Siria, Assad continua coi massacri Adonis, alla fine, si accorge che nemmeno coi ribelli islamisti ci sarà la democrazia
Testata: Il Foglio Data: 05 giugno 2012 Pagina: 5 Autore: Redazione del Foglio Titolo: «La recita di Assad, mostro a sua insaputa»
Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 05/06/2012, a pag. I, l'articolo dal titolo "La recita di Assad, mostro a sua insaputa".
Adonis
Su Repubblica, un articolo di Alix Van Buren denuncia la situazione del poeta Adonis, il quale, pur essendosi scagliato in un primo momento contro la dittatura siriana, ora viene minacciato dai ribelli perchè troppo laico. Adonis, in tutta risposta, dichiara di temere che la Siria finisca nelle mani degli islamisti e si trasformi in una teocrazia. E prima della rivolta che cos'era la Siria? Una democrazia? Forse Adonis era troppo occupato a criticare Israele per accorgersi che già da prima la democrazia era un elemento mancante in Siria. Di seguito alcuni link per comprendere meglio la figura ipocrita e ambigua di Adonis:
Roma. I nove morti negli scontri tra sciiti e sunniti avvenuti negli ultimi giorni a Tripoli, principale città del Libano settentrionale, sono un ulteriore segnale che la crisi siriana si sta estendendo oltre i confini dello stato governato da più di quarant’anni dalla famiglia Assad. E’ soprattutto attraverso il legame con Hezbollah che Damasco ha controllato (e controlla) le mosse dei governi di Beirut in quello che da sempre è considerato come il proprio “cortile di casa”. Anche per questo, il segretario di stato americano, Hillary Clinton, si è affrettato a ripetere ancora una volta che non c’è più tempo da perdere, che per Bashar el Assad il tempo è scaduto e che deve essere cacciato. “La Russia deve lavorare con il resto della comunità internazionale per fermare al più presto le violenze e per favorire una transizione politica”, ha detto Clinton conversando con i giornalisti al seguito in una tappa della sua visita ufficiale nel nord Europa. La titolare del dipartimento di stato ha affrontato il tema del “regime change” nel corso di una telefonata con il suo omologo russo, Sergei Lavrov, al quale ha ribadito la necessità che Mosca abbandoni senza indugio e in tempi brevi il rais al suo destino. Su come attuare il cambio di regime, però, le idee sono poche e confuse. La Siria non è la Libia e Assad non è Gheddafi: attaccare militarmente Damasco significherebbe coinvolgere l’Iran e, conseguentemente, Israele e Giordania. Senza contare che l’Onu è bloccata dai ripetuti veto posti dai russi e dai cinesi. Neppure la soluzione yemenita, con il passaggio di potere dall’ex presidente Ali Abdullah Saleh al suo vice Abd Rabbuh Mansour al Hadi, è praticabile: il mosaico etnico e confessionale siriano non è paragonabile alla situazione di Sana’a. Non tutti i siriani, poi, si augurano la caduta del presidente: le minoranze religiose sostengono ancora Bashar el Assad, temendo per la loro sorte nel caso di un’ascesa incontrollata al governo dei sunniti. Armare i ribelli (ammesso che questi riescano a coalizzarsi attorno a una leadership credibile e unificante e smettano di litigare sulla spartizione dei posti chiave del Consiglio nazionale guidato fino a qualche settimana fa da Buhran Ghalioun) comporterebbe una sicura e violenta reazione di Teheran. Il Financial Times scrive che l’unica possibilità per uscire dall’impasse è convincere il presidente russo, Vladimir Putin, a interrompere i rifornimenti di armi al regime. In cambio, l’Arabia Saudita e il Qatar (i più determinati nel chiedere all’occidente di rompere gli indugi e di intervenire militarmente in Siria) si impegnerebbero a fare altrettanto con i gruppi d’opposizione siriani. Più facile a dirsi che a farsi. L’asse tripartito tra Mosca Damasco e Teheran è sempre più forte e appare difficile che il Cremlino (specie ora che a guidarlo è tornato lo zar) rinunci al più stretto alleato nel vicino oriente. I primi tentativi di ammorbidire la Russia sono (come era prevedibile) falliti e la generica volontà di “attuare il piano di pace proposto da Kofi Annan” ribadita nell’incontro tra Putin e il presidente del Consiglio europeo, HermanVan Rompuy, non cambia la situazione. Assad, intanto, continua con la recita che interpreta ormai da più di un anno, fin dall’inizio delle rivolte. Sembra vivere in una realtà parallela, in cui lui è il condottiero che difende il popolo contro gli aggressori stranieri. Non c’è mai la sua mano dietro le stragi di civili nei villaggi dove più forte è la presenza dei ribelli; lui non ha nulla a che fare con le centinaia di bambini massacrati a Homs o in altre città del paese. Il rais, sempre calmo e gelido, ha negato ogni responsabilità governativa anche in riferimento alla strage di Houla, già ribattezzata la Srebrenica siriana, in cui sono morte 108 persone (per la metà bambini con meno di dieci anni d’età): “E’ stato un atto ignobile, neanche le bestie commettono atti del genere”, ha tuonato Assad parlando al Parlamento di Damasco in quello che è stato il suo primo discorso negli ultimi cinque mesi. Promette che i responsabili saranno individuati e puniti, e che lui continuerà “a difendere il paese dalla minaccia terrorista”. Si intristisce parlando del dolore provato nel vedere le immagini dei morti macellati, “scene indescrivibili, non commentabili”. Definisce “mostri” gli assassini di Houla, suscitando ancora più rabbia tra i suoi connazionali stremati da un conflitto senza fine. I mostri, infatti, sono i suoi, uomini della sicurezza governativa mandati a punire chi osa ribellarsi. Per Assad, però, la colpa è come sempre degli stranieri, dei miliziani qaidisti sunniti che vogliono portare l’instabilità e il terrore in una terra da sempre “aperta e pacifica”. E mentre dice ciò non si accorge che sta ammettendo la propria incapacità di controllare il paese e di garantire la sicurezza dei suoi concittadini. Nello stesso momento in cui accusa “quelli che vogliono dividere la Siria” si mostra debole, in balìa degli eventi. Assicura, il rais, che solo “lavorando insieme sarà possibile uscire dal caos”. La storia, anche questa volta, sembra essere andata in tutt’altro modo, come in altre decine di episodi analoghi: a Houla, raccontano testimoni locali, la gente è stata freddata da miliziani alawiti, sgherri del regime giunti appositamente per dare una lezione, per fare pulizia. Anche questo è il rischio che corre la Siria sfiancata da un anno di guerra civile che ha lasciato sul campo almeno diecimila morti civili, secondo le stime delle Nazioni Unite: piombare nell’incubo di una faida etnica e settaria dove a pagare maggiormente il prezzo del conflitto sarà il clan fedele ad Hafez prima e a Bashar ora. Nell’ultimo fine settimana, i ribelli avrebbero ucciso “almeno ottanta soldati del regime”, riferiscono fonti dell’opposizione. Quanto sta accadendo in Libano è un segnale che il pericolo è forte. A Tripoli si lanciano granate i sunniti del quartiere Rab el Tabbaneh e gli alawiti di Jabal Mohsen, provocando vittime e feriti. Assad sa che esternalizzando la crisi dimostrerà alla comunità internazionale (Stati Uniti in testa) che appoggiando i ribelli si incendierebbe tutto il medio oriente. E’ l’àncora cui si aggrappa per tenere lontane le prospettive di un’invasione armata. Finché i suoi protettori continueranno a essergli fedeli, Assad può continuare la recita.
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