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La Stampa Rassegna Stampa
18.07.2012 Boicottato, mal recensito, 'The Way Back', un film da non perdere
Il commento contro/corrente di Gianni Rondolino

Testata: La Stampa
Data: 18 luglio 2012
Pagina: 33
Autore: Gianni Rondolino
Titolo: «Con la fuga dal Gulag Weir scava nelle coscienze»

il film è doppiato in italiano

Gulag in Siberia

Era già successo con "Le vite degli altri", un film coraggioso che metteva a nudo la mostruosità della società tedesca dell'est sotto la dominazione comunista, un film poco recensito, spesso in maniera ostile, mal distribuito, perchè aveva osato raccontare ciò che andava tenuto nascosto, cancellato, come se non fosse mai avvenuto.
La stessa cosa di ripete oggi con "The Way Back", di Peter Weir, un regista famoso, che scelto di raccontare l'inferno del Gulag, anch'esso mal distribuito, recensioni molto critiche. L'abbiamo visto, e, senza riserve, lo giudichiamo un capolavoro. La STAMPA l'ha recensito giorni fa in modo decisamente negativo, ma oggi, 18/07/2012, a pag.33, con il titolo "Con la fuga dal Gulag Weir scava nelle coscienze", pubblica un commento, del tutto opposto, di Gianni Rondolino, che riprendiamo per l'accuratezza con la quale racconta il boicottaggio che ha dovuto subire.
Perchè, si chiederà qualcuno ? Ma è facile la risposta. Weir ha intaccato il silenzio che, soprattutto nel cinema, ha sempre coperto l'inferno nel quale sono vissuti per 70 anni i popoli dominati dal comunismo, l'Urss si è seduto al tavolo dei vincitori della 2a guerra mondiale, anche se ad iniziarla fu il patto von Ribbentrop-Molotov, cioè la spartizione della Polonia fra Hitler e Stalin.
E vero che il nazismo fu sconfitto anche grazie all'Armata Rossa, ma la causa fu l'invasione della Russia da parte di Hitler. Se non fosse avvenuta, Hitler e Stalin si sarebbero divisi l'Europa.
Un film da non perdere, da consigliare agli amici.

Ecco il commento di Gianni Rondolino

Peter Weir

Poiché The Way Back , l’ultimo film diretto da Peter Weir, è un’opera di notevole valore, non si comprende come mai tanto il Festival di Cannes quanto quello di New York non abbiano voluto presentarla in concorso né fuori concorso, quasi si trattasse di un film mediocre o inutile o di vecchio stile o addirittura negativo sul piano estetico e su quello culturale. Nel settembre 2010 è stato presentato al Telluride Film Festival e in seguito è uscito in molte altri Paesi. Da noi arriva solo ora ed è quindi un’ottima occasione per vederlo. Perché non soltanto si tratta di qualcosa di notevole per come è stato realizzato, ma soprattutto per il modo in cui Weir ha saputo costruire una vicenda basata su pochi personaggi e costruita in maniera semplice, ripetitiva, e invece ricca di tensione drammatica, che a poco a poco si trasforma in un coinvolgimento personale che si arricchisce di una visione critica del modo di vivere e di comportarsi di un gruppo di uomini. Tutto nasce da un fatto molto grave e drammatico e si conclude con un ritorno all’amore iniziale. E tutto è basato (tranne il finale) su una serie di fatti accaduti (almeno così si pensa) che il protagonista ha descritto in un libro uscito nel 1956 in Inghilterra e tradotto in molte lingue. Si tratta di The Long Walk del polacco Slavomir Rawicz, uscito anche in Italia col titolo Tra noi e la libertà presso l’editore Corbaccio e ristampato nel 2011. Prendiamo la sequenza d’apertura che vede il protagonista, di nome Janusz, arrestato dall’Armata Russa, interrogato e accusato di spionaggio. Una sequenza di forte impatto che introduce un personaggio il quale, una volta arrivato nel campo di prigionia, diventa il filo conduttore di una lunga e intensa vicenda relativa alla volontà, sua e di alcuni altri prigionieri, di fuggire dal campo e raggiungere la libertà. Possiamo chiamarlo un filo conduttore nel senso che è soprattutto il suo modo di agire, di parlare, di avere rapporti con gli altri, di studiare attentamente il percorso da seguire, a costituire la base per il vero contenuto dell’opera. Il quale è tanto la fuga in sé e per sé, quanto piuttosto il modo di essere e di comportarsi di un gruppo di uomini diversi l’uno dall’altro. Ed è questo modo che il film mette in luce a mano a mano che i personaggi si mostrano come sono ogni volta che devono affrontare e risolvere un problema. In questo senso la bellezza delle immagini, che illustrano il loro lunghissimo viaggio, non è solo legata ai luoghi che attraversano e ai paesaggi affascinanti, ma al loro rapporto. Il quale costituisce il vero contenuto di un film che è tra i migliore realizzati da Peter Weir.

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Poiché , l’ultimo film diretto da Peter Weir, è un’opera di notevole valore, non si comprende come mai tanto il Festival di Cannes quanto quello di New York non abbiano voluto presentarla in concorso né fuori concorso, quasi si trattasse di un film mediocre o inutile o di vecchio stile o addirittura negativo sul piano estetico e su quello culturale. Nel settembre 2010 è stato presentato al Telluride Film Festival e in seguito è uscito in molte altri Paesi. Da noi arriva solo ora ed è quindi un’ottima occasione per vederlo. Perché non soltanto si tratta di qualcosa di notevole per come è stato realizzato, ma soprattutto per il modo in cui Weir ha saputo costruire una vicenda basata su pochi personaggi e costruita in maniera semplice, ripetitiva, e invece ricca di tensione drammatica, che a poco a poco si trasforma in un coinvolgimento personale che si arricchisce di una visione critica del modo di vivere e di comportarsi di un gruppo di uomini. Tutto nasce da un fatto molto grave e drammatico e si conclude con un ritorno all’amore iniziale. E tutto è basato (tranne il finale) su una serie di fatti accaduti (almeno così si pensa) che il protagonista ha descritto in un libro uscito nel 1956 in Inghilterra e tradotto in molte lingue. Si tratta di del polacco Slavomir Rawicz, uscito anche in Italia col titolo presso l’editore Corbaccio e ristampato nel 2011. Prendiamo la sequenza d’apertura che vede il protagonista, di nome Janusz, arrestato dall’Armata Russa, interrogato e accusato di spionaggio. Una sequenza di forte impatto che introduce un personaggio il quale, una volta arrivato nel campo di prigionia, diventa il filo conduttore di una lunga e intensa vicenda relativa alla volontà, sua e di alcuni altri prigionieri, di fuggire dal campo e raggiungere la libertà. Possiamo chiamarlo un filo conduttore nel senso che è soprattutto il suo modo di agire, di parlare, di avere rapporti con gli altri, di studiare attentamente il percorso da seguire, a costituire la base per il vero contenuto dell’opera. Il quale è tanto la fuga in sé e per sé, quanto piuttosto il modo di essere e di comportarsi di un gruppo di uomini diversi l’uno dall’altro. Ed è questo modo che il film mette in luce a mano a mano che i personaggi si mostrano come sono ogni volta che devono affrontare e risolvere un problema. In questo senso la bellezza delle immagini, che illustrano il loro lunghissimo viaggio, non è solo legata ai luoghi che attraversano e ai paesaggi affascinanti, ma al loro rapporto. Il quale costituisce il vero contenuto di un film che è tra i migliore realizzati da Peter Weir.

Poiché , l’ultimo film diretto da Peter Weir, è un’opera di notevole valore, non si comprende come mai tanto il Festival di Cannes quanto quello di New York non abbiano voluto presentarla in concorso né fuori concorso, quasi si trattasse di un film mediocre o inutile o di vecchio stile o addirittura negativo sul piano estetico e su quello culturale. Nel settembre 2010 è stato presentato al Telluride Film Festival e in seguito è uscito in molte altri Paesi. Da noi arriva solo ora ed è quindi un’ottima occasione per vederlo. Perché non soltanto si tratta di qualcosa di notevole per come è stato realizzato, ma soprattutto per il modo in cui Weir ha saputo costruire una vicenda basata su pochi personaggi e costruita in maniera semplice, ripetitiva, e invece ricca di tensione drammatica, che a poco a poco si trasforma in un coinvolgimento personale che si arricchisce di una visione critica del modo di vivere e di comportarsi di un gruppo di uomini. Tutto nasce da un fatto molto grave e drammatico e si conclude con un ritorno all’amore iniziale. E tutto è basato (tranne il finale) su una serie di fatti accaduti (almeno così si pensa) che il protagonista ha descritto in un libro uscito nel 1956 in Inghilterra e tradotto in molte lingue. Si tratta di del polacco Slavomir Rawicz, uscito anche in Italia col titolo presso l’editore Corbaccio e ristampato nel 2011. Prendiamo la sequenza d’apertura che vede il protagonista, di nome Janusz, arrestato dall’Armata Russa, interrogato e accusato di spionaggio. Una sequenza di forte impatto che introduce un personaggio il quale, una volta arrivato nel campo di prigionia, diventa il filo conduttore di una lunga e intensa vicenda relativa alla volontà, sua e di alcuni altri prigionieri, di fuggire dal campo e raggiungere la libertà. Possiamo chiamarlo un filo conduttore nel senso che è soprattutto il suo modo di agire, di parlare, di avere rapporti con gli altri, di studiare attentamente il percorso da seguire, a costituire la base per il vero contenuto dell’opera. Il quale è tanto la fuga in sé e per sé, quanto piuttosto il modo di essere e di comportarsi di un gruppo di uomini diversi l’uno dall’altro. Ed è questo modo che il film mette in luce a mano a mano che i personaggi si mostrano come sono ogni volta che devono affrontare e risolvere un problema. In questo senso la bellezza delle immagini, che illustrano il loro lunghissimo viaggio, non è solo legata ai luoghi che attraversano e ai paesaggi affascinanti, ma al loro rapporto. Il quale costituisce il vero contenuto di un film che è tra i migliore realizzati da Peter Weir.

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