ha dimenticata, per chi non la conosce ancora, sul FOGLIO di oggi, 28/07/2012, a pag.IX dell'inserto, con il titolo "Brin, o il Bon Ton", Sandra Petrignani rievoca le leggendaria figura di Irene Brin, la più attenta, acuta scrutatrice del costume italiano.
Irene Brin
Irene Brin, chi era costei? “La fustigatrice dei costumi, la più insolente, la più brillante delle giornaliste italiane” la definisce l’Almanacco della donna del 1943. Una che, secondo il suo grande amico Indro Montanelli, ha “inventato un nuovo modo di vedere (con l’occhialetto) le cose e di descriverle” acquisendo “una popolarità mai raggiunta da nessuna scrittrice in Italia e che tuttavia sembra lasciarla, l’ingrata, scontenta e insoddisfatta di sé”. Una che ha insegnato alla classe media rampante del Dopoguerra, lanciata verso il boom “a depilarsi, deodorarsi, curarsi, a lavarsi di più” (Lietta Tornabuoni). Non si sa molto di lei, se non che fu l’antesignana di un certo giornalismo fra il colto e il glamour di cui qualche splendido esempio è stato raccolto ormai più di trent’anni fa dalla Sellerio in un libretto prezioso: “Usi e costumi 1920-1940”. Ecco un ritratto delle donne a dieta: “E tutte mangiavano insalata e aranci, senza olio, senza zucchero. Tutte si pesavano, si confrontavano le cinture… Le gote cave, gli zigomi sporgenti, gli occhi profondi, l’amarezza del sorriso, erano non solo distinti, ma ammirevoli: le fanciulle divenivano eteree e si ammalavano di stomaco”. Sulla voga degli animali domestici: “Accanto ai cockers, ai bassotti, ai dobermann, i terranuova furono e sono ricercatissimi. Il loro slogan dice: ‘Costano molto, ma sostituiscono la bambinaia, nell’assistenza ai vostri figlioli’. Un vecchio Olandese, stabilito ora a Bordighera, dove tiene una clinica per cani, mi ha assicurato che i terranuova, prima di qualsiasi altro cane, imparano a leggere e scrivere. Il vecchio Olandese è convinto che bisogna combattere e abolire l’analfabetismo presso le bestie”. Sulla mania di creare piccoli giardini domestici: “Nelle case private si discorreva, con impegno, della prossima installazione giardinesca ed aerea: ci metteremo dei tulipani, degli ireos, una fontana con schizzo. Ma generalmente ci si accontentava del basilico, degli odori, personalmente sorvegliati dalla cuoca, e solo il bucato steso ad asciugare rallegrava gli orizzonti dei Parioli”. Così dalla sua penna veniva fuori in quel periodo l’affresco di un’Italia vanesia e Liberty, ignara del baratro su cui stava per affacciarsi. Era elegantissima, la Brin, e calzava estate e inverno scarpine dal tacco altissimo, che erano quasi dei sandali, fermate da un cinturino sul tallone e aperte anche davanti a lasciar vedere le unghie smaltate. Un suo vezzo. Come quello di non portare gli occhiali pur essendo miope. Così il suo sguardo celeste, tanto chiaro da sembrare trasparente, vagava in una nube trasognata. Sarà la prima a usare le lenti a contatto, ma fino a metà degli anni Cinquanta non le avevano inventate, o almeno in Italia non erano ancora arrivate. A Roma abitava, con il marito Gaspero Del Corso, un attico arredato in modo ricercato, dentro palazzo Torlonia in via Bocca di Leone, che finiva spesso sulle pagine dei rotocalchi. Ma la coppia aveva anche comprato una casa a Trastevere, quartiere di tagliaborse e di banditi che negli anni 50 stava cambiando pelle, seminato di cantieri per le ristrutturazioni; restava un rione popolare, ma pieno di americani e di artisti, di musicisti e di latin-lover a caccia di straniere. Pittoresco, insomma. E ogni giorno Irene ci pescava dentro un’idea per i suoi articoli. In realtà dietro il sofisticato nome Irene Brin, se ne nascondeva uno piuttosto comune, Maria Vittoria Rossi, detta Mariù, nata il 14 luglio del 1911 a Roma da una famiglia di militari liguri di Bordighera. La madre, un’ebrea viennese, educa le figlie all’indipendenza e alla cultura. Così la giovane Maria Vittoria si industria per farsi strada nel giornalismo pubblicando però i suoi articoletti sotto falso nome, perché non stava bene per la figlia di un alto ufficiale del re sporcarsi le mani con un mestiere tanto cheap. Prendo queste informazioni, come quelle che seguiranno, da una recente biografia, “Mille Mariù. Vita di Irene Brin”, di Claudia Fusani, pubblicata da Castelvecchi, che viene finalmente a riparare la colpevole cancellazione che di questo personaggio centrale nella nostra storia giornalistica e artistica è stata perpetrata praticamente da quando è morta, in età relativamente giovane, nel 1969. Destino comune di molte donne illustri nella nostra fallocentrica tradizione, ma non è comunque l’unica ragione della dimenticanza.Purtroppo il pubblico italiano non ama le biografie, i memoir, i libri testimonianza. O piuttosto sono gli editori a sostenere questo. Sta di fatto che i lettori non si affezionano come potrebbero a scrittori, artisti, vari protagonisti di epoche diverse e le nuove generazioni, salvo i pochi nomi tramandati sui banchi di scuola, ignorano totalmente le vicende e le opere di autori per niente disprezzabili e che, comunque, sono anelli di una catena necessaria a tenere insieme una cultura, il cordone ombelicale per la trasmissione del nutrimento fondamentale a fare di gente sparsa una comunità, una nazione. E dunque Maria Vittoria Rossi firma come Marlene o come Oriane o semplicemente Mariù, fino a osare nome e cognome: Mariù Rossi, e intanto si lamenta di essere una e centomila, mentre vorrebbe un’identità forte e unitaria, “vorrei essermi fedele” dice. Evidentemente, fragilità a parte, lo è, se nel ’38 il futuro editore Leo Longanesi, allora direttore del romano Omnibus, la riconosce e la stana sotto i vari pseudonimi e l’assume nel suo innovativo settimanale che durò solo due anni, ma fu il prototipo dei rotocalchi popolari del Dopoguerra. Non solo, quel maestro di stili giornalistici, uno per ogni giornale che fonda e per ogni professionista che inventa, le trova un nome che meglio non potrebbe rappresentarla e, in qualche modo, la crea. Le inventa e le insegna, tagliandole drasticamente i pezzi, facendoglieli riscrivere fino allo sfinimento, la personalità che aveva intuito in lei. Un carattere che sta tutto dentro il nuovo nome: Irene Brin, leggero e tintinnante come una coppa di champagne. Perfetto per una donna che si autodefinirà “specialista in frivolezze” ma traduce Carson McCullers, vive in una dimensione internazionale, descrive “la mondanità sotto forma d’intelligenza”, è coltissima ma non si perderebbe mai una sfilata di moda. Così Irene-Mariù fonda un nuovo genere e nelle redazioni, prendendola a esempio, i capiservizio cominciano a chiedere ai loro redattori: “Scrivimi una brinata”, intendendo un pezzo di costume divertente, farcito di citazioni, un po’ acido. Dall’inizio del ’50, poi, Irene si sdoppia e diventa Contessa Clara, personaggio di vecchia aristocratica austroungarica del tutto inventato, compreso pedigree e cognome nobiliare Radjanny von Skewitch, che dalle pagine della Settimana Incom Illustrata tiene una rubrica insegnando il bon-ton all’emergente classe borghese digiuna di buone maniere e urgentemente bisognosa di imparare come si serve a tavola o quali vestiti indossare nelle varie occasioni. Negli anni seguenti verrà imitata, con i dovuti aggiornamenti, da Donna Letizia (al secolo Colette Rosselli, moglie di Montanelli) e da numerose altre dame simili; ma è la parodia di Alberto Sordi alla radio come “conte Claro” a indicare la portata travolgente del successo della Contessa. Nel ’55 ci sarà anche un fortunato film di Steno, “Piccola posta”, con lo stesso Sordi e Franca Valeri, ispirato al fenomeno ormai dilagante. Ha qualcosa di demenziale che lo rende spassoso ancora oggi. “Datemi un abitino nero…” e vi solleverò il mondo. Ma Irene il mondo, almeno quello artistico, l’ha già sollevato pure prima di diventare esperta in tubini e fili di perle, arbitra di un’eleganza che per molti anni non si era potuta permettere, ma che è dentro il suo carattere, i suoi gusti, le sue inclinazioni. Da quando, precisamente, dopo l’armistizio, in una Roma occupata in cui si muore di fame, si procura un posto da commessa in un negozietto di amici in via Bissolati che si chiama La Margherita, “una bottega piccola, fangosa, senza pavimento, senza luce né acqua, dove per fare un po’ di tè tocca attraversare la strada e andare a fare la fila alla fontana di fronte”. Gaspero, disertore, deve stare nascosto perché era un ufficiale col grado di maggiore senza alcuna intenzione di aderire alla Repubblica di Salò. Alla Margherita si vendono oggetti usati di valore Lei mette in vendita anche alcuni suoi quadri: un piccolo Morandi, tre disegni di Picasso e uno di De Pisis, regali di nozze. Crea gioielli “surrealisti” cucendo insieme nastri e perle di vetro e vende anche quelli. Sono frequentatori abituali Luchino Visconti e Massimo Girotti, Alberto Savinio, Renato Guttuso e qualche nobile non spiantato che viene a fare razzia di posate d’argento, antichi servizi di piatti, vecchie opalines. Poi un giorno passa un giovane alto e bellissimo, coi vestiti consunti, che si chiama Renzo Vespignani e offre a due lire i suoi meravigliosi disegni sui bombardamenti di Portonaccio, la borgata dove abita. Vengono venduti in pochi giorni e segnano l’inizio della riconversione della Margherita in galleria d’arte. Poi la Liberazione, Gaspero può tornare a una vita normale e quando i proprietari della Margherita chiudono e contemporaneamente Irene riceve una piccola eredità, i Del Corso investono in un posto tutto loro. E’ L’Obelisco in via Sistina 146; il nome viene dall’Obelisco Sallustiano di Trinità dei Monti. Vespignani è ospite fisso e vi muovono i primi passi Burri, Afro, Mirko, Zao-Wou Ki. Per la prima volta si vedono a Roma, in alcuni casi in Italia, Toulouse- Lautrec, Magritte, Matta, Tanguy, Dalí, Berman, Clavé, Rauschenberg. La galleria diventa punto d’incontro dei soliti Visconti, Guttuso, ma anche di Calder, Bacon, Kandinsky, che sono amici della coppia Brin-Del Corso, e di Pasolini appena arrivato dal Friuli, e Sandro Penna e Ennio Flaiano, Eugenio Scalfari e Sandro Viola e Mario Pannunzio. Vi vengono ambientati servizi fotografici di moda per i settimanali illustrati. Palma Bucarelli fa scorribande per gli acquisti della Gnam, la Galleria nazionale d’arte moderna, che dirige. Irene, come sempre piena di inventiva anche affaristica, trova mille modi per promuovere all’estero, in stretta economia, la pittura italiana e così quel piccolo spazio si trasforma nella base di lancio internazionale di una Roma artistica, divertente e intraprendente. Intanto lei, che in ogni cosa si metta a fare rivendica per tutte le donne, oltre che per sé, “il diritto di mostrarsi frivole”, diventa responsabile dell’ufficio italiano di Harper’s Bazaar, scelta direttamente dalla temutissima direttrice Diana Vreeland, e ha il grande onore di essere nominata Cavaliere della Repubblica per aver inventato il “made in Italy” perché ha promosso con la sua attività giornalistica sarti e sartine fino a farne veri stilisti in grado di competere con i prestigiosi francesi, padroni assoluti del campo. “In quel periodo, con Palma da una parte, Irene Brin dall’altra, Roma era ricca di figure femminili carismatiche”, avrebbe ricordato anni dopo Gillo Dorfles. Irene poteva essere fiera di se stessa. Macché. E’ inquieta, preoccupata di mantenere la sua supremazia in un ambiente giornalistico dove le sembra che tutti vogliano farle le scarpe, in particolare una nuova aggressiva schiera di giovani donne. Come era successo a lei, smaniano di farsi spazio in un mestiere dominato dai maschi. Adele Cambria, nel ’53, fresca di laurea presa a Messina, venne a Roma con il sogno di scrivere sui giornali. Pensò di chiedere aiuto alle poche professioniste in circolazione. Prima di tutte alla Brin. Andò a palazzo Torlonia e lasciò una lettera al maggiordomo su un vassoio d’argento. Nessuna risposta. Se non, dopo qualche giorno, una velenosa presa in giro sulle pagine di un giornale della ragazzina senza arte né parte che aveva bussato alla sua porta con la pretesa di improvvisarsi giornalista… Adele, diventata poi redattrice del Mondo di Pannunzio e in seguito rubrichista sul Giorno, si sarebbe vendicata dopo molti anni con un altrettanto feroce ritratto della gallerista insopportabilmente snob. Ma le amarezze di Irene non erano solo professionali. E’ vero, ha scritto pure racconti, raccolti in “Olga a Belgrado”, pubblicati nel ’43 da Vallecchi (e ora riproposti dalla Eliot) che nessuno prese sul serio, anche perché documentavano l’occupazione italiana nei Balcani – dove lei aveva seguito Gaspero – con una pietas e un realismo non graditi al fascismo. Ma non era diventare scrittrice la sua massima aspirazione. Piuttosto quella, molto più banale, di realizzare personalmente il destino femminile di moglie innamorata e di madre orgogliosa che andava indicando alle sue lettrici. Non è certo, ma sembra che, rimasta incinta agli inizi del matrimonio, avesse perso il bambino. Dopo, nessuna gravidanza si affacciò più. Sarebbe stato molto difficile. Gaspero era omosessuale e il loro rapporto divenne da un certo punto in poi una formidabile amicizia, un sodalizio professionale, un inaffondabile tenerissimo reciproco sostegno. Tutto qui. Ma tutto sommato fecero insieme qualcosa di più importante di una famiglia. Fecero una parte fondamentale della storia artistica di questo paese. Con pochi mezzi e tanta inventiva. Come quando, nel 1954, era partita da Parigi per Leningrado la mostra “I Picasso in Russia” che vi ebbe un grandissimo successo. Durante il viaggio di ritorno i quadri, imballati e blindatissimi, dovevano sostare a Roma per quarantotto ore. Ebbene, Gaspero e Irene lo vennero a sapere in tempo e, non si è ancora scoperto come ci riuscirono, fornendo quali garanzie, ottennero di avere le opere in custodia e le esposero eccezionalmente per due giorni. Non disponendo di soldi per l’assicurazione, dormirono due notti nel negozio in mezzo ai quadri che, venuto il momento, furono rimballati con cura e ripresero il viaggio sani e salvi. A chi sa fare una cosa del genere molto può essere perdonato.
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