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La Stampa Rassegna Stampa
07.06.2012 Gli azzurri in visita ad Auschwitz
i tifosi razzisti traggano la dovuta lezione

Testata: La Stampa
Data: 07 giugno 2012
Pagina: 1
Autore: Massimiliano Nerozzi
Titolo: «Azzurri, il giorno della commozione»

Riportiamo dalla STAMPA di oggi, 07/06/2012, a pag. 1-47, l'articolo di Massimiliano Nerozzi dal titolo "Azzurri, il giorno della commozione".


Gli azzurri ad Auschwitz

I tifosi che affollano gli stadi insultando giocatori con colore della pelle diverso dal loro e ostentando striscioni antisemiti traggano una meritata lezione dal comportamento dei loro idoli.
Ecco il pezzo:

Il bersaglio preferito dei «buu» razzisti, Mario Balotelli, nero e con genitori (adottivi) di origine ebraica, sul monumento alla follia nazista e razzista, l’ex campo di sterminio di Auschwitz. Spazza via la retorica Piero Terracina, che «dall’inferno dei vivi» si salvò, tredicenne, insieme a 14 compagni, su 1.023 deportati ebrei di Roma: «Ragazzi, state attenti, perché il razzismo porta a questo». Parla agli Azzurri, seduti sui binari che qui portavano i vagoni della morte, scaricando prigionieri dopo viaggi demoniaci: «Due soste in sette giorni e sette notti». Ascoltano, guardano, registrano con il telefonino. L’ Italia arriva qui in mattinata, in un paese che il tempo ha restituito al suo nome originale, Oswiecim, ma che la storia ha imprigionato nella sua traduzione tedesca, Auschwitz.

È un posto che ti lascia sconvolto, dirà Montolivo, che ti segna il cuore, sospirerà Chiellini, ma che pure ti costringe a fare i conti con te stesso. Anche a parlare di cose che fin lì magari ti eri tenuto dentro. «Balotelli era molto toccato - racconta Vittorio Pavoncello, responsabile italiano delle Maccabiadi - e mi ha detto di aver scoperto che i suoi genitori adottivi sono di origine ebraica». Non ha aggiunto altro, chiudendosi in sé. Ha camminato staccato dal gruppo, s’è appoggiato al muro di mattoni rossi delle fuciliazioni. Silenzioso e solitario anche dopo, nella seconda parte delle visita, nel campo di Auschwitz-Birkenau, dove furono sterminati un milione di ebrei e duecentomila prigionieri di altre nazionalità. Si ferma sulla massicciata dei binari e fotografa la porta d’ingresso, come quella che aveva attraversato prima: «Arbeit macht frei», il lavoro rende liberi. Il dolore del silenzio accompagna il viaggio dentro se stessi. Gigi Buffon abbraccia Pavoncello, che attaccò il portiere ai tempi della maglia del Parma numero 88, le ottave lettere dell’alfabeto, HH, Heil Hitler. «Mi ha detto che fu un errore di gioventù», ha raccontato Pavoncello. Anche il portiere azzurro se ne sta quasi in disparte, con gli occhi puntati al racconto dei superstiti. «Questo è l’inferno dei vivi», ripete Anna Weiss, che fu deportata da Fiume e ora vive in Israele. «E tutto questo è stato realtà», dice a bassa voce Buffon. Poco dopo lo scriverà, insieme al presidente della Federcalcio, Giancarlo Abete, sul libro della memoria di Auschwitz: «Mai più questo orrore. Quello che è accaduto qui non riguarda solo un popolo, ma l’intera umanità. Il vostro dolore è il nostro dolore». Prima, sul muro della morte, la squadra aveva deposto una corona di fiori bianchi, rossi e verdi. Ciascun azzurro aggiunge un lumicino, poi la visione allucinante della camera a gas.

Già qui s’è fatto fatica ad arginare le lacrime, come quando nel museo spunta una teca: «Sono scarpe di bambini...», bofonchia un azzurro. Prandelli scuote la testa, e quasi fugge lo sguardo. Sami Modiano, un altro sopravvissuto che fu strappato a Rodi insieme a 2.500 persone, luglio del ‘44, abbraccia Buffon: «Un giorno raccontalo ai tuoi figli». Ci si ferma sul binario di Birkenau. Sami racconta la tragedia della sua famiglia: arrivò qui insieme al padre Giacobbe e alla sorellina Lucia. «Lui provò a difenderla, ma lo massacrarono di botte». Tutte le volte che viene qui, tantissime, con i ragazzi delle scuole, va a cercare gli occhi di Lucia, visti per un mese attraverso il filo spinato: «Ogni volta lascio un sasso». Mostra il numero sul braccio: «B-7456, quello dopo mio padre». Thiago Motta si asciuga più volte le lacrime, Balotelli abbassa la testa, ma piangono un po’ tutti. E ringraziano i sopravvissuti: «Non dire grazie, ma stringi questa mano». Il calcio è lontano e vicinissimo, se laggiù, dietro agli alberi, e di fianco ai forni crematori, «c’era un campetto da calcio dove i nazisti sfidavano gli internati. Sapete, qui sono morti campioni, il mago della panchina, Arpad Weisz». Terracina, «come Nicolò Carosio», recita a De Rossi l’Italia campione del ‘38: «Poi ci furono le leggi razziali, dove tutto cominciò».

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