Sulla STAMPA di oggi, 23/07/2012, a pag.15, con il titolo " Soldi e guerre per procura, così l'Arabia Sauduta conquista il Medio Oriente ", Vittorio Emanuele Parsi traccia un ritratto dell'Arabia Saudita, commettendo l'errore abituale nel quale cade quando analizza stati e governi dell'area arabo-musulmana. Parsi usa i criteri che applica ai regimi occidentali, mai che evidenzi il fatto che uno stato islamico è tale per sua ovvia natura. Mai che gli venga in mente di ricordare al lettore che islam significa 'sottomissione', per cui pretendere che uno stato islamico si comporti diversamente è - quella sì- una pretesa senza senso da parte degli analisti occidentali. Che poi quasi tutti si adeguino perchè si hanno meno guai ad essere 'politicamente corretti ', e Parsi è fra questi, è un altro discorso. Ne vengono fuori analisi come quella che segue, che, in realtà, non spiega un bel nulla.
Senza senso poi il paragone con la Venezia medievale, come il riferimento a Tel Aviv, dove non ha sede il governo d'Israele, ma scriverlo aiuta a diventare simpatici ai governi arabi. Se poi si aggiunge uno scenario nel quale si ipotizza - come fa Parsi - un attacco di Israele al Libano, Parsi è pronto per ricevere quel premio-burletta intitolato a Igor Man.
Ecco l'articolo:
Vittorio E.Parsi
Non hanno sparato un solo colpo, non hanno concesso nessuna sostanziale riforma, non credono nella democrazia comunque declinata e sono interessati solo all’aspetto tecnologico della modernità. Sono stati appena sfiorati dal vento delle intifadas che hanno scosso il mondo arabo, eppure sono quelli che ne hanno tratto il maggior vantaggio politico-strategico. Nel corso degli ultimi dieci anni, i loro nemici e rivali da Saddam Hussein agli Assad ad al Qaeda - sono stati sconfitti o drasticamente ridimensionati. Hanno rafforzato la propria egemonia sulla penisola arabica, trasformando il Consiglio di Cooperazione del Golfo in una vera e propria alleanza rivelatasi decisiva per schiacciare la rivolta sciita in Bahrein e per trovare una soluzione alla guerra civile yemenita. Hanno enormemente accresciuto il proprio ruolo nella Lega Araba e mantenuto la posizione centrale nell’Organizzazione della Conferenza Islamica da loro stessi creata nel 1970 proprio come contraltare della prima. Hanno visto estendere la propria influenza in tutto il mondo arabo attraverso il finanziamento a milizie, movimenti e partiti salafiti, che si ispirano alla concezione iper-tradizionalista dell’islam wahabita. Sono secondi solo a Israele per la forza della propria lobby a Washington, in grado di ottenere dagli Stati Uniti sistemi d’arma che l’Egitto di Mubarak non poteva neppure sognarsi e continuano ad avere ottime relazioni politico-militari con il Regno Unito, loro antico protettore.
Sono i Saud, i principi-padroni di un Paese cui han dato il nome di famiglia (Arabia Saudita): al contrario di quanto normalmente avviene per le famiglie regnanti che dalla regione prendevano il nome (Savoia, Hannover…), tanto per non lasciar dubbi sul loro modo di intendere la distinzione tra pubblico e privato. Una famiglia estesa di diverse centinaia di persone che governano lo Stato come si gestirebbe un’impresa privata, collocando i diversi membri nelle posizioni chiave del consiglio di amministrazione.
Come quasi tutte le monarchie del Golfo, anche quella saudita ricorda la Repubblica di Venezia dopo la «serrata del Maggior Consiglio» del 1297, con un ristretto ma non esiguo numero di beneficiari cui è limitato l’accesso al potere. Come Venezia, anche le monarchie del Golfo preferiscono non combattere ma finanziare altri perché combattano le proprie battaglie, e spendere piuttosto che sparare. Il denaro saudita (e qatariota) è notoriamente quello che consente ai ribelli siriani di resistere da oltre 16 mesi contro uno dei più potenti eserciti della regione, così come i loro aiuti economici hanno consentito ai salafiti egiziani di ottenere la seconda posizione nel Parlamento ora disciolto e a quelli tunisini di fare il loro (rumoroso) «debutto in società». Come Venezia, infine, anche la monarchia saudita è resiliente, ma proprio per questo estremamente difficile da riformare, perché per farlo occorrerebbe innanzitutto la sua trasformazione da «azienda familiare» a «Stato moderno». La cassaforte di idrocarburi sulla quale i Saud sono seduti rende molto più semplice continuare così, almeno per ora, «comprando» il consenso dei sudditi, piuttosto che tentare la rischiosa via di riforme liberalizzanti.
L’esito della rivoluzione siriana è particolarmente cruciale per i Saud. La caduta del regime di Damasco implicherebbe infatti la spaccatura di quell’«arco sciita» che dall’Iran, attraverso l’Iraq e, appunto la Siria, arriva fino alle coste del Libano di Hezbollah. E l’Iran degli ayatollah è il solo «nemico naturale» della monarchia saudita: proprio il fatto che entrambi fondino la legittimità del proprio potere sulla relazione strettissima e strumentale con l’islam li ha resi acerrimi nemici.
Una transizione di regime in Siria, inoltre, indebolirebbe la posizione degli sciiti di Hezbollah e potrebbe facilitare il ritorno al potere in Libano (dove i sauditi hanno giganteschi interessi) della coalizione riunita intorno al sunnita Hariri. I «guardiani della Mecca» hanno insomma una curiosa coincidenza di avversari con Israele e non a caso, finora, per gli Stati Uniti non è stato poi così difficile mantenere un discreto equilibrio tra le due più potenti lobbies di Washington (filoisraeliana e filosaudita). Ma le cose potrebbero farsi molto più complicate se, per vendicare l’attentato di Burgas, Tel Aviv dovesse decidere di colpire il Libano meridionale in maniera talmente devastante da scatenare un nuovo conflitto. Un’ipotesi che potrebbe saldare le intifadas del 2011-2012 al conflitto arabo-israeliano, e che rappresenterebbe un gigantesco grattacapo strategico tanto per Washington quanto per Riad.
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