Siria: riprendiamo il commento dell'On. Fiamma Nirenstein, ieri alla Camera dei Deputati, l'editoriale del FOGLIO di oggi, 09/06/2012, a pag.3, e l'analisi di Carlo Panella, nella stessa pagina del Foglio.
Ecco i pezzi:
Commento dell'On. Fiamma Nirenstein, Vice Presidente della Commissione Esteri della Camera dei Deputati, sulla situazione siriana:
"Se l'Occidente attacca la Siria, Israele brucerà"
Roma, 8 giugno 2012
On.Fiamma Nirenstein
Larjani, il presidente del parlamento iraniano, ha detto che se l'Occidente attacca la Siria, Israele brucerà. E' un'ipotesi con buoni fondamenti, dal momento che stanno passando dalla Siria agli Hezbollah centinaia di missili con 700 chilometri di gittata e che possono essere armati con testate chimiche. Anche le armi chimiche sono in viaggio per essere utilizati contro Israele dal LIbano. La situazione siriana rischia di creare una terza guerra mondiale: la Russia e la Cina da una parte con l'asse iraniana, dall'altra l'Europa e gli USA con un imprevedibile asse sunnita.
Se non si riesce a far cessare Assad dalla strage, se l'ONU è incapace e inerte nel suo consueto stile, biosgnerebbe tuttavia almeno comprendere che si è creata una situazione esplosiva per l'incredibile passaggio di armi in mani irresponsabili e incontrollabili. Il ruolo della forze internazionali in Libano dovrebbe essere rinforzato per fermarle, così come quello anche delle forze internazionali nel Sinai, che, da quando Mubarak non lo controlla è diventata zona franca per il passaggio di armi a Hamas e al Al Qaeda. Per non parlare del passaggio di armi dagli arsenali di Gheddafi a Al Qaeda.
Israele è l'unica oasi di controllo democratico e di responsabilità internazionale in mezzo a un mare in tempesta, ed è alla fine lo scolgio contro cui si lanciano le ondate del riarmo di forze sempre più forti e sempre più incontrollabili.
Editoriale: " Il regime change è una cosa seria "
Assad se ne deve andare, Assad se ne vada, Assad non può più star lì, Assad non è più legittimato, Assad ha violato ogni decenza umanitaria. La maggior parte dei leader globali pensa che il rais sirano non debba più stare dov’è, che a Damasco ci sia bisogno di un regime change. Nessuno ha idea di come farlo, però, il cambiamento del regime. C’è un generale consenso sulla via yemenita – sostituire il dittatore di oggi con un altro più malleabile e collaborativo – con l’unico particolare non irrilevante che non c’è un sostituto credibile di Assad. Non c’è un leader tra i ribelli, non c’è un leader nell’establishment (o forse c’è, ma è più facile che piaccia ai russi e agli iraniani che all’occidente), non c’è nemmeno uno straccio di Chalabi. Il regime change à la yemenita non si può fare. L’alternativa è quella libica, ma a parte che formalmente quello non era nemmeno un regime change perché nessuno ha avuto il coraggio di chiamarlo così, un voto al Consiglio di sicurezza è difficile da ottenere. C’è allora l’alternativa dei Balcani – Clinton che bombarda Milosevic senza l’appoggio dell’Onu – ma pare difficile che un’Amministrazione americana tanto multilaterale e tanto propensa a mandare avanti gli alleati piuttosto che metterci la faccia riesca a sostenere uno strappo internazionale di questo tipo, a pochi mesi dalle elezioni poi. Quindi? C’è l’alternativa irachena, l’unico regime change riuscito: l’Iraq è un paese fragile, ha subito centinaia di migliaia di morti, ambiguo nella sua strategia con l’Iran, opaco nella gestione interna tra sunniti, sciiti e curdi (anzi sono tornate le cosiddette bombe settarie contro gli sciiti), con un premier che ha tanta voglia di fare il dittatore, ma oggi Saddam Hussein non c’è più, le truppe straniere nemmeno, e dal primo luglio l’esercito iracheno lascerà le grandi città e tornerà la polizia. Per fare questo regime change ci sono voluti: la chiarezza morale e strategica di alcuni volenterosi contro il resto del mondo; tantissimi uomini sul terreno, boots on the ground; un cambio di strategia militare deciso, con la contrarietà di tutta l’opinione pubblica mondiale, nel momento più drammatico della campagna. Si può pensare che quella guerra non fosse giusta e questa, contro la Siria, invece lo sia: noi pensiamo che siano entrambe giuste, ma un regime change non lo puoi fare facendo andare avanti i turchi, i sauditi, i qatarioti. Bisogna assumersene la responsabilità, i costi politici, sociali, economici. Morali soprattutto, e il pragmatismo, sorry, non basta.
Carlo Panella: Cosa c'è dietro la Conferenza sulla Siria su cui insiste Putin ?
Carlo Panella
Roma. Dare tempo a Vladimir Putin per formare un nuovo “partito russo” in Siria, garantire alla Russia un accordo scritto con Stati Uniti, Unione europea, Arabia Saudita (controfirmato dall’Iran) che le permetta di continuare, anche senza Bashar el Assad, ad avere un “protettorato” a Damasco, assicurare che i successori di Assad non denunceranno la concessione delle basi navali militari di Tartous e Latakia. L’unica strada per convincere Mosca a non opporre più il suo veto (che “trascina” quello di Pechino) a una qualche forma di intervento umanitario dell’Onu in Siria è definire una road map che operi un “regime change” siriano soft, che veda la Russia tra le potenze garanti e soprattutto garantite. E’ questa la cruna dell’ago in cui deve passare il lavorìo diplomatico di Kofi Annan, inviato dell’Onu e della Lega araba in Siria, in questi giorni per sbloccare la crisi a Damasco. Assad, proprio per tenere unito il vertice del regime, soprattutto quello militare, e impedire ogni regime change, preme sulla repressione e sulle stragi – se ne registrano di continuo, sono esecuzioni sommarie, come quella di Houla – per macchiare della complicità nel sangue ogni suo gerarca che mediti di sfilarsi, come fecero i principali ministri dell’ex colonnello libico Muammar Gheddafi.
L’ultimo presidio russo in terra araba
Questa complessa manovra politico-diplomatica forse ha un domani, a causa del grande vuoto di rappresentanza politica di cui soffre l’unica vera rivoluzione araba (le altre erano rivolte accompagnate subito da golpe degli ex fedelissimi del rais): il vuoto di leadership è sommato alla incredibile capacità di resistenza del popolo siriano, che non cessa di scendere nelle strade, pagando un prezzo di sangue, uno stillicidio di morti, enorme. La rigidità inflessibile del capo del Cremlino, Vladimir Putin, sul dossier siriano è di fatto obbligata. L’Unione sovietica prima e la Russia del dopo 1991 poi godevano di tre alleati e mezzo nel mondo arabo: Iraq, Siria, Libano e Yemen. Lo Yemen di Abdullah Saleh (diploma militare a Mosca) si sganciò dall’orbita russa nel 1994. L’Iraq di Saddam Hussein comprava armi soltanto da Mosca e aveva concesso un mega contratto all’Urss negli immensi giacimenti di Rumailia: l’invasione della coalizione dei volenterosi del 2003 ha privato Mosca di entrambi mercati, delle armi e del petrolio (ora Rumailia è sfruttata dalla British Petroleum). Identica la situazione della Libia di Gheddafi: grandi forniture d’armi russe e ancor più consistenti concessioni petrolifere alla Lukoil, le une e le altri andate in fumo con la guerra voluta dall’Onu e combattuta dalle forze della Nato nel 2011 (che fece, non a caso, imbestialire Putin contro l’allora presidente Dmitri Medvedev, che non aveva posto il veto all’Onu). Se ora cadesse il protettorato russo sulla Siria, garantito da trentatré anni dalla famiglia Assad, la Russia si vedrebbe orbata dell’ultimo, unico presidio della sua sfera d’influenza in terra araba e nel Mediterraneo. Un danno incalcolabile e insopportabile alla propria sfera di influenza regionale e mondiale. In questo contesto, il Cremlino ha inaugurato una nuova fase di intensi e discreti contatti con gli oppositori di Assad. Subito dopo avere rotto col Consiglio nazionale siriano (da lui accusato, non a torto, di essere “agli ordini dell’Arabia Saudita e del Qatar”), Kamal Labouani, un laico, filo occidentale, fondatore del Rassemblement Libéral Démocratique (condannato nel 2007 a 12 anni di prigione e da poco liberato) è corso a Mosca per intensi colloqui riservati. Una delegazione del Consiglio nazionale è appena partita dalla Russia, dopo i colloqui con Sergei Lavrov, ministro degli Esteri russo, che ha appena incontrato anche una delegazione del Fronte popolare per il cambiamento e la liberazione (Fpcl) siriano.
Le manovre per contenere l’egemonia saudita
A giorni è atteso al Cremlino un ospite di rilievo: lo zio di Assad e suo ex vicepresidente, Rifaat el Assad, in esilio in Francia dal 2000, quando non riuscì a succedere all’appena defunto fratello Hafez, nonostante avesse tentato un “pronunciamento” dell’esercito. Rifaat è – e a ragione – molto screditato presso gli oppositori siriani (è corresponsabile, tra l’altro, del massacro di Hama del 1982), ma gode ora di due punti di forza. Innanzitutto è l’unico alto esponente alawita che ha qualche chance di far superare alla setta il trauma della caduta di Bashar, fornendo garanzie contro un’epurazione selvaggia. In secondo luogo è intimo della corte saudita (sua cognata è moglie del re Abdullah) e ha strettissimi rapporti politici con Riad. E’ quindi probabile che Lavrov discuterà con Rifaat del seconindispensabile piano del progetto russo di soluzione della crisi siriana: la Conferenza internazionale sulla Siria. La Siria è l’unico paese arabo caratterizzato da una lunga tradizione di “protettorato” occidentale, sin dai tempi dell’Impero ottomano. Nel 1831, la Francia con il concorso di tutte le nazioni europee, impose alla Grande Porta, che dovette subire l’umiliazione, un “protettorato sui cristiani del piccolo Libano” (che si estendeva da Aleppo, Damasco a Beirut). Dal 1922 – quando intervenne militarmente a Damasco – e sino al 1946, Parigi esercitò un “mandato” formale sulla Siria. Il senso della Conferenza internazionale sulla Siria cui lavora Putin – e su cui pare abbia cercato la sponda del presidente francese, François Hollande, nel loro incontro della settimana scorsa – è appunto quello di formalizzare una specie di “protettorato” plurimo e di mutua garanzia sul governo che sostituirà quello di Assad (che Putin non intende difendere perinde ac cadaver). In questo modo Mosca porrebbe un argine nei confronti dell’ennesima ascesa al governo dei Fratelli musulmani, e proteggerebbe gli interessi geopolitici e militari della Russia nel Mediterraneo orientale. L’obiettivo finale è arginare una palese pretesa egemonica sul paese a opera di Arabia Saudita e Qatar, in prima fila oggi nel sostenere militarmente i disertori ribelli e il Consiglio nazionale siriano. Su questo accordo (che comprende un braccio di ferro sulla partecipazione dell’Iran alla Conferenza stessa) lavora in questi giorni Annan (la cui “tregua” è palesemente fallita), nel tentativo di trovare una mediazione tra Mosca, Riad, Ankara, Teheran, Parigi e ovviamente Washington. C’è un problema: l’assenza di una strategia, di una dottrina da parte della Casa Bianca sia nei confronti di Mosca sia della crisi dei paesi arabi e soprattutto della crisi del nucleare iraniano. E con le elezioni a novembre.
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