Riportiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 20/06/2012, a pag. 19, l'articolo di Sergio Romano dal titolo "La Giordania aspetta le riforme: «Ma il re finge di non vedere»".
Sergio Romano
Notiamo che, dopo le nostre segnalazioni, la redazione del Corriere della Sera, ha cambiato l'intestazione del reportage di Sergio Romano, togliendo la dicitura "Una terra per due popoli" con bandiera israeliana e palestinese. Una dicitura scorretta, dal momento che già la terza puntata (quella di oggi è la quarta e ultima) del reportage era sulla Giordania.
Ecco il pezzo:
Gli slogan delle rivolte arabe sono stati, da un Paese all'altro, più o meno gli stessi. Dal Cairo a Tunisi, da Algeri a Bengasi, i giovani dimostranti hanno denunciato la malefatte dei leader e la corruzione diffusa, hanno chiesto riforme, democrazia, lavoro. Il volto «nuovo» di tutti i movimenti è in realtà quello vecchio, barbuto e austero dei Fratelli Musulmani; e i vincitori delle elezioni, quando hanno luogo, sono spesso i rappresentanti della confraternita, creata in Egitto nel 1928 da Hassan Al Banna, che sembra avere raccolto al Cairo in questi giorni, con la elezione alla presidenza della Repubblica del «fratello» Mohamed Morsi, il suo maggiore successo.
Le vicende giordane presentano molte analogie e qualche differenza. Anche ad Amman e nelle altre città del regno, i dimostranti sono scesi in piazza con le stesse rivendicazioni, ma la rabbia, diversamente da quanto è accaduto in Tunisia, Egitto e Libia, ha sfiorato il «sultano» senza farne il suo principale bersaglio. La dinastia ascemita viene dal Golfo ed è giunta in questo Paese soltanto alla fine della Prima guerra mondiale, ma ha il merito di avere creato uno Stato, una funzione pubblica, un esercito, una borghesia e una società per quanto possibile nazionale. Per re Abdullah, quindi, è stato abbastanza facile licenziare il primo ministro, nominare il suo successore e promettere che i prossimi presidenti del Consiglio saranno scelti, come nelle monarchie costituzionali, d'accordo con il parlamento. Resta da vedere, naturalmente, se sia davvero disposto ad abbandonare alcune delle prerogative che ha ereditato dal padre e che ha costantemente esercitato in questi anni.
Il primo nodo da sciogliere è la legge elettorale. Quella giordana è ispirata a un principio apparentemente ineccepibile: una persona, un voto. I cittadini vanno alle urne per scegliere il loro deputato, e il seggio, nei singoli collegi, spetta al candidato che ha avuto un voto in più. Peccato che in Giordania, dove esistono grandi clan di origine tribale, un sistema così impeccabilmente britannico produca una Camera composta da persone che devono la loro elezione alla famiglia allargata di cui sono membri. I giordani preferiscono non usare la parola «tribù», ma sanno che vi sono aree del Paese, soprattutto al sud, in cui va in scena, prima dell'apertura delle urne, una versione locale delle elezioni primarie. I gruppi familiari si riuniscono per scegliere il membro della famiglia da cui vogliono essere rappresentati, e la persona prescelta potrà contare, indipendentemente dalle sue idee, sulla lealtà dei suoi numerosi «cugini». Questo sistema, fondato sui legami di sangue, ha avuto sinora l'effetto d'impedire la formazione di solidi partiti nazionali. Per favorirne la nascita una Commissione elettorale nominata dal re e composta da cinquanta notabili ha proposto una nuova legge elettorale.
L'uomo che ha presieduto la commissione è Taher Al Masri, un palestinese di Nablus che ha fatto in Giordania una brillante carriera politica: ministro di Stato per gli affari dei territori occupati, ambasciatore in alcune capitali europee, ministro degli Esteri, primo ministro e ministro della Difesa per alcuni mesi nel 1991, presidente della Camera alta dal dicembre del 2009. Nel salotto della sua casa di Amman, una piccola villa circondata da un giardino in un quartiere residenziale della città, mi spiega che nella legge proposta dalla Commissione ogni elettore disporrebbe di due voti: con il primo eleggerebbe il suo candidato in un collegio uninominale, con il secondo voterebbe per la lista di un partito politico. E' una formula ispirata al sistema elettorale tedesco (quello che da noi piace, tra gli altri, a Massimo D'Alema) a darebbe ai partiti politici la possibilità di irrobustirsi. Ma nella Camera dei deputati sembra prevalere il desiderio di cambiare il meno possibile. Non è sorprendente: i deputati sono stati eletti con il vecchio sistema (una persona, un voto) e non hanno voglia, come i tacchini della parabola inglese, di scegliere il giorno in cui verranno ammazzati. Le elezioni dovrebbero avere luogo prima della fine dell'anno, ma i dubbi della Camera rischiano d'inceppare il calendario elettorale.
Ho scritto che in Giordania i partiti politici sono associazioni fragili ed effimere. Avrei dovuto aggiungere che un vero partito esiste ed è, come in Egitto, una costola della Fratellanza Musulmana. Si chiama Fronte di Azione Islamica e rappresenta probabilmente il 20% del Paese: una fascia della società composta da elettori che sono uniti dalla loro ideologia politico-religiosa piuttosto che dalle origini etniche o tribali. Il segretario generale del partito è lo sceicco Hamzeh Mansour, già deputato in alcune legislature. E' un uomo alto e robusto, ha il volto coperto da una bella barba bianca e veste un abito di foggia europea con una cravatta dai colori vivaci, ma porta sul capo una sorta di kefiah. Mentre un giovane segretario mi serve una tazzina di caffè aromatico e la sostituisce subito dopo con un the alla menta, lo sceicco mi dice che il suo partito «combatterà la corruzione, rispetterà il risultato delle urne e difenderà la democrazia contro chiunque la minacci» (un'allusione all'islamismo fanatico e radicale?). All'inizio della primavera araba, continua, «non abbiamo chiesto il cambiamento del regime, ma ci siamo limitati ad alzare il vessillo delle riforme». Chiedo qualche precisazione e lo sceicco mi risponde che il suo partito vuole una magistratura indipendente, una funzione pubblica non soggetta all'arbitrio del potere politico e una più netta separazione dei poteri. Sul problema delle donne nella società ricorda che l'uomo e la donna, secondo l'insegnamento del profeta, hanno gli stessi diritti, e che la donna può essere, tra l'altro, proprietaria e amministratrice di beni. Vuole tranquillizzare gli osservatori occidentali? E' probabile, ma il tono è quello di un uomo politico che intravede la possibilità di andare al potere e non intende guastarla con qualche impopolare riferimento alla sharia.
In materia di legge elettorale e sul modo in cui si andrà alle urne, lo sceicco Mansour ha idee molto chiare. Il suo partito vuole le elezioni, ma con una legge nuova, e sostiene che dopo la dissoluzione della Camera l'attuale governo dovrà dimettersi nel giro di una settimana per lasciare il posto a un gabinetto di transizione presieduto da una personalità nazionale stimata e rispettata. Gli chiedo se abbia in mente qualche nome e mi risponde che vi sono nel Paese molti uomini che godono della fiducia popolare. Ma il re, aggiunge, «porta gli occhiali scuri».
Quando riferisco la frase ad altri interlocutori giordani mi viene spiegato che l'espressione araba definisce chi non può o non vuole vedere. E' certamente vero che re Abdullah e la monarchia non sono stati il principale bersaglio delle manifestazioni popolari. Ma qualcuno si è affrettato ad aggiungere: per il momento.
Sergio Romano
4-fine.
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