IN RICORDO DI RAOUL WALLENBERG
di Janos Ader, Presidente della Repubblica Ungherese ,
pronunciato in parlamento il 19 luglio 2012 a Budapest
(Traduzione di Yehudit Weisz)
L’esempio di Wallenberg tiene viva la speranza che un uomo solo possa davvero cambiare il mondo .
Gentili Signore e Signori, siamo qui convenuti per ricordare un uomo dal destino speciale, un uomo che visse per mesi a Budapest all’ombra della morte, e che tuttavia riuscì a diventare un angelo di vita.
Oggi, mentre celebriamo le imprese di Raoul Wallenberg, che nacque 100 anni fa e morì in un’età dolorosamente giovane, noi ricordiamo un uomo che si mise al servizio delle vite degli altri, e per questo, noi diventiamo degni di ricordarlo solo se ricordiamo anche gli altri, e se rendiamo omaggio anche a coloro che si comportarono come lui e seguirono i dettami della propria coscienza, salvando decine e decine di migliaia di persone da morte certa.
Ungheresi e altri compatrioti che scelsero di mettersi dalla parte della vita e della fratellanza, della solidarietà attiva proprio in quei tempi bui: Wallenberg è anche il simbolo del loro sacrificio.
Qui e ora, dobbiamo rendere omaggio anche a coloro cui non fu concessa l’opportunità di salvarsi. Noi serbiamo il ricordo di sei milioni di persone.
Sei milioni di uomini e donne.
Sei milioni di bambini e adulti.
Sei milioni di esseri umani concepiti nell’amore e nati per amare.
Sei milioni che persero sogni e speranza.
Sei milioni furono le vittime torturate, private della dignità umana e della vita.
Tra loro, molte centinaia di migliaia erano Ungheresi a noi cari, compatrioti ebrei, e ci duole oggi affermare che lo Stato ungherese venne meno nel proteggerli.
Pensando a loro, dobbiamo dire e ripetere cento volte: è un’insormontabile tragedia dell’umanità che ciò sia potuto accadere.
Quando chiniamo il capo in memoria delle vittime della Shoah, dobbiamo ricordare che la “soluzione finale” di Hitler era diretta contro la totalità della Comunità ebraica che viveva nell’Europa nella diaspora.
Il Nazionalsocialismo tedesco fu la radice e la causa d’innumerevoli tragedie nefaste su scala storica.
La Shoah non fu semplicemente uno dei più grandi drammi che colpirono l’umanità, ma è stata una storia senza pari di sofferenze trasformata in un’incomprensibile e insormontabile tragedia dalle fabbriche della morte, che funzionavano su scala industriale con sistematica ferocia.
Ricordiamoci che emarginazione e perdita della speranza sorgono là dove la vita umana non ha più valore. Che valore aveva l’essere umano, quale valore avrebbe potuto avere nel buio delle camere a gas? Meno di niente.
Nei campi di sterminio non c’era alcun motivo per annientare la vita degli altri, ma nessuna ragione era sufficiente. La morte là non era una fine infausta, ma l’unico progetto e il risultato voluto dei campi di sterminio.
Anche se i nazisti serbarono a lungo il segreto delle attività dei campi di sterminio, quell’inferno divenne noto a molti durante la guerra, grazie al documento conosciuto come “Protocollo di Auschwitz”, che arrivò in Ungheria nel 1944. Le relazioni di due prigionieri, Rudolf Vrba e Alfred Wetzler, che fuggirono da Auschwitz-Birkenau, costituiscono le basi per il protocollo, descrivono con precisione e crudo realismo lo sterminio che avveniva nei campi di concentramento.
Vi leggo due estratti terribili:
“Rabbi Eckstein da Sered ebbe una fine tragica: soffriva di dissenteria e una volta giunse all’appello con pochi minuti di ritardo. Il capogruppo lo prese e lo mise a testa in giù in una delle latrine, poi gli versò addosso dell’acqua gelida, estrasse il revolver e gli sparò”
L’altro racconto riguarda le camere a gas: “Ospiti di riguardo provenienti da Berlino erano presenti all’inaugurazione del primo crematorio nel marzo del 1943. Il programma consisteva nel gasare e bruciare ottomila ebrei di Cracovia. Gli ospiti, ufficiali e civili, furono estremamente soddisfatti dei risultati e lo speciale spioncino inserito nella porta della camera a gas era a disposizione. Si profusero in lodi sperticate per la struttura appena attivata”.
Gentili Signore e Signori, non citerò altri estratti da questo terribile documento. E’ sufficientemente chiaro quale sarebbe stato il destino di coloro che Wallenberg e i suoi collaboratori ungheresi riuscirono a mettere in salvo. Non sono riuscito a verificare con assoluta certezza se Wallenberg avesse letto personalmente il Protocollo di Auschwitz, può darsi che ne conoscesse l’esistenza, ma questo non è un problema importante in questa sede. Che lo conoscesse o no, egli mise a repentaglio la propria vita per aiutare gli altri a sopravvivere.
Quel che è più importante è: perché lo fece? Perché si sentì in obbligo di farlo? Anche se fu scritto molto su di lui, in realtà si sa così poco. Sappiamo poco su che tipo di persona fosse il Raoul Wallenberg di 32 anni che arrivò a Budapest pochi mesi dopo che i Tedeschi avevano occupato la città.
Sappiamo invece molto di più come si presentava e come si sentisse e a cosa pensasse quando decise di passare all’azione. Si sa che era un uomo raffinato, molto attento alla propria eleganza, ma la sua costituzione fisica era più delicata che militaresca. Sappiamo poco anche del segreto che si nascondeva dietro la sua personalità. Cosa gli diede la spinta interiore che gli permise di rispettare il suo percorso umano in un mondo di violenza e follia?
Conosciamo bene invece tutto quel che fece per raggiungere quell’ obiettivo. Durante il nazismo egli aveva negoziato, pagato i corrotti, obbligato quelli che capivano solo se minacciati, e dato ordini a coloro che ubbidivano solo ai comandi. Centinaia di appunti descrivono le sue molte azioni: sarebbe stato un eccellente attore, ma dovette recitare sulla scena della realtà.
Conosceva la mentalità dei nazisti e dei loro seguaci, le Croci Frecciate, ne conosceva le abitudini, i limiti di umanità e il rispetto per l’autorità. E quel che conosceva lo usò come un’arma contro di loro.
Non aveva importanza in quale situazione si trovasse, scelse sempre la via della saggezza e agì con coraggio.
Ma definirlo semplicemente coraggioso non gli rende giustizia. Egli era umano. Un essere umano in un mondo disumano. Un uomo morale in un mondo privo di qualsiasi morale. Un uomo che sapeva che l’azione parla più forte delle parole. Nulla potrebbe essere più profondo del silenzio creato dalla repressione, dalla disperazione e dalla morte. Il silenzio che va oltre l’ineffabile. Sono convinto che Wallenberg sentiva questo silenzio e sapeva che non c’erano parole capaci di infrangerlo. Così lui fece l’unica scelta morale: scelse l’azione. Agì, e facendolo salvò decine di migliaia di persona da morte sicura. Ci furono molti altri uomini che, come lui, scelsero di agire. Ma il silenzio, quel silenzio,, rimarrà con noi per sempre. E se prestiamo attenzione, possiamo persino percepirlo qui, ora. Chiudiamo gli occhi per qualche istante e ascoltiamo questo silenzio.
Signore e Signori, secondo il Talmud, “Chiunque salva una vita, salva il mondo intero” L’esempio di Wallenberg alimenta la nostra speranza che un uomo solo possa davvero cambiare il mondo. La risposta al quesito, perché un uomo come lui dovette morire in un carcere del KGB, può difficilmente essere diversa dall’affermare che i regimi totalitari non hanno considerazioni morali.
In conclusione, dobbiamo sempre fare una scelta morale in qualsiasi circostanza. Perché il genere umano muore quando la morale viene a mancare. Perché le parole più importanti della morale sono quelle del rispetto. Quelle di mutuo rispetto e di riconoscimento. Il rispetto per la vita.