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Informazione Corretta Rassegna Stampa
07.06.2012 La Shoah in un romanzo da riscoprire
il commento di David Meghnagi a 'Il Parnàs' di Silvano Arieti

Testata: Informazione Corretta
Data: 07 giugno 2012
Pagina: 1
Autore: David Meghnagi
Titolo: «La Shoah in un romanzo da riscoprire»

La Shoah in un romanzo da riscoprire
il commento di David Meghnagi a 'Il Parnàs' di Silvano Arieti


David Meghnagi, Silvano Arieti, Il Parnàs

«È come se questo libro l’avessi scritto, non solo con l’inchiostro, ma anche col sangue. Pagina dopo pagina, mi riusciva impossibile sottrarmi alla esigenza che mi animava. Ma non era facile riandare a un’epoca in cui avrei potuto essere coinvolto ma che ho scansato, anche se ora mi trovo a doverla incessantemente rivivere. Non era facile raccogliere lacrime che né avevo versato né avevo visto in altri, ma che ancora bruciano nei miei occhi» (Silvano Arieti, Il Parnàs [1979], p. 11).

Prologo

Quando Arieti pubblica la storia del Parnàs della Comunità ebraica di Pisa(1), la Shoah non si è ancora imposta nella cultura occidentale come elemento centrale della storia e della memoria europea del Novecento (Alexander, 2003; Meghnagi, 2005a; Hamerow, 2008). In sintonia con una consapevolezza nuova, Arieti (1979) afferma che «la società tutta quanta» non si è «ancora resa conto delle effettive dimensioni dell’Olocausto» e che la cultura non ne ha «ancora recepito il pieno significato» (p. 175). Nel corso della guerra per non dare adito all’accusa nazista che la guerra si combattesse esclusivamente per gli ebrei, per indifferenza o per antisemitismo, l’idea di bombardare le ferrovie che conducevano ad Auschwitz non fu mai presa in seria considerazione. Qualunque azione che non avesse un obiettivo specificamente militare, o che potesse “rallentare” la fine la fine della guerra, era da scartare. Nemmeno la minaccia di bombardare più a fondo le città tedesche, o per contrasto la possibilità di risparmiarle nel caso si fossero ribellate contro lo sterminio nei campi, fu mai presa in seria considerazione. Per le stesse ragioni, le forze della Resistenza non furono mai chiamate ad agire per salvare gli ebrei. La salvezza degli ebrei era per gli Alleati un obiettivo che veniva dopo. Eppure il bombardamento delle reti ferroviarie che portavano ad Auschwitz, la disarticolazione delle retrovie naziste attraverso appelli alla Resistenza per azioni di sabotaggio, unite ad azioni militari mirate, soprattutto tra la fine del 1943 e gli inizi del 1944 quando era chiaro l’esito della guerra, avrebbero potuto salvare decine di migliaia di persone e rafforzare i nuclei della Resistenza affrettando la sollevazione delle popolazioni oppresse in Europa. Le difficoltà tecniche e l’alto numero di vittime che i bombardamenti sui campi avrebbero comportato senza garanzia di risultati (Novick, 1999) non eliminano il dato più certo e inquietante. Il salvataggio di milioni di persone era un elemento secondario della strategia bellica. L’aviazione alleata non si pose problemi quando si è trattato di bombardare le fabbriche della Buna, situate a pochi chilometri dai campi di sterminio, mentre per questi ultimi si è limitata a fotografare dall’alto. Inoltre, per non rendere pubblica la penetrazione dei servizi di comunicazione nazista, le radio alleate non denunciarono l’imminente deportazione degli ebrei romani, né chiamarono la Resistenza a danneggiare la rete tranviaria. Nel caso di una denuncia pubblica, difficilmente il Vaticano avrebbe potuto tacere come poi accadde nonostante la gente da deportare fosse stata concentrata a forza a poche centinaia di metri da San Pietro. Per non “turbare” la pace interna dei popoli entrati a far parte della grande “famiglia sovietica”, bisognava tacere sul fatto che le stragi sul fronte orientale erano state attuate con la compiacenza e la collaborazione di vasta parte delle popolazioni locali. Quando non furono direttamente attuate e per conto proprio. Dopo l’arresto di Mussolini, Badoglio e il re non abolirono le leggi razziste. Non si preoccuparono di dare indicazioni alle prefetture di distruggere gli elenchi degli ebrei, né di informare le comunità ebraiche dei pericoli cui stavano per andare incontro. Dopo l’8 settembre pensarono solo a fuggire lasciando il paese allo sbando. La presa di coscienza pubblica nella Chiesa, con il conseguente abbandono della teologia del disprezzo, ha avuto inizio dopo la tragedia dello sterminio. È doloroso a dirsi. Ha avuto un “prezzo” spaventoso: la morte di un milione e mezzo di bambini. Per quanto manchino ancora studi approfonditi in materia (il che può essere considerato una spia del problema), la Resistenza non si pose il problema della deportazione degli ebrei, né fu chiamata dagli Alleati a farsene direttamente carico (Maida, 2010). Il Comitato di Liberazione Nazionale (CLN) non emanò specifici decreti o minacce contro chi si fosse macchiato di colpe contro gli ebrei. Dopo la guerra fu necessario in molti casi associare il reato di collaborazione al fascismo per condannare chi si era macchiato di delitti contro la popolazione ebraica (Forti, 1998, p. 177) (2). Nella rappresentazione collettiva della cultura progressista europea e italiana degli anni 1950 e inizio anni 1960, gli ebrei sopravvissuti erano considerati in primo luogo dei “salvati”. A parte i soldati della “Brigata ebraica” autorizzata dal governo britannico solo sul finire della guerra, gli ebrei in quanto combattenti non esistevano. Dovettero passare decenni prima che l’immagine stereotipata dell’ebreo che si consegna come “carne da macello” fosse sostituita con altre più fondate che tenessero conto della presenza di oltre un milione di combattenti ebrei della guerra antinazista negli eserciti alleati e nella Resistenza. Solo in Italia, su una presenza ebraica intorno all’uno per mille dell’intera popolazione, privata dei mezzi di sussistenza e braccata in ogni luogo, circa mille combattenti ebrei lottarono nella Resistenza. Inserendosi in questo clima nuovo e di consapevolezza crescente (Meghnagi, 2005a; Hassan, 2011), Arieti (1979) afferma che la cultura doveva fare ancora i conti «con le effettive dimensioni dell’Olocausto» (p. 175). Il destino dell’umanità dipendeva in larga misura dalla cognizione «che le future generazioni» avrebbero avuto di questa tragedia, dal modo in cui avrebbero reagito alla consapevolezza «dell’enorme potenzialità del male» (ibid.). Ove si fosse permesso «che l’oblio o un’indebita permissività» avessero fatto da «velo» a questa tragedia, l’umanità avrebbe corso «il pericolo di un’altra» e «tutt’altro che impossibile soluzione finale» che avrebbe coinvolto l’intero genere umano. In tal caso non ci sarebbe stato un solo «popolo eletto» a fungere da capro espiatorio dei mali del mondo. Nel caso di una nuova ecatombe tutti i popoli sarebbero diventati «ugualmente eletti» (ibid.). Sarebbe stata «questa la scelta dell’uomo?». La risposta di Arieti è un invito al pensiero e alla riflessione. Quanto più grande è il male, ancor più grande deve esserne «la comprensione e l’amore necessario per sconfiggerlo». «I prodromi di questa superiore comprensione, di questo più grande amore – si legge nella pagina conclusiva, con riferimento alla malattia di Pardo Roques – a volte si celano in oscure idee e in strane forme di sofferenza e dolore» (p. 175). Non è escluso che di fronte «alle irresponsabilità di tanti uomini politici e alla cecità di molte persone normali» queste idee si possano ritrovare «nella malattia mentale» (ibid.). In un’opposizione speculare alla malattia individuale di Pardo, c’è la malattia collettiva del nazismo con le sue perversioni sociali e culturali (p. 10). Un terzo elemento sul quale l’autore intende richiamare l’attenzione è lo «strano nesso» (ibid.), direi quasi sincronico, che s’instaura tra le due forme di malattia.

Un testamento spirituale

Salutato da Primo Levi come «un evento raro» (Peskin, 2001, p. 2), Il Parnàs di Arieti (1979) fu per lungo tempo incompreso nella sua reale portata. Collocato ai margini della sua produzione scientifica, quasi fosse una breve parentesi in una lunga vita di studioso e di ricercatore. In realtà Arieti aveva combattuto per lunghi anni col suo bisogno insopprimibile di raccontare, rifiutandosi «anche solo di pensare all’argomento», riprendendo «da capo il filo di una vicenda» che pure conosceva «così bene» (p. 11). Gli ultimi giorni prima di lasciare l’Italia, Arieti li aveva passati a casa con i genitori. Un particolare importante del racconto che ci fa entrare in contatto con sentimenti dolorosi di perdita e di solitudine interiore che lasceranno una traccia per tutta la vita. L’intenzione di Arieti è di raccontare fatti realmente accaduti. L’autore ha «accertato la verità della maggior parte dei fatti esposti». Le parole attribuite ai personaggi sono quelle «che avrebbero probabilmente pronunciato». Nel caso del protagonista, poi, «la cosa non presentava difficoltà». Nei «trent’anni e più trascorsi», quelle parole non hanno smesso di risuonare nella mente. L’unico personaggio inventato è Angelo, «un ‘mosaico’ di vari individui, tutti reali e tutti noti alla comunità» (p. 9). In realtà, come l’autore riconosce, il suo è un romanzo psicoanalitico. I personaggi reali come quelli immaginari sono anche metafore di un processo più ampio che stava prendendo corpo nella cultura occidentale e che aveva come sfondo la personalizzazione della vittima e la sua positivizzazione (per un approfondimento, vedi Wieviorka [1999] e Chaumont [1997]). Procedendo su una linea che con la proiezione della serie televisiva Holocaust aveva suscitato un ampio dibattito e coinvolto il grande pubblico, Arieti sceglie la storia vera di una persona gravemente malata che è allo stesso tempo un uomo buono e saggio con cui identificarsi. Da testimoni, le vittime cessano di essere una massa anonima di “ebrei”, oggetto di pregiudizi secolari che non sono mai venuti meno. Sono persone con cui è possibile identificarsi. Nella rappresentazione idealizzata di Arieti, Pardo è un messaggero di verità per un’umanità che ha smarrito la ragione e il sentimento della compassione, un profeta teso a salvare le poche olive rimaste sull’albero dopo la tempesta. Trattandolo come “un paziente” e allo stesso tempo “un maestro”, con cui dialoga a distanza oltre le barriere del tempo. Le parole che Arieti mette in bocca al Parnàs sono le idee cui è pervenuto lungo tre decenni di ricerche sulla malattia mentale e sulla dignità del malato. L’intreccio fra vissuti individuali e personali, sociali e culturali, non sono elementi esterni alla cura, da cui l’analista può prescindere. Pur all’interno di un metodo che avvantaggia gli aspetti profondi del vissuto individuale, sono elementi essenziali del processo terapeutico. Il malato è in primo luogo una persona inserita in una complessa rete di rapporti famigliari, sociali e culturali. Restituendo dignità al malato, se ne fa testimone di aspetti emozionali e cognitivi che il gruppo famigliare o la società non sono in grado di pensare o di elaborare. I sintomi sono l’eco di un pensiero che non riesce a formarsi (sulla diffusione dell’opera di Arieti in Italia, vedi Galli, 2004). Angelo è un fratello ideale col quale l’autore non ha mai cessato il suo dialogo interiore. Il Parnàs è un Io ideale umiliato ma allo stesso tempo grandioso con cui la generazione dei sopravvissuti ha dovuto dolorosamente confrontarsi per ridare voce a un mondo violentemente scomparso. Nel loro ultimo incontro, Pardo incoraggia Arieti a proseguire gli studi. Chi sa che quel giovane brillante, che aveva visto crescere, non avesse un giorno potuto illuminarlo sui segreti del male da cui era afflitto (Arieti, 1979, p. 15). Colto di sorpresa da quelle parole, Arieti ne è commosso. Un incontro breve fra persone che sanno che per loro è forse l’ultima volta. Forse che il vecchio saggio ha compreso il motivo più segreto per il quale ha deciso di dedicare la propria vita allo studio dell’animo umano, diventando medico e psichiatra? Il padre di Arieti è stato il medico personale di Pardo. Delle sue angosce segrete era informato. Ne avranno parlato e discusso in privato. Ma essendo solo “un medico generico”, non è stato in grado di venire a capo dei suoi disturbi. Al figlio però per motivi deontologici non ha mai raccontato nulla. È possibile? Il figlio ha seguito le orme del padre. È diventato medico, poi psichiatria e psicoanalista. Affascinato dalla psicoanalisi, troverà il modo di combinare il richiamo di una professione solida con l’attrazione per l’arte, la letteratura e le storie di vita. Se le cose si fossero svolte effettivamente in questo modo, saremmo di fronte alla critica velata di un rapporto che appare ribaltato di segno nel rapporto istituito con i propri figli. Nella testimonianza del figlio James, che aveva controllato le prime stesure dell’opera, è il libro a lui “più caro”, un vero e proprio testamento spirituale e scientifico scritto prima della morte (J. Arieti, 1998). Lo spostamento d’accento sull’origine della malattia, dalla scena primaria propria dei primi scritti di Freud, all’adolescenza e ai suoi problemi, con cui l’Io narrante e il narratore guardano alla malattia del Parnàs e ai suoi possibili significati, va di pari passo con i silenzi dell’Io narrante e del narratore sulla propria infanzia. Nello sdoppiamento della funzione paterna, tra un padre reale ridotto nella sua potenza e un padre grandioso, ferito e umiliato, si gioca una partita più complessa che conduce al rapporto col padre reale medico che non ha saputo condividere col figlio le sue riflessioni sulla malattia del Parnàs. La critica al padre reale conduce a quella del padre fondatore della psicoanalisi rispetto al quale Arieti intende proporre una lettura del disagio attenta alle dimensioni sociali e culturali dei problemi e alle varie fasi dello sviluppo. Un invito alla complessità che pone un problema più vasto e tuttora aperto sui nessi che intercorrono tra le fasi iniziali della vita e quelle successive (Erikson, 1959). Come ha rilevato Bowlby (1979), nelle prime fasi dello sviluppo è la qualità della relazione e dell’attaccamento con i genitori e con i loro sostituti a svolgere un ruolo fondamentale per uno sviluppo armonico del bambino. Ciò che accade dopo è una ristrutturazione continua del campo emotivo, cognitivo e sociale, dove le prime esperienze contribuiscono a modellare quelle successive ma a loro volta possono essere modificate da esperienze positive e correttive (vedi Feuerstein et al., 2001; Meghnagi, 2005b). Distanziandosi dalle iniziali tesi freudiane (Freud, 1908; Weiss, 1936), Arieti afferma che benché a volte un singolo episodio eccezionale possa provocare l’insorgere dei disturbi, di regola è necessario il persistere di un clima di ansia «collegato a rapporti familiari alterati durante l’infanzia» (Arieti, 1979, p. 170). Arricchendo e integrando il quadro teorico più specificamente psicoanalitico con i suoi interessi culturali, Arieti aggiunge che in taluni casi l’ambiente sociale può svolgere un ruolo dominante. Una frattura sociale, culturale ed emozionale può produrre delle gravi conseguenze. Bambini e adolescenti particolarmente sensibili e dotati «con una prima infanzia normale, durante la quale hanno nutrito un fondamentale ottimismo nei confronti dei loro simili, della vita e del futuro», in seguito possono subire «una profonda delusione, a volte già tra la prima e la seconda infanzia o in concomitanza con questa, altre durante l’adolescenza o la prima età adulta» (ibid.). Il bambino e l’adolescente che hanno modellato il mondo «secondo l’immagine dell’amore incondizionatamente ricevuto dalla madre», sperimentano una profonda delusione in seguito, per ragioni «che possono variare da caso a caso», da uno stato «di innocente ottimismo, trapassano bruscamente a quello che appare loro quale una continua esposizione all’enigmatica imprevedibilità dell’esistenza, a subdoli pericoli, agli errori e alla malevolenza altrui» (ibid.). Nel caso di Pardo Roques – afferma Arieti – è “probabile” che quando era ancora adolescente la vita fosse già apparsa sotto una luce nuova e deludente. Non potendo e non volendo accettare l’idea che l’uomo possa essere un lupo per i suoi simili, il Parnàs preferì pensare che sono i lupi a essere tali con gli uomini (lupus homini lupus). Nella fase terminale, quando stava per essere assassinato, la fobia potrebbe essersi tramutata in licantropia coinvolgendo forse in tale processo d’introspezione qualcuno degli assassini (ibid., p. 172). Tutto ciò – si affretta ad aggiungere Arieti – non comporta la riproposizione dell’immagine di Rousseau di «un uomo che nasce innocente e a renderlo malvagio» sia «la società» (p. 170).

Una comunità particolare

Per conquistare l’attenzione dei suoi lettori americani, Arieti intesse il racconto di numerose didascalie che occupano un quarto dell’opera. Dal punto di vista dell’autore, il cui orizzonte di formazione giovanile risente l’eco d’influssi crociani, potrebbero essere considerate la parte “non poetica” dell’opera. In realtà con le loro omissioni e idealizzazioni, rimozioni e spostamenti di accento sono un elemento costitutivo del racconto non meno della parte immaginata e inventata. La comunità è composta da appena 280 persone dove in pratica tutti si conoscono. Ne fanno parte professori universitari, un senatore, medici, avvocati, piccoli e medi commercianti, una famiglia d’industriali, un mendicante cieco, un docente di matematica che in opposizione al clima dell’epoca manifesta apertamente la sua omosessualità, venditori ambulanti e qualche operaio. Centro della vita comunitaria è la sinagoga con la sua piccola scuola, dove Arieti apprende i primi rudimenti della lingua e della cultura ebraica. «Fondamentalmente conservatori per il modo di vivere», gli ebrei pisani sono «all’avanguardia quanto a idee e atteggiamenti» (ibid., p. 25). Un gruppo compatto, ma allo stesso tempo radicalmente individualista dove in maggioranza si guarda con simpatia al sionismo. Dove però non manca chi, per paura o per convinzione, fa sue le posizioni antisioniste del gruppo sorto attorno alla rivista piemontese La nostra bandiera. Come ogni altra comunità ebraica italiana, gli ebrei pisani hanno dato il loro pieno contributo al processo di costruzione dello Sato unitario. Sino a quando «l’uomo che il 6 settembre 1934 aveva respinto il razzismo con un’affermazione magniloquente» prese «a imitare il dittatore nazista con un antisemitismo che, seppure non altrettanto fanatico del tedesco, aveva tuttavia caratteristiche inequivocabili» (ibid., p. 29). Sino ad allora gli ebrei italiani non avevano colto il pericolo che si addensava sulle loro vite, illudendosi che il loro paese fosse estraneo alla psicosi antisemita che dilagava nel resto d’Europa e nel mondo. Gli inquietanti messaggi però non erano mancati. Ma se anche le direzioni comunitarie lo avessero compreso, c’era ben poco che potessero fare. Di partire i genitori di Arieti non ne volevano sapere. Volevano che a farlo fosse il figlio. Pur appartenendo a una fascia colta e agiata della popolazione, professionalmente formata, non avevano dove andare. E se anche avessero potuto non avrebbero saputo come ricominciare. Le frontiere europee erano quasi ovunque ermeticamente chiuse e presto anche i paesi liberi stavano per diventare una prigione a cielo aperto. Per salvarsi bisognava andare lontano, in America, dove però era sempre più difficile entrare. La zia Jolanda alla quale il libro è dedicato, insieme allo zio Gianpaolo che per gli anni delle elementari aveva accompagnato Arieti il primo giorno di scuola, avevano trovato la via per farlo emigrare attraverso la Svizzera. Discendente di un’antica famiglia ebraica di origine spagnola, Pardo Roques era stato a capo della comunità ebraica nel suo momento più tragico. Benestante e scapolo aveva dedicato gran parte delle sue energie alla conduzione della vita comunitaria e al sostegno delle persone più bisognose. Gravemente malato, era allo stesso tempo impegnato e animato da progetti che spaziavano nei più svariati campi della vita sociale e culturale. La malattia non aveva impedito a Pardo di abbinare alle sue funzioni di presidente della Comunità ebraica pisana un’intensa attività sociale e filantropica e di azione a sostegno del movimento sionista. Assessore e prosindaco nell’Italia liberale, presidente della Croce Rossa durante la Grande Guerra, presidente della Cassa di Risparmio, probabilmente massone, uomo d’ordine certamente sempre, Pardo era stato una personalità eminente della piccola comunità ebraica di Pisa che guidò per lunghi anni. In Sant’Andrea la sua presenza, la sua casa, la sua beneficienza del venerdì – quando all’ora fissata, secondo una tradizione viva nella cultura sefardita, riceveva i bisognosi e non mandava via mai nessuno a mani vuote – era fortemente sentita. Nei ricordi vivi di Arieti era una persona versata negli studi biblici e talmudici, con una solida conoscenza della cultura classica e dei movimenti politici «che durante i primi quattro decenni» del Novecento «avevano cambiato il volto dell’Europa» (ibid., p. 19). Un uomo saggio e generoso che abitava di fronte alla casa dei nonni di Arieti. Un dettaglio non secondario mediante il quale l’Io narrante inscrive il legame fra le generazioni in un processo di continuità: Pardo abitava al numero 22, la famiglia di Arieti, dov’era nato Silvano, era al 23. Pardo era un uomo generoso che aiutava «chiunque si trovasse in difficoltà» per «acquistare medicinali o per pagare il medico», per acquistare «un biglietto ferroviario» per fare visita a un «bambino malato in un’altra città», per un pranzo o per una cena (ibid., p. 17). Non importava se la persona fosse ebrea. Bastava che si trovasse ad avere bisogno. Il venerdì prima dello Shabbath distribuiva buoni per il pasto a chiunque ne avesse fatta richiesta. Oltre il novantanove per cento delle persone erano cristiane (ibid.). Il “benefattore”, com’era chiamato dai concittadini, viveva nell’incubo che centinaia di animali potessero da un momento all’altro assalirlo, balzargli addosso mordendolo e lacerandone il corpo prima di ucciderlo. Aveva paura di tutti gli animali: leoni, tigri e serpenti. Vivendo in città le sue fobie si erano concentrate sui cavalli, sui gatti. Soprattutto temeva i cani. In particolare quelli che per forma ricordavano i lupi. Quando usciva da casa, portava con sé un bastone che si passava dietro la schiena da una mano all’altra con movimento semicircolare per assicurarsi «che nelle vicinanze non ci fossero animali né bestie». Lo utilizzava «alla maniera dei ciechi, con la differenza che, anziché muoverlo davanti a sé, controllava lo spazio invisibile alle sue spalle». Eseguiva la manovra con compostezza e discrezione, ma lo scopo era evidente. Alcuni lo compativano, altri ridevano o lo provocavano. «Eppure, in veste di amministratore, quando esercitava pubbliche funzioni, nel corso di occasioni sociali» e nei «pubblici dibattiti», oppure «al Ravvivati, il circolo più aristocratico di Pisa, si comportava nel modo più garbato e dignitoso», dando prova di essere un uomo «intrepido» e sempre pronto «a difendere i derelitti, gli emarginati, chi si trovasse in difficoltà» (ibid., p. 21). La gente del posto – rileva Arieti – gli era affezionata, i poveri lo amavano. In realtà l’uomo che Arieti da bambino ammirava fino a paragonarlo col filosofo Kant era per la società esterna segno di un’alterità irriducibile. Il mistero che lo circondava, la ricchezza di cui si favoleggiava, la debolezza fisica e la malattia, le sue conoscenze “segrete”, contribuivano a rafforzare l’alone di estraneità da cui era segnato. Nella ricostruzione di Arieti, che segue una delle versioni orali della storia, a un certo momento nella mente del Parnàs si fa strada la paura di una rappresaglia per opera di un affittuario iscritto al fascio. Chiuso nella sua casa nelle ultime settimane del conflitto, il Parnàs era alla mercé dei più terribili ricatti. Per sopravvivere aveva spalmato per ogni luogo i suoi beni. Ma a Pisa, come scrive Forti (1998), in quelle ultime settimane di guerra non c’era più nessuno che potesse “proteggere”. Ricattato da un vicino di casa, non poteva non avere paura. Sapeva che in questura e in prefettura c’era l’elenco degli ebrei. Forse i tedeschi cercavano beni da saccheggiare ma poi scoperto che era ebreo lo assassinarono. Forse ci fu una soffiata. Il fatto che il Pardo, come altri esponenti della comunità, si fosse cimentato con la creazione di elenchi di possibili “discriminati” per “meriti patriottici” e “fascisti”, e che nella base comunitaria si potesse accettare tutto questo come un mezzo per limitare i danni, dovrebbe far riflettere sulla condizione di solitudine in cui gli ebrei italiani erano avviluppati. Di fronte al dolore di Angelo, che non sa spiegarsi il perché di tanto odio, Pardo Roques invita a non ripetere gli errori degli amici di Giobbe. Quel «che accade» non è necessariamente quel che si merita. Dove «la libertà viene negata, non soltanto noi ebrei, ma anche i cristiani si sentono in esilio» (Arieti, 1979, p. 75). Per gli ebrei la situazione «è peggiore» perché sono «pochi». Ma «non insignificanti». Hanno da sempre proclamato ad alta voce ciò in cui maggiormente credono e non hanno mai cessato di sperare «nel giorno in cui i popoli trasformeranno le loro spade in vomeri d’aratro e le loro lance in roncole » (ibid.). «Anche il Nuovo Testamento predica l’abolizione della guerra e dell’odio e l’amore universale». Sotto quest’aspetto l’ideologia nazista «è non meno anticristiana che antiebraica». Hitler ha però bisogno «dei cristiani come strumenti di potere» e «degli ebrei come oggetti d’odio»: «L’ideologia di Hitler è non meno anticristiana che antiebraica, e non meno insensibile al messaggio di Gesù e di San Francesco che a quello di Mosè e di Isaia. Hitler però ha bisogno dei cristiani come strumenti di potere, e degli ebrei come oggetti d’odio. Noi siamo i capri espiatori ideali. Siamo pochi, sparsi qua e là, indifesi. Siamo stati circondati da pregiudizi per secoli e ci siamo sempre apertamente opposti alle tirannidi di ogni genere, di destra o di sinistra che fossero. Fin da quando eravamo in Egitto, oltre tremila anni fa, non abbiamo tollerato persecuzioni e offese all’umana dignità, e ogni anno a Pasqua celebriamo la libertà» (Arieti, 1979, p. 75). Dio però non è mai stato muto. In ogni delitto è possibile cogliere il suo grido. La fede di Pardo Roques non è però ingenua. Egli ha da tempo cessato «di credere in un universo amico». Ora crede «semplicemente che dobbiamo rendercelo amico» (ibid., p. 80).

La luce della Menorah

All’epoca del suo ultimo incontro col Parnàs, Arieti aveva ventiquattro anni. Il suo interlocutore sessantaquattro. Ora che ne ha quasi raggiunto l’età, scrivere «col sangue» e con le lacrime per combattere l’oblio, è un atto dovuto. Prima che la morte condanni pure lui al silenzio, come purtroppo accadrà con la grave malattia da cui sarà consumato poco dopo l’uscita del libro. Prima di prendere la strada per l’esilio, Arieti incontra anche un suo expaziente che gli fornisce degli indirizzi di amici e parenti a Londra cui potrà rivolgersi per aiuto. Come il Parnàs, Pietro (è un nome d’invenzione) soffre di una grave agorafobia. Entrambi malati, Pardo e Pietro splendono di una lucentezza etica e umana che alle persone sane può essere negata. La loro malattia è strettamente collegata alla loro più alta moralità. Non potendo fuggire, dopo ogni bombardamento Pietro corre a scavare tra le macerie. Dopo la guerra è decorato per avere salvato molte vite umane. Gravemente malato, il Parnàs non può fuggire. Consapevole del pericolo intima ai più giovani di fuggire e approva la scelta di Angelo di unirsi alla Resistenza. Prigioniero nella sua casa insieme ad altri vecchi ebrei e non ebrei che lo assistono, alla mercé del primo delatore, il Parnàs scopre il segreto della sua malattia. Le sue fobie sono solo grandiose creazioni della mente che intravvedono oscuramente dei pericoli che le persone “sane” non sono in grado di immaginare. Dietro i sintomi della sua malattia si nascondono paure ataviche che gli ebrei conoscono da sempre. La malattia è un roveto ardente, la voce oscura che dal profondo lo aveva intimato a guardare il grave pericolo che si annodava nelle pieghe della storia. Le immagini con cui Arieti descrive la malattia del Parnàs rimandano a figure archetipiche della cultura e della letteratura, del mito e della storia delle religioni. La bontà di un uomo malato che cammina come fosse un cieco con un bastone ricorda Tiresia. Le angosce da cui è terrorizzato e che possono con facilità trasformarsi in terrore panico sono la voce di una verità che nessuno vuole vedere per non esserne folgorato. La commiserazione di chi non sa darsi una spiegazione, la derisione di chi proietta sugli altri il suo odio di sé, sono il segno della stupidità che circonda gli umani, impedendo loro di guardare oltre le ombre della caverna. Le fissazioni di cui soffre sono una benevola sostituzione di una paura più grande e del bisogno di conservare intatta l’immagine positiva dell’umanità. Vegliando sull’immagine ferita dell’umanità e del divino, egli contribuisce a salvare, con la sua opera muta, l’umanità di tre giovani soldati giunti per ucciderlo. La scena finale dei nazisti «pietrificati» e «prigionieri di un incantesimo e del buio della stanza» esprime una presa di coscienza della cultura europea sulle sue zone d’ombra coltivate per secoli con “innocenza”:

«Io vedo come mai ho visto prima (…). Vi vedo qui tutti attorno a me. Sono circondato non da uomini, bensì da bestie. Siete voi quelli di cui ho avuto paura tutta la vita, e ora finalmente mi state di fronte, voi che avete scelto il male, che siete diventati i portatori del male, e anzi il male stesso» (Arieti, 1979, pp. 153-154). «Alla parola mamma, altri tre o quattro si sentirono gli occhi bagnati di lacrime. Intanto, la fiammella della lampada si faceva sempre più fioca; il petrolio era quasi consumato, minacciava di intrappolarli nuovamente in pieno giorno, e uno dei soldati indicando la Menorah i cui bracci portavano ancora le sette candele, propose: Accendiamola! » (ibid., p. 156).

Simbolo profondo della vita ebraica, l’immagine della Menorah non ha cessato di operare sulle menti e sui cuori. La sua fioca luce parla al futuro. Minacciata dall’oscurità in pieno giorno, la cultura europea si è rifondata facendo della memoria di Auschwitz uno dei suoi pilastri culturali.

Oasi di libertà

Facendo del Parnàs un uomo da sempre interiormente antifascista, Arieti lancia una sottile sfida all’antifascismo politico e alla cultura della sinistra, una risposta ai suoi silenzi e dinieghi. L’antifascismo non si misura solo ed esclusivamente sul terreno delle scelte dettate dalla politica. Nella storia della resistenza al regime c’è stato un antifascismo delle piccole cose, fatto di mitezza, di sofferta saggezza, di rifiuto della violenza, di cui l’ebraismo si è fatto storicamente interprete per vocazione o per necessità. C’è stata un’opposizione quotidiana, fatta di buone pratiche e di piccole azioni, di cui il Parnàs è un simbolo (3). Prima delle leggi razziste del 1938, Pardo Roques era ricevuto dalla famiglia reale a Villa San Rossore. Nel suo salotto appariva ritratto con i reali e con Mussolini. In una foto appare con Nahum Sokolov, un ex-compagno di scuola di Freud, che fu suo ospite nel 1927 in occasione di un viaggio italiano in cui incontrò Mussolini. Amico di Chaim Weizman, futuro primo presidente dello Stato di Israele, il Parnàs fu un finanziatore generoso del Fondo Nazionale Ebraico e un attivo sostenitore della gioventù ebraica. Grazie al suo sostegno, al Circolo Alberto Olivetti (militante liberal socialista, figlio della sorella del Parnàs, ritornato mutilato dalla guerra), i giovani profughi ebrei di passaggio per l’Italia potevano incontrarsi con i giovani della comunità ebraica locale, si discuteva e si ballava. Il suo salotto fu un’oasi di libertà e di umanità, dove si poteva discutere di Husserl, Martin Buber, Ahad Ha’am e Freud. In quel salotto ascoltò dalla viva voce di Sokolov parole cariche di angoscia sul futuro degli ebrei. Nei preparativi, Arieti pone inavvertitamente nel bagaglio il saggio pionieristico di Enzo Bonaventura (1938) su Freud, avuto in prestito dal Parnàs. Con Bonaventura, Arieti aveva avuto modo di discutere nel salotto di Pardo e ne era stato affascinato. I due fecero scelte diverse. Arieti ricostruì la sua vita a New York. Bonaventura partì per Gerusalemme, dove morì nell’attacco terroristico contro il convoglio dei medici dell’Università ebraica durante la guerra di distruzione scatenata dagli eserciti della Lega araba contro il nascente Stato ebraico. Trattato come un “oggetto transizionale” (Winnicott, 1951), il libro con la dedica a Pardo Roques è il viatico di un cammino lungo e fecondo.

Epilogo

Un ulteriore accostamento con il padre fondatore della psicoanalisi, con la cui opera Arieti porta avanti un suo personale dialogo, è illuminante. Il gioco di simmetrie tra Il Parnàs e l’ultima grande impresa di Freud – quando si cimentò con le origini del monoteismo e con le cause profonde dell’antisemitismo – è profondo. Nel Piccolo Hans (Freud, 1908), l’analisi si svolge a distanza attraverso il padre del ragazzo che ne discute con Freud. Ne Il Parnàs la terapia si svolge in modo virtuale e a distanza di decenni. Le parole che Arieti mette in bocca al Parnàs sono il frutto di un’elaborazione successiva, risultato di un percorso del lutto e della resilienza. La malattia del Parnàs è per Arieti indice di una più alta moralità, l’eco di una protesta contro il male che si sta per abbattere contro il mondo e gli ebrei. In modo analogo, nel saggio sulla civiltà (Freud, 1929) il più alto livello di civilizzazione raggiunto attraverso la Kultur ha come prezzo la nevrosi. Emersa dalle viscere della vita ebraica, la psicoanalisi può rendere solo più tollerabile il disagio, non lo può eliminare. Nella meditazione su Mosè, il disagio indotto dal processo di civilizzazione umana è il tratto più significativo dell’ebraismo, la manifestazione della sua grandezza ma anche del suo isolamento. Non a caso Freud affida alla figlia Anna/Antigone il compito di leggerne alcuni dei brani più significativi al congresso di Parigi del 1938 (Freud, 1934-38, pp. 430-434). I tre saggi sul Mosè di Freud erano stati preceduti dallo scambio di lettere sulla guerra con l’amico Einstein (Freud, 1932) e dal dibattito con l’allievo Pfister sulla religione con l’evocazione della “fioca voce” di un intelletto (Freud, 1927, p. 482) che il dilagare della violenza politica in Europa sembrava avere smarrito (Freud & Pfister, 1909-39). Nel carteggio di Freud con Einstein, il tema era stato il pericolo imminente di una guerra che avrebbe rischiato di cancellare per sempre la civiltà umana. Nel saggio sul disagio pubblicato nel 1929, a essere messi a fuoco erano stati i dilemmi insuperabili di un’umanità civilizzata alle prese con i demoni della colpa inconscia. Facendo emergere le maschere in cui era avvolto il processo immaginativo e gli strumenti culturali di cui si nutriva la sua creatività, nei tre saggi sul Mosè i pericoli della guerra e i dilemmi dell’uomo civilizzato sono rappresentati come i veri dilemmi dell’ebraismo, della sua cultura e dei suoi valori di fronte a una società in preda alla violenza più distruttiva. Eredi della più grande svolta del processo di civilizzazione umana, gli ebrei assumono nelle pagine su Mosè un ruolo di testimonianza di un’umanità violata e negata (Meghnagi, 1992, 2002, 2003). Come in un controcanto, Il Parnàs di Arieti è pubblicato dopo la Creatività (Arieti, 1976) e La depressione (Arieti & Bemporad, 1978), due scritti ricchi di riflessioni sulla civiltà e sulla cultura che sono stati scritti nello stesso periodo: segno di un trasferimento continuo d’immaginazione e di pensieri. In modo analogo a quanto avviene nella meditazione freudiana su Mosè, ne Il Parnàs l’idea che il disturbo psicologico possa racchiudere ed esprimere la spiritualità dell’uomo è esplicitamente collegata al bisogno di emancipare la vittima dalla sua condizione di “passività” e di umiliazione, facendo della testimonianza il paradigma di un processo incompiuto di civilizzazione umana.

Riassunto. Vengono fatte alcune riflessioni sull’ebraismo e sul dramma della Shoah prendendo spunto dal libro del 1979 di Silvano Arieti Il Parnàs (Milano: Mondadori, 1980), che parla di Giuseppe Pardo Roques, capo (Parnàs) della Comunità ebraica di Pisa, trucidato nella sua abitazione nell’agosto del 1944, assieme ad altre 11 persone, da un gruppo di soldati tedeschi mai identificati. Il Parnàs soffriva di un disturbo psicologico di tipo persecutorio, e la sua malattia viene vista anche come una forma di “premonizione” dei tragici eventi che in quegli anni avrebbero colpito la popolazione ebraica. Il Parnàs è uno degli ultimi libri di Silvano Arieti (1914-1981), uno psichiatra pisano emigrato negli Stati Uniti dove diventerà uno degli psichiatri più importanti del suo tempo. [PAROLE CHIAVE: Silvano Arieti, ebraismo, Shoah, premonizione, Olocausto]

Abstract. ILLNESS AS “PREMONITION”. On the basis of Silvano Arieti’s book The Parnas: A Scene from the Holocaust (New York: Basic Books, 1979), some considerations on Judaism and on the tragedy of Shoah are made. The Parnas was Giuseppe Pardo Roques, Head of the Jewish Community of Pisa (Italy), killed in his home in August 1944, together with 11 people of his household, by Nazi soldiers who were never identified. The Parnas suffered of a rare form of persecutory mental disorder, and his illness is seen also as a form or “premonition” of the persecution of Jewish population and of the Holocaust. The Parnas is one of the last books by Silvano Arieti (1914-1981), a psychiatrist who emigrated from Pisa to the United States where he became one of the most influential psychiatrists of the time. [KEY WORDS: Silvano Arieti, Judaism, Shoah, premonition, Holocaust]

Note:

1) L’1 agosto 1944, quando la città di Pisa era ancora divisa in due dal fronte, il capo della Comunità ebraica di Pisa (in ebraico il Parnàs), Giuseppe Pardo Roques, fu trucidato da un gruppo di soldati tedeschi mai identificati nella sua abitazione di Sant’Andrea 22. Insieme con lui morirono undici persone di cui sei correligionari da lui ospitati, due domestiche cristiane che non lo avevano abbandonato e due persone presenti al momento dell’irruzione. Le modalità dell’eccidio e il successivo saccheggio dei preziosi arredi fanno ritenere che lo scopo degli assassini fosse la rapina, benché forte sia rimasto il dubbio che gli assassini abbiano avuto la complicità di un delatore, malgrado un processo, celebrato nel dopoguerra, che si concluse con una sentenza di assoluzione nei confronti del principale imputato (vedi il sito Internet http://www.pisaebraica.it ). Per informazioni su Silvano Arieti (1914-1981), si veda il sito Internet della Associazione Silvano Arieti: http://www.silvanoarieti.it . Psicoterapia e Scienze Umane, 2012, XLVI, 2: 209-224 http://www.psicoterapiaescienzeumane.it

2) Il DDL del 27 luglio 1944 (Gazzetta Ufficiale del 29-7-1944), con cui il governo Bonomi indicava i reati fascisti tacendo sulle persecuzioni antiebraiche, fu emanato tre giorni dopo che l’Armata Rossa aveva liberato il campo di Majdanek divulgando le immagini (vedi Hillberg, 1995, pp. 1042 e 1072). Pochi giorni dopo a New York quarantamila persone parteciparono alla manifestazione indetta dall’American Jewish Committee in Madison Square per chiedere di salvare gli ultimi ebrei d’Europa.

3) Guido Quazza (1976) ha posto l’accento sul carattere minoritario dell’antifascismo politico e ha distinto un antifascismo passivo, che si manifesta più nel privato e che ha avuto poco peso nella formazione della pubblica opinione, da un antifascismo “esistenziale”, ancorato alle condizioni materiali di vita. Questo tipo di antifascismo fu anche politico-cospirativo, rafforzato da un antagonismo sociale sostenuto dalle aspirazioni delle classi lavoratrici e contadine.

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