Avigdor Lieberman su negoziati, Iran, 'primavera' araba, antisemitismo intervista di Giulio Meotti
Testata: Il Foglio Data: 05 luglio 2012 Pagina: 1 Autore: Giulio Meotti Titolo: «Il ruggito di Lieberman»
Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 05/07/2012, in prima pagina, l'intervista di Giulio Meotti ad Avigdor Lieberman dal titolo "Il ruggito di Lieberman".
Giulio Meotti a destra, Avigdor Lieberman
Roma. Avigdor Lieberman non ama i giornalisti. Non sorride quasi mai. Non ammicca. Non blandisce l’opinione pubblica. Il vicepremier e ministro degli Esteri israeliano è passato da Roma, dove ha incontrato il premier Mario Monti, il suo omologo italiano, Giulio Terzi di Sant’Agata ed esponenti del precedente governo Berlusconi. Lieberman è a colloquio con il Foglio in quest’intervista esclusiva. Iniziamo dalla storica vittoria dei Fratelli musulmani nel vicino Egitto, con cui Israele è in “pace fredda” da trent’anni. Da “pragmatico”, come lui ama definirsi, Lieberman spera che gli islamisti, più che alla sharia e agli ebrei, pensino a costruire una società. “Non mi interessano slogan tipo la ‘primavera araba’”, ci dice Lieberman. “Io guardo ai risultati. C’è una situazione instabile in tutto il medio oriente, dalla Libia, con la violenza e la divisione interna, alla Siria, dove c’è un bagno di sangue e la tortura. Non vedo un futuro brillante. Rispetto le scelte del popolo egiziano e auguro loro successo. Si è capito che non era colpa d’Israele o del ‘sionismo’ o della disputa con i palestinesi, ma della povertà e della miseria. Adesso un conto sono le promesse, che è un gioco facile, altra cosa è avere a che fare con i problemi veri del mondo moderno”. Alcuni analisti parlano di un asse futuro tra Fratelli musulmani e Hamas. “Non è detto che la vittoria degli islamici in Egitto abbia conseguenze dirette su Hamas. Nel primo discorso da presidente egiziano, Mohammed Morsi ha promesso di rispettare i trattati internazionali. Vedremo. Hamas resta un’organizzazione terroristica, non solo dal nostro punto di vista. Ci siamo ritirati da ogni grammo di terra di Gaza. Non hanno più contese territoriali con Israele”. La scorsa settimana il vicepresidente iraniano, Mohammad Reza Rahimi, a una conferenza dell’Onu sulla droga ha accusato gli ebrei di essere dietro al traffico di stupefacenti. Secondo Lieberman, “il regime iraniano non è composto da malati di mente, ma da fanatici antisemiti con una dottrina strutturata, corredata di un preciso progetto globale che comprende il principio di base, che essi sono ben disposti ad esplicitare, di passare attraverso la distruzione di Israele. Anche Hitler diceva cose folli, ma poi mise in pratica davvero il suo programma. Oggi la situazione è diversa: Israele non permetterà che ad alcun ebreo venga fatto impunemente del male. Ma finché la comunità internazionale non si ravvede e il regime degli ayatollah non esce dalla scena, continueranno a incombere senza ostacoli una chiara minaccia alla pace del mondo e una precisa ricetta per la catastrofe”. Secondo Lieberman, Teheran è una minaccia strategica per tutto l’occidente. “L’antisemitismo iraniano non proviene soltanto dal vicepresidente, ma anche dal presidente Ahmadinejad che nega l’Olocausto, così come ogni settimana gli iraniani annunciano che butteranno a mare gli ebrei. Perché la comunità internazionale continua a legittimare questo regime iraniano? Teheran ha relazioni con tutti i paesi occidentali. Il regime iraniano non odia soltanto gli ebrei, ma tutta l’umanità. Hanno attaccato le ambasciate occidentali a Teheran, sostengono la soppressione brutale del regime siriano, sopprimono la dissidenza, giustiziano centinaia di persone per la sharia o l’opposizione politica, ci sono giornalisti in carcere, non hanno ritirato la fatwa contro Salman Rushdie. Eppure il regime è ancora accettato in occidente”. I mullah corrono verso la bomba nucleare. Lieberman, che siede nell’“ottetto”, il ristrettissimo consiglio di sicurezza che prende le decisioni, è molto scettico sulle sanzioni e i colloqui, lascia intendere che Gerusalemme valuta l’attacco preventivo per fermarli: “Nonostante le sanzioni e i talks con l’occidente, gli iraniani continuano nel loro programma nucleare e nella costruzione della bomba atomica. Stanno persino accelerando il progetto atomico e hanno appena annunciato nuove esercitazioni militari. Israele sta cercando di convincere il mondo a essere aggressivo e a prendere una vera decisione. Faremo quello che reputeremo necessario, teniamo ogni opzione sul tavolo”. Lieberman ha proposto un piano di scambi territoriali in cui le parti israeliane abitate in grande maggioranza da arabi vadano ai palestinesi e quelle abitate da ebrei nei Territori vadano a Israele. Un piano che gli ha attirato l’accusa di “pulizia etnica”. Lui ripete che la pace si dà in cambio di altra pace e non in cambio di terra perché è immorale. Israele dovrebbe spostare il confine per compensare l’annessione di insediamenti ebraici. “Propongo uno scambio territoriale per creare società stabili con una contiguità di terra e popolazione”, ci dice Lieberman. “Non si tratta di portare via la casa a nessuno, ma di spostare i confini. Così Israele dovrebbe cedere Umm el Fahm e il ‘triangolo’ in Galilea nel futuro stato palestinese, mentre lo stato ebraico terrebbe i blocchi di insediamenti, come Gush Etzion e Maaleh Adumim”. Lieberman è da sempre molto critico con l’era di Oslo. “Abbiamo firmato gli accordi diciannove anni fa. Da allora non abbiamo visto intenzioni pacifiche nei palestinesi. Abbiamo riportato Yasser Arafat dalla Tunisia in Israele e abbiamo avuto due summit cruciali: Ehud Barak con Bill Clinton e Arafat a Camp David, dove Israele offrì di ritornare alle linee del 1967, dividere Gerusalemme e aprire persino sui rifugiati. Ma Arafat rifiutò di firmare. Poi il vertice di Annapolis, con il precedente governo molto di sinistra di Ehud Olmert, assieme ad Abu Mazen e Condi Rice. Olmert offrì ai palestinesi persino più di quanto aveva fatto Barak, ma i palestinesi hanno di nuovo rifiutato. Cosa abbiamo avuto evacuando gli insediamenti ebraici da Gaza? Abbiamo continuato a soffrire per gli attacchi terroristici. Da quando ci siamo ritirati abbiamo avuto 14 mila missili sulle nostre città. Oggi la vera domanda è: cosa accadrebbe se ci ritirassimo dietro alle linee del 1967 anche in Giudea e Samaria? Abbiamo eseguito numerose simulazioni militari e nessuna ha garantito a Israele né pace né sicurezza. Non c’è possibilità per ritirarci come da Gaza. Perché i risultati sarebbero una nuova Gaza”. Secondo Lieberman, il mondo arabo ha bisogno di maturare una classe media. “C’è un’incomprensione di fondo sulla questione palestinese e in generale fra Israele e il mondo arabo. Nel mondo arabo e palestinese non esiste una middle class, che è necessaria per una vera democrazia, una politica pacifica e la stabilità sociale. Oggi nel mondo palestinese hai differenti entità, come ‘Hamastan’ a Gaza e la ‘Fatahland’ in Giudea e Samaria, hanno persino posticipato per tre volte le elezioni non solo presidenziali ma anche parlamentari. Serve crescita economica e incrementare la collaborazione sulla sicurezza. Il reddito pro capite israeliano è di 31 mila dollari, quello palestinese di tremila. Quando i palestinesi arriveranno a 15 mila il conflitto sarà risolto”. A proposito di insediamenti, il ministro abita nella colonia di Nokdim, con la moglie e i figli ad aspettarlo nel cuore della Giudea ogni notte. “Da molti anni vivo in una colonia”, dice Lieberman. “Per me è stata una scelta esistenziale, crescere lì i miei figli, che oggi vanno all’università. Sono felice della scelta che ho fatto”. “Le società aperte hanno come limite il cielo” Lieberman attacca la decisione dei palestinesi di rivolgersi all’Onu per ottenere un riconoscimento internazionale (da ultimo, l’inserimento della chiesa della Natività di Betlemme fra i siti mondiali dell’Unesco). “Con simili mosse unilaterali, Abu Mazen deve mostrare al suo popolo che ottiene qualcosa”, dice Lieberman. “Sono organismi in cui il mondo islamico conta decine di nazioni, mentre di stati ebraici ce n’è soltanto uno. Ma i palestinesi danneggiano se stessi e diminuiscono le possibilità di raggiungere una soluzione pacifica”. Veniamo all’Europa, dove numerosi istituti di ricerca, ebraici e non, segnalano la peggior ondata di antisemitismo dalla fine della Seconda guerra mondiale. “Quando c’è una crisi economica aumenta l’antisemitismo”, dice Lieberman. “Questo è successo a Tolosa con la strage degli ebrei della scorsa primavera. Così avveniva nel passato durante i pogrom e l’antisemitismo. Ci sono gruppi islamici in Europa, imam radicali, organizzazioni estremiste che fanno il lavaggio del cervello ai fedeli. C’è un legame fra l’antisemitismo in Europa e la crescita delle popolazioni islamiche nel Vecchio continente. Oggi c’è poi una minaccia in Europa a boicottare le merci israeliane, ma anche questo è sempre successo in passato, durante gli anni Settanta abbiamo subito il boicottaggio di tutto il mondo arabo. Penso che l’Europa stia soltanto danneggiando se stessa”. Infine, una nota personale. Figlio di un veterano dell’Armata rossa catturato dai tedeschi e come molti altri ex prigionieri finito per qualche anno nei gulag staliniani, Lieberman ha una storia unica ai vertici della politica israeliana, da immigrato ventenne senza un soldo in tasca, soldato di fanteria fino a una quantità di cariche sia di ministro che da grand commis nei governi di Benjamin Netanyahu e Ariel Sharon. “Mio padre è stato esiliato dai sovietici in Siberia”, ci dice Lieberman. “La mia storia è l’ennesima prova che le società aperte hanno come limite soltanto il cielo. Sono cresciuto in Unione sovietica e il giorno stesso in cui sono arrivato all’aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv ho cercato di dare una mano a Israele, e oggi ne sono il ministro degli Esteri. Israele è una grande democrazia, ogni anno abbiamo premi Nobel, eccellenze nella ricerca, nuove compagnie, e meravigliosi giovani che servono nelle unità combattenti dell’esercito. Si assumono dei rischi ogni giorno, combattono per la propria sopravvivenza”.
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