Sul FOGLIO di oggi, 21/07/2012, a pag.3, con il titolo " Un principe filoamericano a capo dei servizi segreti sauditi", Carlo Panella analizza i ruoli del potere in Arabia Saudita.
Ecco il pezzo:
Carlo Panella
Roma. La nomina del principe Bandar bin Sultan alla guida dei servizi segreti dell’Arabia Saudita è stata certamente salutata con un brindisi nella sede della Cia a Langley, al dipartimento di stato e anche nella casa di George W. Bush, che di Bandar è stato, come suo padre, amico intimo. Un amerikano alla guida del più importante servizio segreto arabo è sicuramente una notizia ghiotta, anche perché Bandar, oltre a essere totalmente integrato (con quote azionarie, tangenti miliardarie, segreti di stato condivisi) con tutti i comparti dell’industria bellica americana e a perfetta conoscenza dell’establishment statunitense (è stato ambasciatore a Washington dal 1983 al 2005, gran fumatore di Avana e bevitore di vini e liquori), ha sempre avuto discreti contatti con Israele. A differenza di altri – e più potenti – principi sauditi, Bandar bin Sultan è infatti convinto della necessità di uno stretto raccordo (sia pure sotterraneo) con Israele in funzione anti iraniana. E’ talmente profonda la sua convinzione che probabilmente è stato proprio lui a trattare con il Mossad l’eventuale “guasto” non casuale ai sistemi antiaerei sauditi che potrebbe consentire ai cacciabombardieri della difesa israeliana di sorvolare la penisola arabica in caso di strike contro i siti nucleari iraniani. La macabra danza degli eredi al trono In realtà, la consegna dei servizi segreti nelle mani del più filoamericano tra i principi di Riad rivela il permanere della logica perversa che determina gli equilibri nel vertice saudita, producendo un sostanziale immobilismo. L’enorme potere che è stato ora dato a Bandar bin Sultan rappresenta il contrappeso alla nomina del principe Salman bin Abdulaziz – il più integralista, anti israeliano e critico degli Stati Uniti – a erede designato al trono in caso di morte di re Abdullah, quasi novantenne e in precarie condizioni di salute. La designazione a erede per Salman è dovuta prima alla morte del padre di Bandar, Sultan bin Abdulaziz (potente ministro della Difesa di orientamento filoccidentale) quindi al decesso di Nayef bin Abdulaziz, ministro degli Interni ideologicamente antiamericano, ferocemente antisemita e molto vicino alla piattaforma più estremista degli islamisti, pur essendo stato uno spietato cacciatore dei terroristi di al Qaida. Bandar bin Sultan è dunque l’ultimo tassello in una danza macabra dello scettro del potere saudita che passa tra le mani di fratelli ottuagenari, tutti malati di cancro, in molti casi in fase terminale e che provoca, a ogni designazione la necessità del riposizionamento di tutti gli altri poteri del regno, modificando profondamente l’assegnazione ai diversi “partiti” dei diversi dicasteri. Il tutto, va ricordato, dentro una logica di “affari di famiglia” malamente coperta dal Consiglio del regno (di cui era segretario proprio Bandar bin Sultan) che conta 120 tra i seimila principi della famiglia reale, pur sempre con ruolo esclusivamente consultivo nei confronti del re. Una dinamica che regge ormai da ottant’anni e che contraddistingue il sistema di governo del più importante paese esportatore di petrolio al mondo, collocato in una posizione geografica strategica. Un paese che tra l’altro è l’antagonista storico e naturale dell’Iran, non solo per ragioni di concorrenza per il ruolo di potenza regionale, ma anche e soprattutto per la faida religiosa che dal 1808 divide gli sciiti iraniani e iracheni dai sunniti wahabiti sauditi, provocando una scia di sangue che ancora recentemente ha macchiato persino il pellegrinaggio alla Mecca. Tuttavia, questa dinamica complessa ha dimostrato fino a oggi di riuscire comunque a governare l’Arabia Saudita e a reggere sul piano internazionale. I suoi molti limiti, però, non tarderanno a manifestarsi nel teatro mediorientale. L’immobilismo di Riad sulla Siria La stasi eterna della dirigenza politica saudita, le complicate e misteriose alchimie dei suoi equilibri di potere non possono reggere infatti a fronte dei cambiamenti ormai frenetici che dal gennaio 2011 segnano tutto il mondo arabo. La caduta dei regimi in Tunisia, Egitto, Yemen e Libia – a cui potrebbe aggiungersi in un non lontano futuro quello della Siria, con immediate ripercussioni devastanti sul Libano – obbliga infatti a un riposizionamento delle nazioni che hanno avuto e che hanno ancora oggi con questi paesi intense relazioni: primo fra tutti, l’Arabia Saudita, la cui famiglia regnante, peraltro, detiene il ruolo – fondamentale nell’islam – di custode delle città sante della Mecca e di Medina. Se l’Europa e gli Stati Uniti si sono trovate in evidente affanno riguardo tale riposizionamento (soprattutto dopo il fallimento della “dottrina Obama” sull’islam, solennemente declamata al Cairo il 4 giugno 2009 e rapidamente sgretolata dai fatti), anche Riad ha incontrato più di una difficoltà di azione e di controllo nella fase delle rivoluzioni arabe. Nella crisi siriana, ad esempio, è palese il forte intervento saudita (come del Qatar e della Turchia di Recep Tayyip Erdogan) nell’armare e finanziare l’Esercito libero siriano e altre milizie di ribelli, ma è altrettanto evidente l’incapacità di Riad di individuare – quantomeno assieme ai governi di Doha e Ankara – una dirigenza politica che possa prendere il potere a Damasco una volta deposto Bashar el Assad, impedendo derive terroriste e faide confessionali. Inoltre, nulla si intravede di nuovo, da parte saudita, turca e qatariota riguardo al contagio libanese della crisi siriana e delle contromisure che andrebbero prese prima – e non dopo – che questo contagio diventi patologico. E’ purtroppo scontato che le Nazioni Unite con la missione Unifil, l’Europa e gli Stati Uniti non saranno in grado di fare mosse preventive in medio oriente, ma che tale paralisi colpisca anche l’Arabia Saudita è drammatico, soprattutto dopo che il tradizionale paese leader del mondo arabo, l’Egitto, ha iniziato una fase di transizione che potrebbe provocare il declino del suo ruolo nell’area del Mediterraneo orientale.
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