Il commento di Daniele Scalise
Daniele Scalise, giornalista e scrittore. Scrive su 'Prima Comunicazione'.
E' autore di
Cose dell’altro mondo. Viaggio nell’Italia gay-Zelig
Il caso Mortara-Mondadori
I soliti ebrei -Mondadori
Lettera di un padre omosessuale alla figlia-Rizzoli http://www.informazionecorretta.com/main.php?mediaId=115&sez=120&id=33806
Piuttosto che esercitarmi in un commento irato o sconsolato (ne avrei, come tutti noi, molte ragioni e assai più diritto) preferisco fare (farmi e farvi) una domanda. C’è da tempo una questione sulla quale mi interrogo e alla quale onestamente non so dare una risposta (forse perché non c’è una sola risposta, forse perché non sono poi così acuto come mi piace immaginare di essere). La domanda è: perché Israele ha una così pessima stampa? Voglio dire: perché, in linea di massima, i media mantengono nei confronti di Israele un atteggiamento a dir poco antipatizzante, un’ostilità plateale, un riflesso condizionato che porta a mistificare la realtà, a pubblicare fotografie tagliate o manipolate, a inventarsi leggende oscure e micidiali ecc. ecc.? La legge ovvia che dice che ognuno ha diritto alle proprie opinioni ma non ai propri fatti pare che, quando si tratta di Israele, non valga. Alla domanda si possono dare almeno un paio di risposte. Una consolatoria (e vera), l’altra irritante (e forse vera anch’essa).
E’ fuor di dubbio che i media riflettano l’ostilità politica dei vari governi e delle opinioni pubbliche e quindi quelle di società che a loro volta conservano e coltivano più o meno segretamente un immarcescibile antisemitismo che, come sappiamo bene, si è trasferito (almeno in parte) sullo Stato di Israele. E’ ormai un riflesso condizionato. Basti vedere cosa è successo di recente al Corriere della Sera a proposito di un articolo su un fattaccio avvenuto in Giordania il cui titolo dava l’impressione che fosse avvenuto in Israele. Io stesso, alla prima e superficiale lettura c’ero cascato, come si dice, con tutte le scarpe. Poi, quando mi sono reso conto della realtà, ho dato fuori di matto, ho preso il telefono e cominciato a urlare insulti telefonici a un responsabile del giornale di Via Solferino. Come al solito sono stato accolto con imbarazzo e condiscendenza, due sentimenti di solito riservati ai pazzi. Non è servito a nulla se non a sfogare la mia rabbia e il mio sdegno.
C’è però anche un’altra questione penosa che io vorrei affrontare: l’Ufficio Stampa di Israele (intendo la struttura comunicativa generale e non un organo preciso, intendo una cultura della comunicazione e non una persona o un gruppo di persone) ha dimostrato e spesso continua a dimostrare (con le dovute eccezioni, si intende) una inadeguatezza, una mediocrità, un’inefficienza e una carica autolesionista che lascia basiti.
Si direbbe che Israele consideri la comunicazione un elemento pressoché inutile. Visto che il pregiudizio è tale e tanto, non varrebbe la pena di contrastarlo se non con una politica routinaria che oggi meno che mai è utile ed efficace.
Nei confronti dei giornalisti (anni fa l’ho sperimentato personalmente) c’è spesso un comprensibile (ma profondamente erroneo) atteggiamento determinato dal sospetto dando per scontato (e nel 90% dei casi azzeccandoci) che il proprio interlocutore sia costituito da un cumulo di pregiudizi e di ostilità. Mi guardo bene dal suggerire che “l’Ufficio Stampa” di Israele debba lavorare sulle moine, cercare di acquisire la simpatia con atteggiamenti suadenti, impietosire, cincischiare e corrompere come sa fare molto bene il corrispettivo palestinese. Prendete il caso della flottilla con quella banda di delinquenti che hanno aggredito con tanto di coltelli i soldati israeliani. Prendete la storia di quel giovane italiano massacrato dai suoi amici palestinesi. Le foto censurate dove si vedevano i coltelli e i soldati feriti hanno circolato quasi unicamente solo tra di noi. Di casi simili, purtroppo ce ne sono tutti i giorni. Forse mi sbaglio e gli amici mi potranno aiutare a capire. Ma, continuo, vi pare possibile che, con tutto l’amore e l’ammirazione per Bialik, sia stata cosa sensata nominare un’operazione militare anti-Hamas ‘Piombo fuso’? Le parole non contano?
Se non siamo noi (noi, ebrei e non ebrei, che consideriamo la democrazia israeliana un bene collettivo da difendere) a porci e a porre domande fastidiose, irritanti e perfino confuse, chi lo deve fare? Dobbiamo accontentarci di recitare le solite quanto consentite invettive o possiamo immaginare di costruire qualcosa di meglio, di più potente e utile per Israele, per la libertà, per la verità?