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La Stampa Rassegna Stampa
10.07.2012 Insediamenti, il principale ostacolo alla pace secondo A. B. Yehoshua
e il terrorismo palestinese ?

Testata: La Stampa
Data: 10 luglio 2012
Pagina: 1
Autore: A. B. Yehoshua
Titolo: «Quell'ostacolo sul futuro di Israele»

Riportiamo dalla STAMPA di oggi, 10/07/2012, a pag. 1-29, l'articolo di A. B. Yehoshua dal titolo " Quell'ostacolo sul futuro di Israele ".


A. B. Yehoshua      Abu Mazen mostra una mappa della Palestina. Israele non c'è più.

A. B. Yehoshua ritiene che la principale causa dell'odio per Israele siano gli insediamenti, contro i quali si scaglia nel corso del suo pezzo.
Nel descrivere gli umori dell'Occidente e dell'Onu dopo la guerra del '67, Yehoshua scrive : "
La risoluzione 242 del Consiglio di Sicurezza dell’Onu al termine della guerra sostenne la vittoria israeliana all’unanimità e fu chiaramente stabilito che i territori occupati nel corso del conflitto non sarebbero stati restituiti ai paesi arabi sconfitti se non in cambio della pace e della loro smilitarizzazione". I territori occupati in seguito alla vittoria della guerra sarebbero stati restituiti in cambio di pace e smilitarizzazione. E così è successo con l'Egitto, al quale fu restituito il Sinai.
Gli altri Paesi arabi si sono forse smilitarizzati? Hanno smesso di attaccare Israele ?
Tra le righe, Yehoshua invoca un ritorno ai cosiddetti 'confini del '67'.
Dal momento che i suoi nemici continuano ad attaccarlo, la priorità di Israele è quella della sicurezza dei confini. I confini del '67 non garantiscono la sicurezza ai cittadini israeliani, per questo sono inaccettabili.
Manca, nel pezzo di Yehoshua, un qualunque riferimento al terrorismo palestinese.  I razzi da Gaza che cosa rappresentano per Yehoshua ? E il fatto che i palestinesi abbiano, di fatto, minato tutti i negoziati negli anni passati ? I rifiuti di Arafat a tutte le proposte avanzate dai vari governi israeliani non contano nulla ?
Per quanto riguarda la presunta erosione di territori che dovrebbero far parte dello Stato palestinese, sono stati gli arabi ad opporsi alla risoluzione Onu che prevedeva la nasciata di Israele e di uno Stato palestinese.
Se avessero accettato non ci sarebbero stati nè conflitti, nè insediamenti, nè necessità di negoziare.

Tutti i miei figli e nipoti vivono a Tel Aviv e perciò, con grande rammarico, mia moglie ed io abbiamo deciso di trasferirci da Haifa – la bellissima città portuale arroccata su un monte dove abbiamo trascorso 45 splendidi anni – in quello che viene ironicamente chiamato «lo stato di Tel Aviv».

Quando abbiamo cominciato a svuotare cassetti e ad aprire vecchie scatole ci siamo imbattuti in un fascio di vecchie lettere che avevamo scritto ai genitori verso la fine della nostra lunga permanenza in Francia negli Anni Sessanta. Lettere personali, vergate ogni giorno a partire dal maggio ’67 al luglio dello stesso anno.
Scritte dapprima con l’ansia e la paura dell’attesa di una guerra che di giorno in giorno appariva più certa, poi nel corso della guerra stessa (protrattasi come si sa solo sei giorni) e infine durante il burrascoso periodo seguito alla vittoria di Israele.

Quel periodo è stato oggetto di ricerche e analisi giornalistiche e accademiche scritte da ogni prospettiva ma sono rimasto colpito dalla nostra esperienza personale, dalla testimonianza diretta di quelle lettere, dal divario tra l’ansia, il sostegno e l’ammirazione degli europei – che sentivamo forte intorno a noi – per Israele quarantacinque anni fa e le loro crescenti riserve negli ultimi anni. Riserve che giungono talvolta a mettere in discussione la legittimità stessa dello Stato ebraico e a ventilare l’ipotesi della sua scomparsa entro la fine di questo secolo.

Come e perché si è verificata una tale, profonda trasformazione? Quale ne è la radice e da cosa deriva?

Dopo tutto la preoccupazione per l’Israele di 45 anni fa era genuina e profonda, non erano solo parole e manifestazioni di piazza ma anche file di europei, giovani e vecchi (tra cui molti non ebrei) che si arruolavano come volontari per combattere fianco a fianco degli israeliani durante una guerra considerata pericolosa e forse perduta in partenza. In quelle settimane c’era la sensazione che la difesa di Israele fosse non solo una questione politica ma un obbligo morale e di coscienza, come durante la guerra civile spagnola.

Anche la folgorante vittoria di Israele non affievolì quel sostegno. La gente non diceva: forse Israele ci ha ingannati, ha esagerato il suo stato di pericolo, il bisogno di aiuto, ha finto di essere debole mentre in realtà era forte. No, al contrario. La netta vittoria di Israele fu considerata giusta e morale così come il pericolo e la minaccia erano stati considerati autentici prima della guerra. Il sostegno popolare per Israele era travolgente e valicava la cortina di ferro anche dopo che il blocco comunista, nella sua frustrazione, aveva interrotto le relazioni con lo Stato ebraico.

Di più. La risoluzione 242 del Consiglio di Sicurezza dell’Onu al termine della guerra sostenne la vittoria israeliana all’unanimità e fu chiaramente stabilito che i territori occupati nel corso del conflitto non sarebbero stati restituiti ai paesi arabi sconfitti se non in cambio della pace e della loro smilitarizzazione.

Da quel momento in poi la storia è nota. Dapprima vi fu il fermo rifiuto arabo di avviare qualsiasi negoziato con Israele. Cominciò allora una guerra di attrito lungo i nuovi confini accompagnata dal perentorio rifiuto dei palestinesi di arrivare a un qualsivoglia compromesso con lo Stato ebraico e in seguito iniziò una brutale ondata di terrore in Cisgiordania a Gaza e all’interno di Israele stesso. Nonostante ciò già all’epoca cominciò una crescente erosione dello status morale di Israele. E malgrado gli accordi di pace con l’Egitto e la Giordania e la restituzione della penisola del Sinai all’Egitto il sostegno, la simpatia e l’ammirazione del passato si trasformarono in rabbia e delusione.

Gli atti di occupazione di Israele sono nulla in confronto ai fallimenti disastrosi e alle folli atrocità perpetrate da altre nazioni nel ventesimo secolo, per esempio nei Balcani, in Vietnam, in Cambogia e in molti Paesi africani, per non parlare degli orrori della Germania nazista e della Russia sovietica. Eppure persino nell’inferno della Seconda Guerra Mondiale nessuno, nemmeno un ebreo, ha mai sostenuto che lo Stato tedesco andasse delegittimato e cancellato dalla faccia della terra.

Quando esamino tutti gli argomenti, giustificati o meno, nei confronti della politica di Israele di questi anni ne trovo uno che ha maggiore peso rispetto agli altri e che secondo me è alla radice dell’estrema e talvolta sfrenata avversione nei confronti di Israele. Mi riferisco agli insediamenti che continuano a essere costruiti in territorio palestinese. Molti accettano il diritto di Israele a difendersi. Molti altri accettano il diritto di Israele a richiedere, a causa delle sue ridotte dimensioni e della sua vulnerabilità, che i territori occupati che saranno evacuati debbano essere smilitarizzati. Ma nessuna persona di coscienza e con un senso della storia può accettare che Israele eriga insediamenti espropriando arbitrariamente e ingiustamente territori che dovrebbero essere, a detta di tutti, dello Stato palestinese. Questo è un atto scorretto e intollerabile che mette in discussione la giusta vittoria della Guerra dei sei giorni. Ed è lo sconvolgimento emotivo dovuto al passaggio dal sostegno e dall’ammirazione del passato alla delusione amara del presente a portare a mettere in dubbio la legittimità di Israele.

La maggior parte degli israeliani considera gli insediamenti una questione secondaria, forse ingiusta e di cui si potrebbe fare a meno, comunque marginale nel quadro della battaglia di Israele per la sopravvivenza e la pace, e non capisce fino a che punto gli insediamenti minino la posizione morale di Israele agli occhi di molti. Io, da parte mia, ritengo che, per la sua legittimità, la giustificazione morale dello Stato ebraico sia molto più importante della democrazia, della memoria della Shoah e di tutti i beni economici, politici, militari e culturali che Israele ha diligentemente accumulato.

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