Dal FOGLIO di oggi, 24/07/2012, a pag. I, con il titolo " Quel blitz contro Assad "
la traduzione di un capitolo di un libro non tradotto in italiano, "War near and far". Il titolo del libro è " Spies against Armageddon" disponibile presso l'editore Levant.
Pubblichiamo parte del capitolo 23 di “Spies against Armageddon”, saggio sull’intelligence israeliana pubblicato lo scorso 7 luglio per Levant Books. Qui – il capitolo si intitola “War, near and far” – si ricostruisce la decisione del governo Olmert di fare un raid su un sito in Siria in cui erano in corso attività nucleari.
Nell’estate del 2007, quando era imminente una minaccia nucleare in Siria, il timore di un errore di calcolo era molto grande. Israele – in fin dei conti – stava per compiere un’azione alquanto provocatoria, che poteva essere considerata un atto di guerra cui la Siria avrebbe potuto reagire. La decisione richiesta al premier Ehud Olmert e al suo governo sembrò assumere grande importanza. I ministri parlarono della possibilità che il popolo israeliano finisse vittima di una rappresaglia sotto una pioggia di missili lanciati dalla Siria e da Hezbollah in Libano. Alcuni avrebbero addirittura potuto essere caricati ad armi chimiche. Nonostante il pessimismo, il gabinetto votò – 13 contro 1 – a favore di un attacco. Anche Barak si espresse favorevolmente. L’unico a dichiararsi contrario fu l’ex direttore dello Shin Bet, Avi Dichter, ora ministro, timoroso che la rappresaglia siriana potesse mietere molte vite umane tra i civili israeliani. Malgrado le innumerevoli delibere, le riunioni e il gran numero di persone coinvolte nella pianificazione (fino a 2.500), il segreto non trapelò, nemmeno per allusioni: piuttosto stupefacente per una società loquace. Tutti coloro che furono ritenuti degni di essere messi a conoscenza del piano dovettero firmare uno speciale impegno alla riservatezza, anche chi già godeva dei massimi nulla osta di sicurezza, come i ministri di governo e i capi delle agenzie di intelligence. L’unico a esserne esentato fu il primo ministro Ehud Olmert. La notte dell’attacco, il 6 settembre, Olmert si trovava nel “Bor” (la Fossa), la sala operativa dell’Idf, assieme ad alcuni assistenti e generali. Otto F-16 decollarono da una base nel nord d’Israele, puntando inizialmente a ovest e a nord, per poi dirigersi in direzione della Siria, a est. Diversamente dalle bombe pesanti “stupide” lanciate in occasione dell’attacco a Osirak nel 1981, questa volta Israele utilizzò armi “intelligenti”. Poco dopo la mezzanotte i piloti spararono missili di precisione da una distanza di sicurezza: nel giro di un paio di minuti l’attacco era terminato. Per tutelare gli israeliani, i sofisticati sistemi elettronici militari bloccarono e oscurarono il sistema di difesa aerea siriano. In questa occasione la guerra elettronica fu portata a un nuovo livello, a completamento dei risultati già ottenuti. I radar siriani sembravano funzionare alla perfezione, anche se in realtà non era così: il personale della difesa siriano non aveva idea che il sistema, che non rilevava assolutamente niente, fosse ko. I piloti israeliani aderirono al silenzio radar, mettendosi in contatto con il quartier generale soltanto dopo trenta minuti circa. Olmert, altri politici di alto livello e i generali furono sollevati e soddisfatti nell’apprendere che l’obiettivo era stato distrutto. Nonostante l’analisi che escludeva una rappresaglia da parte della Siria, non era possibile eliminarne del tutto la possibilità. Per minimizzarla, si risolse fermamente di mantenere il segreto sull’intera questione. In assenza di una pubblica umiliazione, il presidente Assad avrebbe forse deciso di tacere e di astenersi da qualsiasi azione. In effetti, Israele non ha mai confermato pubblicamente di avere colpito la Siria quella notte. Seguì una guerra di disinformazione. A quanto pare, i siriani non sapevano cosa farsene del silenzio di Israele. Temendo che gli israeliani potessero annunciare l’attacco per primi, creando così una situazione di imbarazzo, i siriani dichiararono di aver respinto un’incursione aerea di Israele. Successivamente, affermarono che Israele aveva bombardato una struttura militare abbandonata. Inoltre, a dimostrazione dell’episodio, sottolinearono l’errore compiuto dalle forze aeree nemiche: uno dei piloti aveva abbandonato un serbatoio di carburante ausiliario del proprio F-16 sulla via del ritorno. Il serbatoio – con contrassegni ebrei – fu ritrovato in un campo in Turchia. Ora negare sarebbe diventato più difficile. Dopo che il governo siriano cominciò a parlare dell’attacco israeliano, Israele fece trapelare che l’obiettivo era un impianto nucleare. I funzionari siriani negarono inflessibilmente. Per mesi rifiutarono di concedere all’Agenzia internazionale per l’energia atomica il permesso di visitare il sito, approfittando di quel periodo per eliminare tutte le macerie e sostituire il terreno. Gli ispettori internazionali cui fu infine concesso di accedere al sito rilevarono alcune tracce di uranio. La Siria affermò che si trattava di tracce lasciate dai missili israeliani, ma l’Agenzia atomica dell’Onu non credette a tali parole. Gli ispettori giunsero alla conclusione che la struttura, ora scomparsa, aveva un reattore nucleare del tipo presente in Corea del nord. Un simile esito fu sostenuto da un rapporto esauriente reso pubblico dalla Cia. Le agenzie di intelligence scoprirono che il bombardamento israeliano dell’edificio aveva causato dozzine di morti tra siriani e nordcoreani. La Corea del nord non si è mai espressa al riguardo. L’intelligence israeliana preparò diversi file da inviare ai leader di governo stranieri e ad agenzie di intelligence amiche. La collaborazione più significativa era con gli Stati Uniti. Olmert parlò al telefono con il presidente Bush e Dagan volò a Washington per fornire informazioni e incontrare il presidente alla Casa Bianca. Entrambe le parti sembravano accettare il fatto che Israele non avesse informato gli americani prima del raid. La negabilità era preservata. I professionisti dell’intelligence alla Cia e al Pentagono lodarono Israele per la precisione delle informazioni, oltre che per la risolutezza e la riservatezza. Israele dimostrava così al medio oriente che la dottrina Begin funzionava per la seconda volta, ma per Dagan e il suo Mossad la missione era incompleta. Il 1° agosto 2008 il generale Suleiman, molto vicino al presidente Assad, fu abbattuto da un proiettile. Era seduto sulla terrazza della sua villa sulla costa siriana, godendosi la brezza mediterranea insieme a un gruppo di ospiti invitati a pranzo. A quanto pare, nessuno si era accorto che un vascello navale battente bandiera israeliana era ancorato al largo, con un cecchino esperto sul ponte. La nave beccheggiava sul mare, naturalmente. Eppure uno sparo, da grande distanza, fu sufficiente. Il generale fu ucciso, lasciando gli ospiti illesi. Non meno impressionante fu la precisione delle informazioni raccolte sulla festa di Suleiman: a che ora sarebbe cominciata e in quale posto si sarebbe seduto. La missione, così compiuta, voleva essere un messaggio rivolto al capo di Suleiman, il presidente: non interferire con i nostri piani. Un ulteriore obiettivo consisteva nell’eliminare un potente funzionario che lavorava alla creazione di rapporti molto particolari tra la Siria, l’Iran e Hezbollah. (Traduzione Studio Brindani)
Per inviare al Foglio la propria opinione, cliccare sulla e-mail sottostante