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Informazione Corretta Rassegna Stampa
27.06.2012 Contro la discriminazione e i sistemi giuridici paralleli
Il coraggioso disegno di Caroline Cox alla Camera dei Lord. Londonistan, di Annalisa Robinson

Testata: Informazione Corretta
Data: 27 giugno 2012
Pagina: 1
Autore: Annalisa Robinson
Titolo: «Contro la discriminazione e i sistemi giuridici paralleli»

Contro la discriminazione e i sistemi giuridici paralleli
Il coraggioso disegno di Caroline Cox alla Camera dei Lord
analisi di Annalisa Robinson


Annalisa Robinson, Caroline Cox

Nel 1856, una petizione corredata dalle firme di ben 26,000 donne venne inoltrata alla Camera dei Comuni per sostenere una proposta di legge (il Married Women's Property Bill) che avrebbe dato alle donne sposate il diritto di disporre del proprio patrimonio e dei propri guadagni, fino a quel momento riservato ai mariti (che potevano benissimo, con la benedizione della legge, investirlo in birra e altri passatempi).  Tra le firmatarie c'erano femministe ante-litteram come Harriet Martineau, Barbara Bodichon ed Eliza Fox, e intellettuali note come George Eliot ed Elizabeth Gaskell. Quest'ultima, nota per il suo impegno sociale, firmò con molte riserve. Non perchè non fosse d'accordo con i nobili scopi della petizione, ma perché dubitava che all'epoca fosse possibile applicare una legge del genere: anche se fosse stata approvata, i mariti avrebbero avuto molti argomenti per far leva sulle mogli, e sarebbero riusciti comunque a fare quello che volevano.  Comunque Mrs. Gaskell firmò, la legge (1857) non passò, ma ci fu un Divorce and Matrimonial Causes Bill che rimosse alcuni dei peggiori abusi, e fra il 1870 e il 1885 vennero approvate altre leggi sul diritto di gestire i propri beni che migliorarono le condizioni di vita delle donne sposate (soprattutto quelle del ceto medio).

Il dubbio di Mrs. Gaskell, tuttavia, rimane valido, e mi torna in mente tutte le volte che leggo di iniziative o progetti di legge che contribuirebbero significativamente alla difesa dei diritti  delle donne appartenenti a minoranze religiose. Primo fra tutti il disegno di legge della valorosa baronessa Caroline Cox, che siede alla Camera dei Lord come indipendente e a 74 anni continua a battersi per i diritti umani e cause umanitarie di tutti i tipi: il suo Arbitration and Mediation Services (Equality) Bill, del giugno 2011, ha lo scopo di assicurare che tutti i servizi di arbitraggio e mediazione operino nell'ambito delle leggi britanniche e che non formino un sistema legale parallelo in cui la legislazione attuale sull'eguaglianza tra i sessi non venga rispettata, e vi sia quindi spazio per la discriminazione nei confronti delle donne.

Il 10 maggio 2012 il disegno di legge ha iniziato il suo iter alla Camera dei Lord (http://www.publications.parliament.uk/pa/bills/lbill/2012-2013/0007/13007.i-ii.html o   http://www.publications.parliament.uk/pa/bills/lbill/2012-2013/0007/13007.pdf) e una seconda lettura è in programma per ottobre.  Il disegno è appoggiato da una vasta coalizione di associazioni, da quelle cristiane alla National Secular Society, e molti parlamentari si sono impegnati a sostenerlo. Persino il website del politicamente correttissimo Guardian dà un'opinione positiva, definendolo, con le parole di Andrew Brown, “una buonissima cosa e un'azione politica esemplare”.

Di che cosa si tratta esattamente?

Il disegno di legge riguarda TUTTI i servizi di arbitraggio e mediazione e si articola in termini di diritti umani, senza menzionare l'Islam; tuttavia sarebbe un passo molto significativo nella lotta alla discriminazione delle donne musulmane nell'ambito della Sharia (ad esempio renderebbe fuorilegge l'uso di dare alla testimonianza delle donne metà del peso di quella degli uomini). Le proposte del disegno includono:
• l'introduzione di un nuovo reato per chi, affermando falsamente di avere poteri di giurisdizione, giudica questioni che sono di competenza dei tribunali penali o civili, con una pena massima di cinque anni di detenzione;
• l'esplicita affermazione in termini di legge che la vigente legislazione sulla discriminazione tra i sessi si estende a tutti i servizi di arbitraggio e mediazione, e che qualsiasi decisione in contrasto con essa è invalida;
• l'obbligo per tutti gli enti pubblici coinvolti di informare le donne che in caso di matrimonio non riconosciuto dallo Stato avranno meno diritti;
• l'esplicita affermazione in termini di legge che i tribunali arbitrali non possono occuparsi di diritto di famiglia (ad es. di divorzi per matrimoni legalmente riconosciuti, o di custodia dei figli) o di diritto penale (ad es. di violenza domestica);
• rendere più facili e veloci le procedure con cui i tribunali civili annullano un accordo di mediazione, o qualsiasi altro tipo di accordo, nel caso in cui sia stato raggiunto con pressioni o coercizione;
• l'esplicita affermazione in termini di legge che la vittima di un abuso domestico è testimone di un reato e quindi dovrebbe essere necessariamente protetta da intimidazioni.

Tutte queste misure appaiono contingenti in un momento in cui la custodia e il contatto con i figli vengono sempre più discussi da organismi che applicano la Sharia, contribuendo all'isolamento delle comunità musulmane ed escludendo i figli di genitori musulmani dalla protezione della legge britannica, la cui preoccupazione principale è il benessere del bambino.
Secondo la Sharia, a partire da una certa età la custodia dei figli spetta invariabilmente al padre, a prescindere dalle circostanze e persino dal fatto che il padre sia riconosciuto come violento. Insomma, il padre viene reso padrone.

L'associazione “One Law for All” ha prodotto una pubblicazione, ‘Equal and Free?’, che è stata inviata a tutti i membri della Camera dei Lord per illustrare quanto sia necessaria una legge  come quella proposta da Lady Cox, e quanto sia pericoloso un sistema legale parallelo basato sulla religione. Ad esempio, l'opuscolo spiega in che modo il diritto di famiglia applicato dalla Sharia violi norme di legge in fatto di protezione dei minori. 

Caroline Cox afferma chiaramente che né lei desidera, né il disegno di legge intende, “interferire in questioni teologiche interne di gruppi religiosi”. Auspica una discussione responsabile e rispettosa sulla Sharia, anche per prevenire un'islamofobia disinformata, ma la sua preoccupazione principale è la discriminazione nei confronti delle donne, quindi di garantire che queste non siano oggetto di “coercizioni, intimidazioni, o ineguaglianza”. Keith Porteous Wood, direttore della National Secular Society, le fa eco: “La legge non dovrebbe limitare le libertà religiose, né i tribunali dovrebbero occuparsi di questioni teologiche. Tuttavia, secondo lo stesso principio, leggi democraticamente sviluppate basate sul rispetto dei diritti umani devono sempre avere la precedenza sulle leggi di qualsiasi religione”. Concorda l'ex vescovo di Rochester, il Dr. Michael Nazir-Ali, cresciuto in Pakistan: “Il problema è che la Sharia di per sé prevede l'ineguaglianza per certe categorie di persone. Musulmani e non musulmani, uomini e donne non vengono trattati come eguali”. Conclude Cox: “Ignorare il torto significa condonarlo”.

Ma quali sono, più in dettaglio, i servizi di arbitraggio e mediazione che applicano la Sharia nel Regno Unito?

Innanzitutto i Muslim Arbitration Tribunals (http://www.matribunal.com), istituiti nel 2007 per “fornire un'alternativa ai membri della comunità islamica che desiderino risolvere dispute secondo la sacra legge islamica senza intentare costose e protratte cause giudiziarie”. Come le corti Beth Din, questi tribunali si occupano di dispute finanziarie e d'affari. Operando in base alla legge sull'arbitraggio (Arbitration Act), le decisioni degli arbitri sono definitive e vincolanti anche nei tribunali britannici; tuttavia l'arbitraggio è valido soltanto se tutte le parti in causa lo accettano, e soprattutto accettano le regole che esso applica, nella fattispecie la Sharia. Attualmente ci sono cinque tribunali (Londra, Bradford, Manchester, Birmingham, e  Nuneaton) e altri due sono in allestimento in Scozia (Glasgow ed Edimburgo).

Oltre ad essi vi sono altri organismi meno formali, i cosiddetti “Sharia councils”, che dovrebbero essere organi puramente consultivi, ma che sembrano occuparsi in misura sempre maggiore di questioni di diritto di famiglia e di diritto penale.  Ad esempio, l'Islamic Sharia Council, organizzazione non a scopo di lucro fondata nel 1982, fornisce guida e consiglio secondo una prospettiva islamica in materia di “matrimonio, divorzio, questioni finanziarie, business e altro”. Nel Regno Unito vi sono circa 85 “Sharia councils”.

La stampa ha spesso rappresentato questi organismi come un'alternativa liberamente scelta da coloro che vi fanno ricorso, e in armonia con l'attuale legislazione in fatto di diritti umani e uguaglianza. Tuttavia, secondo Charlotte Rachael Proudman, un legale che rappresenta donne musulmane davanti a questi servizi di arbitraggio, questi ultimi “operano in un sistema di riferimento misogino e patriarcale incompatibile con la legislazione britannica”. Ad esempio, Nel sito web dell'Islamic Sharia Council si afferma che “in considerazione delle sue responsabilità dal punto di vista finanziario, nell'Islam il diritto al divorzio spetta in primo luogo al marito”. Per una donna è infinitamente più difficile far valere questo diritto: Proudman cita il caso di una donna costretta a un matrimonio forzato, caratterizzato da violenza fisica e sessuale, che tuttavia, dopo anni di appelli a uno “Sharia council” nonché numerosi interventi di riconciliazione e mediazione continua a vedere respinta la propria istanza di divorzio islamico. Il motivo? Una donna non può separarsi unilateralmente dal marito, quindi un imam del council la invita a tornare a casa e a riprendere i propri doveri coniugali nell'ambito del matrimonio violento a cui era stata costretta.  Un atteggiamento che praticamente legittima comportamenti inaccettabili secondo le leggi dello Stato.

La discriminazione si estende a dettagli più mondani: un uomo che inoltra domanda di divorzio (Talaq) all'Islamic Sharia Council deve pagare una commissione di 200 sterline; una donna che fa lo stesso (Khula) deve pagarne 400 (si vedano in proposito le note ai moduli di divorzio scaricabili dal sito web dell'Islamic Sharia Council, http://www.islamic-sharia.org/). Ingiusto, soprattutto se si considera che molte di queste donne non dispongono di denaro proprio e che in ultima analisi il loro denaro, quando riescono a metterlo insieme, viene usato per far prosperare istituti che le escludono e le mantengono in uno stato di inferiorità. Per porre fine al proprio matrimonio, infatti, le donne non possono far altro che ricorrere agli Sharia councils, iniziando un processo non solo lento, lungo (anche dieci anni) e dai risultati incerti, ma anche psicologicamente pesante; un processo che indirettamente le colpevolizza e le punisce in quanto incapaci di continuare un matrimonio infelice e spesso, come nel caso dei matrimoni forzati, sbagliato fin dall'inizio. La lunga, frustrante e spesso inutile attesa diventa praticamente uno strumento punitivo per il “fallimento” dell'appellante come donna e come madre.

E ancora: la donna che richiede un divorzio islamico deve presentare due testimoni maschi e musulmani che corroborino la sua versione dei fatti, cosa praticamente impossibile per la stragrande maggioranza delle appellanti (nessuna delle clienti dell'avvocato Proudman ci è finora riuscita).  Questa condizione è particolarmente sgradevole in quanto riflette una visione della donna come cittadina di serie B, incapace di dare una testimonianza affidabile in tribunale.

Secondo Diana Nammi, fondatrice dell' Iranian and Kurdish Women’s Rights Organisation, gli organismi che amministrano la Sharia sono anche “dei business lucrativi”.  L'Islamic Sharia Council, che teoricamente non è a scopo di lucro, processa 500 istanze di divorzio l'anno. Cosniderando un introito di 400 sterline per ciascuna delle donne coinvolte, si ha un incasso di 200.000 sterline esclusivamente per divorzi islamici; considerando istanze di altro tipo, si arriva facilmente a un fatturato annuo di mezzo milione.

Il segretario dell'Islamic Sharia Council, il Dr. Suhaib Hasan, ha firmato un comunicato con il quale respinge le eccezioni avanzate dalla baronessa Cox e dai sostenitori del disegno di legge (http://www.islamic-sharia.org/news/statement-by-the-islamic-sharia-council-on-lady-coxs-on-recently-proposed-2.html). Il comunicato sostiene che la baronessa non abbia nemmeno tentato di capire il funzionamento degli “Sharia councils” e si sia limitata a “rigurgitare luoghi comuni riguardo al ruolo delle donne nell'Islam, allo scopo di svalutare l'operato degli Sharia councils”, mentre invece il 90% delle persone che vi fanno ricorso sono donne (il che sembra piuttosto convalidare le posizioni di Cox in materia). Viene respinta l'accusa che l'operato dei councils sia in contrasto con le leggi dello Stato, in quanto la loro sfera di giudizio si limiterebbe agli aspetti puramente religiosi dei casi loro sottoposti, specialmente in materia di matrimoni e divorzi. Anzi, i councils sono particolarmente utili alle donne nel caso in cui un matrimonio non sia stato registrato, quando la donna viene a trovarsi in una situazione di assoluta vulnerabilità senza poter fare ricorso alla legge (infatti il disegno di legge rende obbligatorio informare la donna sulla sua posizione giuridica in caso di mancata registrazione). La violenza domestica viene condannata dall'Islam e le donne che ne sono oggetto non sono affatto obbligate a tornare dai mariti, anzi hanno ottime probabilità di ottenere il divorzio. Le questioni riguardanti la custodia dei figli vengono demandate ai tribunali civili, a meno che entrambi i coniugi decidano di appellarsi ai councils, il cui parere non è però vincolante. A meno che vi siano “prove evidenti della sua incapacità a rivestire il ruolo di madre e occuparsi dei figli”, la madre ha la custodia dei figli minori. Nelle dispute legali, anche gli uomini devono presentare due testimoni maschi: l'idea che la testimonianza delle donne valga meno di quella degli uomini non viene neppure presa in considerazione nel comunicato perchè “gli sharia councils si occupano di matrimoni e divorzi, quindi non hanno giurisdizione in materia”.

Non c'è dubbio che il disegno di legge della baronessa Cox sia un passo molto importante in termini di giustizia, di diritti umani, di protezione dei minori, di eguaglianza fra i sessi. Non si può che sostenerlo.  E tuttavia in me continua ad affacciarsi il dubbio della signora Gaskell, come anche il ricordo delle grida manzoniane, che nessuno aveva il coraggio o la forza di applicare. Se si considera che molte donne musulmane (comprese quelle che hanno registrato il matrimonio) hanno pochi contatti al di fuori della loro cerchia familiare, usano con difficoltà l'inglese, possono disporre di poco denaro, e sono pesantemente condizionate da un sistema culturale che include tutti gli aspetti della vita, la domanda sorge spontanea: e come glielo facciamo sapere che con l'approvazione della legge avranno più diritti?  E il coraggio e la volontà di farli valere, chi glieli dà?


http://www.informazionecorretta.it/main.php?sez=90

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