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Il Foglio Rassegna Stampa
29.06.2012 Due libri da portarsi in viaggio
Mila18 di Leon Uris, La casa di via Garibaldi di Isser Harel

Testata: Il Foglio
Data: 29 giugno 2012
Pagina: 3
Autore: Redazione del Foglio
Titolo: «Mila 18 - La casa di via Garibaldi»

Riprendiamo dal FOGLIO di oggi, 29/06/2012, a pag. 3, la recensione al libro 'Mila 18' di Leon Uris (ed. Gallucci). Dal FOGLIO del 28/06/2012, a pag. 3, la recensione al libro 'La casa di via Garibaldi' di Isser Harel (ed. Castelvecchi).
Pezzi di storia in due libri appassionanti, per chi non li avesse ancora letti, da portare in vacanza.

Ecco i pezzi:

"Leon Uris, Mila 18"


Leon Uris, Mila 18, ed. Gallucci

Nella Polonia invasa dai nazisti si incrociano le storie di diversi ragazzi presenti nel bunker di via Mila 18, la sede della quartier generale della resistenza ebraica del ghetto di Varsavia, dove si suicidarono gli ultimi rivoltosi. “Scorro i libri di storia e mi sforzo di trovare un parallelo”, scrive l’autore di questo magnifico libro, Leon Uris, scomparso nel 2003. “Né ad Alamo né alle Termopili si trovarono di fronte due schieramenti più ineguali. Questo esercito di fortuna, privo di armi vere e proprie, tenne a bada per quarantadue giorni e quarantadue notti la più potente forza militare che il mondo abbia mai conosciuto…”. Leon Uris ci lascia personaggi indimenticabili. Andrei, l’ufficiale a capo degli insorti; la sorella Debora, sposata a un ebreo che sceglie per codardia di collaborare coi tedeschi e innamorata di Christopher, giornalista americano e sceglierà la morte per salvare la figlia Rachel; Rachel, la ragazza che per amore del suo popolo e di Wolf si trasformerà in un’eroina della resistenza; Alexander Brandel, lo storico ebreo che diventerà l’ideologo dell’insurrezione. Altri libri sono apparsi prima d’ora sul ghetto di Varsavia. Ma quello di Uris è il più bello perché il più “americano”. L’autore di “Exodus” (1958), l’epopea di oltre seicento pagine sugli ebrei d’Europa e la nascita di Israele, da cui il regista Otto Preminger trasse l’omonimo film con Paul Newman, non è mai stato amato dai critici letterari. Perché Uris è troppo cinematografico, epico e idealista nella scrittura. Eppure la New York Times Book Review lo ha definito “un cantastorie migliore di Pynchon, Barthelme e Nabokov”. Uris è maestoso nel raccontare la rivolta armata di oltre duecento ragazzi ebrei male armati contro l’esercito del Terzo Reich. Fu la prima azione armata su vasta scala nella storia delle occupazioni naziste. La notte fra il 18 e il 19 aprile 1943, alla vigilia della Pasqua ebraica, carri armati e soldati tedeschi circondano la zona del grande ghetto. All’alba del 19 aprile i cingolati cominciano a bombardare le case. Gli ebrei barricati replicano con granate a mano e fucili. Dopo due ore, i nazisti si ritirano. Non era mai successo prima d’ora. Il giorno dopo i combattimenti riprendono e i tedeschi attaccano casa per casa. Ma i cecchini ebrei rispondono e i tedeschi arrivano persino a sventolare bandiera bianca per portare via i feriti. Le battaglie hanno luogo sempre di notte. Di giorno il ghetto assomiglia a un deserto. E’ solo nel buio delle strade che le pattuglie ebree si confrontano con le pattuglie tedesche. Vince chi spara per primo. Gli scontri continuano fino all’8 maggio. Nella postazione di via Mila si nascondono migliaia di persone e si resiste per una settimana. Nel frattempo il ghetto è completamente arso dalle fiamme. Mancano posti dove far stare la gente, e manca l’acqua. I combattenti scendono nei rifugi insieme alla popolazione. Là continueranno a difendere ciò che ancora si riesce a salvare. Quando i tedeschi constatano che non sono in grado di conquistare il bunker combattendo vi gettano all’interno una bomba a gas. Chi non è stato ucciso da una pallottola né è stato avvelenato dal gas si suicida. Non ci sono vie d’uscita, a nessuno viene in mente di consegnarsi vivo nelle mani dei tedeschi. Jurek Wilner chiama i combattenti al suicidio collettivo. Lutek Rotblat spara su sua madre e sua sorella poi si rivolge l’arma contro se stesso. Ruth spara sette colpi contro se stessa. Tra i suicidi, c’è anche il comandante Mordechai Anielewicz. Un kibbutz in Israele porta oggi il suo nome.

"Isser Harel, La casa di via Garibaldi"


Isser Harel, La casa di via Garibaldi, (ed. Castelvecchi)

Il miglior giallo per l’estate – storia affascinante, trama sorprendente, racconto pieno di dettagli – non è un giallo. E’ una storia vera. La storia di come Israele riuscì prima a individuare, poi a catturare e quindi a processare e a condannare Adolf Eichmann, l’ex ufficiale delle SS, il principale esecutore materiale della “soluzione finale del problema ebraico”. Isser Harel, l’autore, non è uno scrittore, né un giornalista, ma l’uomo che materialmente, dalla sua posizione al vertice dei servizi segreti israeliani, guidò la caccia all’assassino nazista: raccolse le prime frammentarie notizie, fece fare i primi accertamenti, organizzò la squadra che doveva condurre a termine l’operazione. Operazione complicatissima: perché Eichmann, come tanti ex nazisti, aveva trovato rifugio in Argentina, e per processarlo (uno dei grandi processi del secolo scorso, il primo e unico vero processo delle vittime al loro carnefice: che avrebbe ispirato ad Hannah Arendt “La banalità del male”) in Israele doveva non solo essere individuato, ma catturato, sequestrato per alcuni giorni, e portato alla destinazione finale. Una delle più straordinarie operazioni investigative della storia. Dove la strategia contò molto – ma anche il caso, i destini umani dei protagonisti, le banali coincidenze. Il libro è un appassionante resoconto di come il crudele cacciatore fu mutato in preda, quando tutti i fantasmi delle sue vittime lo affrontarono. Il fascino de “La casa di via Garibaldi” (una viuzza nei sobborghi di Buenos Aires, dove Eichmann si era rifugiato insieme alla sua famiglia, sotto il falso nome di Ricardo Klement) sta esattamente nel contrario delle grandi storie di spionaggio: la grandezza dell’operazione che si mostra in un’attività quasi quotidiana, attraverso incredibili personaggi – molti avevano visto l’intera famiglia massacrata dai nazisti – appuntamenti nei bar della città argentina (Harel, che coordinava le fasi finali, vi passava fino a diciotto ore al giorno), le lunghe attese serali dell’autobus 203 che riportava a casa dal lavoro il vecchio boia. Sospetti, prove, verifiche. Poi la certezza: quell’omino grigio e stempiato che viene in via Garibaldi, che percorre il tratto serale verso casa con una torcia in mano, è proprio il burocrate-assassino che contribuì al massacro di milioni di ebrei. E sono ebrei, figli e fratelli e padri delle sue vittime quelli che devono catturarlo, tenerlo prigioniero, farlo arrivare vivo e vegeto davanti al suo legittimo tribunale. E senza torcergli un capello, avendo cura della sua salute, vincendo la ripugnanza di averlo vicino, di toccarlo, di preparagli il cibo. Ma così fu fatto – perché giustizia e non vendetta voleva Israele. “La casa di via Garibaldi” viene presentato come “un racconto dalla suspense quasi intollerabile”, ed è vero: tutti sappiamo come finì – eppure succede di non riuscire a staccare gli occhi dalle pagine davanti a un intoppo che rischia di mandare tutto all’aria, a un ubriaco, a un bus in ritardo, a un treno in anticipo. Un perfetto meccanismo, così perfetto da essere estremamente fragile. Il colpo riesce, il boia viene catturato, “tutto questo non era durato più di un minuto”, trasferito (travestito da membro dell’equipaggio) su un “aereo diplomatico” israeliano in transito nella capitale argentina. “Erano le 0.05 del 21 maggio 1960”. Il racconto di Isser Harel si ferma nel momento stesso in cui Eichmann viene consegnato allo stato di Israele. Questa la storia della sua cattura. Poi, molti altri – la Arendt prima e meglio – scriveranno quella del processo. E della condanna a morte. E della giustizia infine ottenuta. Sfiorarono, Harel e i suoi, anche il nefasto terrificante dottor Mengele. Sfuggì per pochi giorni. E sfuggì per sempre. Faticosa, e mai completa, la giustizia.

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