Riportiamo da LINKIESTA l'articolo di Manlio Lilli dal titolo "Da Israele arte e cultura, non cambiano il mondo ma attenuano il dolore".
The last supper, di Adi Nes
Menashe Kadishman è il grande padre dell’arte israeliana. Invece, Adi Nes è la voce più giovane e affermata della fotografia d’arte. Insieme a Pavel Wolber, anche lui fotografo e a Etgar Keret, scrittore, rappresentano i simboli della Nouvelle Vague. Modi differenti di rispondere ai quesiti del sapere in un Paese non comune. Nel quale complessità e tormento si trasformano in laboratorio culturale. Kadishman con le sculture, i quadri e i giornali che riempiono la sua casa atelier. Nes con le sue tante immagini a partire dalla più celebre. Quella nella quale è un gruppo di soldati disposti come nell’Ultima cena di Leonardo. Con al centro uno di loro con la sigaretta, destinato a morire.
La ricchezza di Israele, quella delle sue espressioni artistiche, si fonda proprio su questo continuo intrecciarsi, di passato, presente e futuro. Un mix vincente, perché unico. La realtà conduce ad un caleidoscopio di suggestioni. In essa si addensano infiniti riferimenti storici. Nella sua dilatazione geografica si concentrano le sue innumerevoli problematiche. Tra i due estremi, la guerra e la pace, l’arte ha elaborato sé stessa.
Il 2012 in Israele è l'anno dell'arte. Per l’occasione si rinnovano contemporaneamente i tre templi della cultura di Tel Aviv. La Cinématheque, il Teatro Nazionale Habima e il Museo d’Arte. Strutture, ripensate, alle quali si è aggiunto il Museo del design di Holon. Le celebrazioni sono iniziate a marzo. Visite gratuite ai musei, performance in tutta la città, concerti, proiezioni, balletti, spettacoli teatrali. Indifferentemente, di giorno e di notte. Tel Aviv, “la città che non dorme mai”, in questo settore ha una tradizione consolidata. Ogni giovedì le gallerie d’arte restano aperte fino a tarda notte. E poi, da non molto, si è conclusa la popolare fiera mercato di arte contemporanea, la Fresh Paint, giunta alla sua quinta edizione. Senza contare, il Tel Aviv Global City, il progetto di una città internazionale, di nuove economie e di esperienze in osmotico contatto.
Intanto a Gerusalemme, nel nuovo Israel Museum, una grande opera di Kapoor a forma di clessidra accoglie il visitatore. Mentre nel Billy Rose Art Garden, lo spazio espositivo sul versante occidentale del Museo, concepito dall'architetto giapponese-americano Isamu Noguchi, si possono ammirare le sculture di Rodin, Calder, Moore e Picasso.
Quasi con meraviglia, nel Paese in cui convivono contraddittorie identità, si può osservare la forza con la quale si va affermando un vero e proprio laboratorio culturale. Capace di confrontarsi con le grandi capitali mondiali. Consapevole delle proprie potenzialità, di quanto la Cultura possa contribuire a sanare le “ferite”. Forse. Come sostiene Kadishman «l’arte non può cambiare il mondo, come può invece fare la politica. Però l’arte può attenuare i dolori».
Quanto queste parole siano fondate lo dimostra proprio Tel Aviv, la “Città Bianca”, la città patrimonio mondiale dell’Unesco dal 2004 per le sue architetture Bauhaus. La città, che nel 2009 ha festeggiato il suo centenario, conta oltre quattromila edifici progettati tra il 1931 e il 1956 dagli architetti del movimento fondato da Walter Gropius, formatisi in Europa ed emigrati in Israele. I quali hanno saputo sostituire allo stile eclettico e orientaleggiante un'espressione più propriamente moderna e occidentale. Ora, come accade a New York, Berlino o Milano, le pitture sui muri dei quartieri degradati aiutano a ricostruire la città. O, almeno, la sua immagine. Come accade negli agglomerati urbani sparsi per il mondo nei quali l’arte è una tradizione consolidata, i luoghi nei quali essa può ricercarsi, in continua espansione, anche a Tel Aviv il settore è in crescita. Questa la motivazione che ha spinto Ermanno Tedeschi ad aprire una nuova galleria lì, nel quartiere più trendy della città. Seguendo la tendenza recente. Indiziata dal nome stesso, in ebraico, delle gallerie. Pitriot, cioè “funghi”. Riferimento più che chiaro alla velocità con cui si moltiplicano. Ma non solo numeri, anche qualità. Il lavoro degli spazi, sia pubblici che privati, è quello di creare un ponte tra Israele e la realtà artistica contemporanea internazionale. Ad esempio una delle più note gallerie israeliane, la Eden fine Art, fondata alla fine degli anni Novanta da Mickey e Cathia Klimovsky, oltre ad avere sedi espositive a Gerusalemme e a Tel Aviv, ha aperto nuovi spazi anche a New York e nella contea di San Diego in California. Presentando celebri artisti israeliani, tra cui Yoel Benharrouche e Mark Tochilkin, nomi che ritroviamo anche nei più prestigiosi musei, gallerie e collezioni private del mondo.
Ma non solo gallerie. Anche fotografia. Per così dire, istituzionalizzata. Dallo Shpilman Institute for Photography, creato recentemente dal collezionista Shalome Shpilman, a sud di Tel Aviv. Poi appena fuori dalla città, ad Holon, il tecnologico Museo del design. Una specie di astronave rossa con grandi fasce circolari che avvicina il futuro al presente. Tra esperienze del design israeliano e mostre dedicate a grandi designer e stilisti internazionali. Il museo costituisce la migliore esemplificazione del rapporto tra cultura, economia e qualità della vita di una città. Un museo “di modello”, accanto ad altri numerosi spazi espositivi, differenti per offerta. Dalle collezioni di archeologia ed etnografia fino ad arrivare all'arte contemporanea. Sparsi in tutto il territorio, dalle grandi città ai kibbutz.
Il più noto è il Tel Aviv Museum of Art, che oltre a ospitare una vasta collezione di arte classica e contemporanea, prevalentemente israeliana, ha un'ala dedicata ai giovani artisti e un auditorium in cui vengono presentati concerti e film. Un altro spazio interessante è quello di Petach Tikva, città poco distante da Tel Aviv. Fondato nel 1964 il Petach Tikva Museum of Art è un museo di arte contemporanea con opere di artisti israeliani e internazionali. Al momento della sua riapertura, nel 2004, la collezione, che parte dagli anni Venti, è stata ampliata con l'aggiunta di artisti tra i quali Rami Maymon, Dina Shenhav e Keren Assaf. Poi, accanto alle mostre temporanee, il museo costituisce una piattaforma per un'ampia attività culturale, di ricerca e discussione critica di questioni chiave della società israeliana. Ma il più celebre museo del Paese rimane il museo di Israele a Gerusalemme. Fondato nel 1965, dopo tre anni di lavori, lo scorso luglio ha riaperto al pubblico. Il museo, oggi diretto da James Snyder, ex direttore del Moma di New York, registra un ampio sguardo sul contemporaneo, e lo fa non solo attraverso l'esposizione di opere in situ appositamente commissionate, come il lavoro di due metri per tre di Olafur Eliasson, ma anche attraverso esposizioni temporanee in cui gli stessi artisti si calano nel ruolo di curatori dando luogo ad una chiave di lettura tra passato e presente.
Il “luogo pericoloso”, come fino a poco fa veniva percepita all’estero Israele, si è trasformato in una vera capitale della cultura. Come dimostrano i tanti spazi al suo interno nei quali, “costruendosi” arte, si contribuisce a ridefinire l’immagine del Paese. Come segnala l’interesse crescente con il quale il mondo segue la scena artistica contemporanea israeliana. La terra polverosa nella quale, da sempre, crescono, olivi, ha ricominciato a riempirsi del verde di nuove essenze e del colore di fiori profumati. Insomma, come scrive Rami Saari, in Hinnè, Matzàh et Beyt, del 1988, “.. la mia parte migliore continua ad essere un luogo di miele e agrumeti”. Per merito anche della Cultura artistica.
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