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Informazione Corretta Rassegna Stampa
04.06.2012 IC7 - Il commento di David Meghnagi
Dal 27/05/2012 al 02/06/2012

Testata: Informazione Corretta
Data: 04 giugno 2012
Pagina: 1
Autore: David Meghnagi
Titolo: «Il commento di David Meghnagi»
Il commento di David Meghnagi


David Meghnagi, Le sfide di Israele (ed. Marsilio)
http://www.informazionecorretta.it/main.php?sez=300&cat=rubrica&b=35307&ord=author

Come ogni scelta in qualunque paese, l’annullamento delle elezioni anticipate in Israele ha un suo aspetto interno. Ai primi di maggio i sondaggi d’opinione davano Netanyahu in chiaro vantaggio su tutti i rivali alle prossime elezioni. Lo scontro interno al suo partito con le elezioni alle porte, ha spinto il leader israeliano a cercare con anticipo in parlamento i voti di cui aveva bisogno per consolidare il suo potere. Applicando in parte lo schema con cui Sharon sbaragliò i suoi oppositori all’epoca della decisione di ritirarsi da Gaza, Netanyahu ha spostato all’esterno i problemi interni al suo partito, facendo approvare con 109 voti su 120 una mozione contro le elezioni anticipate e concludendo un’ora dopo un accordo con il leader di Kadimah Mofaz un accordo di legislatura che ha spiazzato i suoi avversari interni ed esterni.

Sbaglia chi riconduce tali esiti unicamente a delle lotte interne di fazione proprie di ogni democrazia e di ogni paese. L’annullamento delle elezioni anticipate, è anche il risultato del clima di incertezza e di paura che regna nel paese di fronte a pericolo incombenti, che Israele non può sottovalutare.

La corsa iraniana al nucleare iraniano procede inesorabilmente. La pace con l’Egitto è traballante. Il confine settentrionale è pieno di missili puntati che in caso di conflitto con l’Iran rovescerebbero la loro potenza di fuoco su tutta la Galilea. Il fronte sud è una polveriera da cui piovono quotidianamente missili, che sono per ora di breve gittata solo perché gli israeliani hanno vigilato e impedito la riproposizione di quanto è accaduto al nord sotto gli occhi delle forze dell’Unifil.  Il fronte orientale regge grazie al sostegno che Israele garantisce ad Abu Mazen. La Siria è in fiamme e l’Iraq è in parte una provincia iraniana. Non sappiamo come possano finire le cose in Giordania nel caso di una deriva pan islamista nella regione. Quanto alla Turchia, i tempi in cui poteva essere considerato “un paese amico” sembrano lontani. Ove l’Iran si dotasse di un ordigno atomico, la corsa agli armamenti nella regione diventerebbe incontrollabile. Per effetto domino, dopo l’Iran toccherebbe alla Turchia, all’Arabia Saudita e l’Egitto.

Basterebbe questo a far perdere il sonno a chiunque conservi un minimo di barlume. In più, nella situazione di crisi e di collasso che investe molti regimi dell’area, è possibile che delle “bombe sporche” possano un giorno cadere sotto il controllo di organizzazioni terroristiche. 

Nella strategia iraniana la strada per la Mecca passa per Gerusalemme, non necessariamente attraverso uno scontro diretto e totale contro Israele, ma utilizzando strumentalmente la questione palestinese per  destabilizzazione il mondo arabo e sunnita. Il mezzo per farlo è il solito. Demonizzare Israele additando come traditore della causa islamica chiunque nella regione, per necessità o per convinzione, è disponibile a un accordo politico. Che a fare questo sia una potenza non araba di rito sciita la dice lunga sull’ostilità antiaraba che pervade le civiltà che un tempo furono islamizzate dagli arabi e che oggi si riprendono una paradossale rivincita ponendosi alla testa del ritorno a un islam “originario” e “incontaminato”.

In questo scontro intraislamico, che utilizza Israele come schermo, i teologi sunniti  di Al Azhar non sono da meno. A dispetto degli accordi di pace con Israele, all’epoca di Mubarak per settimane la televisione egiziana controllata dal regime  ha mandato programmi violentemente antisemiti. Per non parlare dell’Arabia Saudita e dei suoi predicatori wahhabiti per i quali la distruzione di Israele e la demonizzazione degli ebrei fanno tutt’uno con l’attualizzazione del racconto coranico.

Con disprezzo per la vita umana e per il diritto internazionale, gli ayatollah iraniani affermano nei loro sermoni del venerdì che in caso di guerra atomica con Israele, i mussulmani in ogni caso ci saranno ancora mentre “l’entità sionista” sparirà del tutto. A parte la distruzione di Israele, apertamente teorizzata, nella logica delirante di questi discorsi la morte di milioni di palestinesi, di mussulmani e di altre minoranze religiose è irrilevante. I morti mussulmani sono “vittime sacrificali” necessarie per il trionfo dell’islam.  Il fatto che tali farneticazioni possano essere formulate dalle massime autorità di uno stato membro delle Nazioni Unite, senza esserne espulso, la dice lunga sulla grave crisi in cui versa l’Onu e sulla vasta zona grigia in cui è avviluppato il discorso su Israele.

La politica iraniana ha come obiettivo lo sfinimento psicologico di Israele. Grazie ad una massiccia opera di disinformazione, che può contare a livello internazionale su un ampio fronte variegato, da stato aggredito che si difende per la sua esistenza, Israele diventerebbe agli occhi di un’opinione pubblica disinformata uno stato aggressore che colpisce in modo indiscriminato persone innocenti facendo un uso sproporzionato della sua potenza di fuoco. Secondo uno schema in parte già sperimentato, la reazione legittima di Israele contribuirebbe a rafforzarne l’isolamento internazionale dando forza a chi opera per il suo boicottaggio e la sua esclusione dalla comunità internazionale. L’obiettivo di lungo periodo di questa variante strategica è di paralizzare l’economia israeliana, bloccare l’immigrazione ebraica e spingere chi se lo può permettere ad abbandonare il paese. Unita alla “maggiore fertilità” araba e islamica, teorizzata dai fondamentalisti islamici e da Arafat, Israele sarebbe condannato a essere sopraffatto dal suo interno.  E’ un delirio politico e religioso di tipo paranoide. Non è una buona ragione per sottovalutarlo.

Nel 1967 Nasser si convinse erroneamente che la società israeliana fosse vicina al collasso. L’economia attraversava una grave crisi di ristagno e nel dibattito pubblico c’era chi si chiedeva se il paese ce l’avrebbe fatta a reggere le sue prossime sfide. Prigioniero della sua logica di rifiuto, Nasser non si accorse di avere preso un abbaglio e con la decisione di bloccare il Golfo di Tiran, in aperta violazione del diritto internazionale,  avviò il suo paese nel precipizio.

Per settimane il mondo restò impotente a guardare. Il segretario generale Uthant non si oppose alla decisione egiziana di espellere le forze di interposizione internazionali poste al confine egiziano per vigilare sull’armistizio del 1956. Le diplomazie tergiversarono e gli ebrei di ogni luogo persero il sonno.  Nel mondo arabo le masse inneggiarono alla distruzione di Israele e allo sterminio dei suoi abitanti e per iniziare aggredirono e saccheggiarono le case degli ebrei che non avevano preso la via della fuga  dopo il grande esodo dei primi anni cinquanta.  In breve la situazione precipitò e la guerra del giugno 1967 fu inevitabile.

La storia non si fa con i  se e con i ma. Pur tuttavia non ci si può esimere dalle domande soprattutto se la storia e i fatti sono oggetto di falsificazione.  Se gli stati arabi avessero accettato nel ’47 la decisione di spartizione dell’Assemblea delle Nazioni Unite e non avessero aggredito il nascente stato ebraico, oggi la situazione sarebbe molto diversa. Forse si festeggerebbero nello stesso giorno la nascita di Israele e l’indipendenza dei palestinesi. Il dramma dei profughi palestinesi fu l’esito di una guerra voluta dal mondo arabo per impedire la nascita dello stato ebraico. I  palestinesi erano una parte importante di quella guerra e vi parteciparono attivamente. Amjn El Husseini, il mufti di Gerusalemme fu un alleato organico del nazismo che incontrò Hitler e partecipò attivamente al suo programma di sterminio. Al contrario i profughi ebrei fuggiti in massa dal mondo arabo non erano una parte attiva del conflitto. Erano solo degli ostaggi indifesi che in alcuni casi vivevano a migliaia di kilometri di distanza dalle aree in cui si svolse il conflitto. La loro fu una fuga silenziosa. Nessuno ne parlò. Nemmeno loro si rappresentarono come profughi. Preferirono pensarsi come persone finalmente libere e trasformarono il loro esilio in esodo.

Se invece di trasformare i palestinesi in profughi permanenti e ontologici, gli stati arabi avessero utilizzato una piccola parte delle risorse sperperate nel corso delle loro guerre per integrare una popolazione che si era spostata di pochi kilometri, talora centinaia di metri,  l’intera storia del Vicino Oriente avrebbe preso un’altra direzione. Israele avrebbe fatto interamente la sua parte.  Ma era un tabu’ inviolabile da pagare con la vita.

Gli israeliani che erano appena seicento mila nel ’47 furono capaci  di accogliere e integrare ben oltre un milione di immigrati poveri e diseredati nel giro di un decennio. Accolsero i sopravvissuti allo sterminio nazista e le centinaia di migliaia di ebrei in fuga dal mondo arabo. Per avere il senso delle proporzioni sarebbe come se oggi l’Italia accogliesse in dieci anni centoventi milioni di persone e gli USA seicento milioni di nuovi abitanti. Quattro decenni dopo l’esperienza si è ripetuta con l’accoglienza di un milione di immigrati russi e decine  di migliaia di profughi dall’Etiopia.

Il mondo arabo reagì alla nascita di Israele come se fossero stati messi in discussione i fondamenti della sua  esistenza. Gli israeliani furono rappresentati come “nuovi crociati” e “aggressori venuti dal mare”,  “infidi dhimmi”, “colpevoli e incapaci”  di “gratitudine” verso i loro dominatori di un tempo, da rigettare in mare e da trattare come gli armeni non appena se ne fosse presentata l’occasione. Non avendo potuto distruggere Israele, essendone stati ripetutamente sconfitti, hanno dilatato nella fantasia il suo “potere” e il suo carattere “malefico". 

Dopo la crisi degli accordi di Oslo, furono in molti i leader palestinesi a fraintendere la situazione e a pensare che Israele fosse di fronte a un imminente collasso, con le sue città facilmente attaccabili, gli autobus che saltavano per aria, i grumi di sangue raccolti con pietas. Avevano frainteso il sogno di una composizione pacifica con il mondo arabo come un atto di debolezza e di sfaldamento interni. Ritennero che la drammatica lacerazione del tessuto politico e sociale del paese di fronte a scelte fondamentali come il preludio di uno scontro interno esiziale. 

Unico stato non arabo e non islamico della regione,  Israele è diventato  oggetto delle proiezioni più deliranti, di invidia e  di rancore per i suoi indubitabili successi.  Eppure mai come oggi i destini dei popoli della regione sono stati legati alla sopravivenza di Israele. L’esistenza di Israele, la sua sicurezza sono la condizione imprescindibile per la ricomposizione delle fratture fra Occidente e Oriente. Per quel che valgono queste metafore, sono la condizione perché l’intera regione riscriva la sua storia nel segno dell’accoglienza fraterna e del riconoscimento reciproco tra popoli segnati dal dolore e dal lutto.
Se si vuole  che la crisi che nel ’67 portò alla guerra non si ripeta, bisogna agire in tempo. In primo luogo chiamando le cose col loro vero nome, assumendosi in pieno la responsabilità di fronte a un pericolo che coinvolge tutti. Oggi Israele. Domani le principali capitali europee. Cina e India sono lontane. Ma nemmeno loro potranno un giorno dormire sonni tranquilli. 

 Anche se con grave ritardo, l’Unione europea ha finalmente adottato nei confronti del regime iraniano misure senza precedenti. Dal marzo 2010 la banca centrale iraniana non possono più fare incassi e pagamenti tramite il circuito internazionale. Dal mese di luglio dovrebbe scattare l’embargo petrolifero che gli iraniani possono aggirare in parte attraverso la Svizzera dove hanno sede le maggiori società di trading petrolifero. Il tempo a disposizione stringe e ciò che poteva essere fatto con effetti duraturi qualche anno fa rischia di arrivare fuori tempo. Il calo delle vendite petrolifere iraniane è parzialmente ricompensato dall’aumento del costo del petrolio sul mercato internazionale. Infine Cina e India, approfittando cinicamente della situazione, continuano a rifornirsi di petrolio iraniano. Perché la situazione non precipiti al punto di non ritorno, è necessario che la grande famiglia democratica, USA e UE, faccia proprio per intero il problema. Che non lascino Israele solo con un problema che un giorno li riguarderà.

Nell’ipotesi di un’azione più coerente e determinata della grande famiglia democratica che metta per davvero il regime degli Ayatollah alle strette costringendolo a scelte diverse, le sfide per Israele resteranno alte sia nell’immediato che nel futuro. A meno di cambiamenti interni a Teheran, la tentazione nucleare sarà comunque all’ordine del giorno e ciò che non è stato ottenuto in una fase potrebbe essere ritentato dopo.

L’Iran non è l’Iraq, il cui reattore fu distrutto quattro aerei israeliani. È facile  immaginare come sarebbero andate le cose se Saddam si fosse dotato di armamenti nucleari. Anche il conflitto tra Iraq e Iran avrebbe visto ben altre devastazioni rispetto a quelle che purtroppo ci furono. La grande distanza da Israele, la profondità del territorio, la moltiplicazione disseminazione dei centri di produzione, resi possibili dalla cecità con cui la comunità internazionale ha guardato per molto tempo a questi pericoli, sono elementi di rischio che hanno bisogno di una grande copertura e di un sostegno americano.

Nel caso di un attacco preventivo israeliano ai siti nucleari iraniani, i missili contro Israele pioverebbero dal Sud del Libano sull’intero centro nord del paese. Da sud partirebbero gli attacchi palestinesi. L’odio contro Israele nel mondo arabo e islamico divamperà ulteriormente. La falsa idea che Israele sia la causa del fallimento delle relazioni tra euro occidentali e islam troverà nuovi adepti. Per non parlare dell’esportazione del conflitto e del terrorismo.

Comunque vadano le cose nei prossimi mesi, Israele andrà incontro a molteplici sfide che metteranno a dura prova la capacità d’immaginazione e i margini di azione di qualunque governo. Israele avrà bisogno di una grande capacità di immaginazione. La capacità di dissuasione militare è un elemento  importante. Ma da sola non basta. Come i padri fondatori compresero saggiamente, Israele ha bisogno di coniugare la sua capacità di dissuasione militare con gli strumenti della politica, della diplomazia . In un mondo che cambia velocemente, non si può stare fermi e bisogna saper comunicare. Una grande risorsa su cui Israele potrà contare è la voglia di vivere dei suoi cittadini, il coraggio con cui affrontano la loro vita quotidiana. Nonostante la catastrofe dello sterminio nazista in Europa prima, la fuga in massa dal mondo arabo poi, e un secolo di guerre, la maggioranza della popolazione non ha mai perso la speranza in un futuro diverso.  Questa forza deve essere conservata, mantenendo viva l’immaginazione e la speranza in un futuro diverso e di amicizia coi popoli vicini. Mantenere viva la speranza non significa però cedere all’illusione. Il sogno è un frutto acerbo che ha bisogno dell’intelletto e della comprensione  del mondo reale. Le chiavi per una composizione politica dei conflitti che lacerano la regione sono molte e nessuno le possiede per intero. Gli americani e la Nato se ne sono accorti amaramente dopo la breve parentesi di ibris seguita al crollo dell’Unione Sovietica. Quanto all’Europa, alle prese con una grave crisi sistemica,  non è in grado di produrre una politica che sia degna di questo nome. La Cina si muove con cinismo come una nuova grande potenza coloniale alla ricerca di fonti per il suo approvvigionamento petrolifero.

Come nei romanzi di ispirazione kafkiana, la chiave per un futuro possibile nella regione non la possiede nessuno. Al più se ne posseggono  dei frammenti da mettere insieme, avvicinandoli col cuore e col pensiero.


http://www.informazionecorretta.it/main.php?sez=90

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