Habima al Globe: nonostante tutto una bella serata
Commento di Annalisa Robinson
In alto, da sinistra: William Shakespeare, Shylock, il Teatro Habima a Tel Aviv
Il 28 maggio è andata in scena al Globe Theatre la rappresentazione del Mercante di Venezia di William Shakespeare, da parte della compagnia teatrale nazionale israeliana Habima.(per leggere il primo articolo del 31/05/2012):
Dopo un fuoco incrociato di appelli e controappelli -vedi articolo precedente:
http://www.informazionecorretta.com/main.php?mediaId=115&sez=120&id=44717
varie associazioni pro-palestinesi aderenti al network BDS avevano annunciato l'intenzione di boicottare la rappresentazione, dentro e fuori dal teatro, mentre altre organizzazioni pro-Israele avevano indetto una contromanifestazione.
Il pensiero correva naturalmente ad altri spettacoli che erano stati oggetto di boicottaggio:
lo scorso settembre, il concerto della Israel Philharmonic Orchestra (IPO) per i 75 anni del maestro Zubin Mehta alla Royal Albert Hall di Londra era stato rovinato da dimostranti che avevano srotolato bandiere palestinesi, gridando ““Free, free Palestine!”. In quell'occasione il pubblico aveva fischiato i boicottatori, con cori di “Fuori, fuori!”; tuttavia le proteste erano continuate per tutta l'esecuzione, al punto da costringere la BBC ad interrompere la diretta del concerto e a sostituirla con una registrazione.
Oggetto di boicottaggio erano stati anche il Jerusalem Quartet, che aveva dovuto interrompere concerti non solo a Londra ma anche a Brighton, e il Jerusalem Trio (nei confronti del quale c'era stata attivita' di picchettaggio).
Nel caso del Globe, che proprio per la sua struttura elisabettiana pone il pubblico a distanza minima dagli attori, i pericoli erano anche maggiori. In compagnia di un amico attore, con due biglietti in galleria e un po' di apprensione, mi sono dunque recata al Globe. Come c'era da aspettarsi, c'erano transenne in metallo e molta polizia a cordonare i due fronti. Nonostante Shavuot, direi che fuori dal teatro il “fronte pro”, coordinato dalla Zionist Federation, fosse più numeroso, più allegro e più multiculturale, con altoparlanti che trasmettevano musica israeliana e persone avvolte nelle bandiere biancoazzurre; qualcuno si è anche messo a ballare.
C'erano Stand With Us, i Cristiani per Israele, e anche la parlamentare europea liberaldemocratica Sarah Ludford, che ha preso il microfono per spiegare la sua opposizione alle varie forme di boicottaggio anti-Israele.
Spiccavano uno striscione con le parole “Boycotts divide, culture unites” e cartelli che dicevano “Love culture - hate censorship”.
Il fronte anti-Habima, dominato dalla Palestine Solidarity Campaign, era più anziano, meno organizzato, e distribuiva volantini con la riproduzione del più famoso ritratto di Shakespeare con le parole “No! to Occupation & Colonisation For 'Tis Illegal Under International Law" (“No! All'occupazione & alla colonizzazione perchè sono illegali in base alle leggi internazionali”).
Nei cartelli scritti a mano ricorreva la parola “apartheid”.
Spiace dirlo, ma l'impressione, confermata successivamente dai vari bloggers che hanno scritto in proposito, è che i più esagitati fossero proprio ebrei britannici. Alcuni noti antisionisti locali hanno fatto presenza (e sono stati debitamente rimossi dal teatro): tra di essi Tony Greenstein e Jonathan Rosenhead, professore emerito alla London School of Economics.
All'interno del teatro c'era moltissimo personale di sicurezza privato, e i controlli (soprattutto metal detectors, ma anche controlli “corporali”) mi hanno ricordato quelli che ho sperimentato all'aeroporto di Stansted il giorno dopo l'11 settembre 2001.
Un paio di settimane prima della rappresentazione avevamo ricevuto una lettera, nella quale ci veniva chiesto di presentarci con notevole anticipo (almeno un'ora e mezzo, proprio come all'aeroporto), di non portare bagagli di dimensioni superiori a quelli di una borsetta, di non fare fotografie.
Il teatro si riservava anche il diritto di rifiutare l'ingresso a persone che, per il loro passato di attivisti, avrebbero potuto causare interruzioni, e di sequestrare oggetti che avrebbero potuto essere utilizzati a questo scopo. Cibi e bevande portati da casa non sarebbero stati ammessi in teatro, anche se gli spettatori avrebbero potuto servirsi dei servizi di ristorazione all'interno del Globe (che sono abbastanza cari).
Le interruzioni e le azioni dimostrative (compresi bandiere, striscioni, castagnole eccetera) non sarebbero state tollerate, e le persone coinvolte rimosse. Abbiamo potuto vedere bene la rappresentazione, preceduta da un intervento del direttore artistico del Globe. Dominic Dromgoole ha ricordato che eravamo li' per vedere degli artisti e non dei politici, ha esortato alla calma in caso di interruzioni. Queste ultime sono partite qualche minuto dopo l'inizio, quando un gruppo nella galleria inferiore ha esposto lo striscione “Israel Apartheid Leave the Stage” e sono apparse alcune bandiere palestinesi.
La sicurezza è intervenuta tempestivamente, rimuovendo striscioni e dimostranti. Ho sentito gridare “Free Palestine” e qualcos'altro che non ho capito. Per tutta la prima parte del Mercante un gruppetto di persone se ne è stato in piedi, sempre nella galleria inferiore, con dell'adesivo sulla bocca per protestare contro la “censura”. Con qualche incongruenza, visto che, da che mondo e' mondo, e' abbastanza normale che a teatro il pubblico rimanga in silenzio, mentre la loro intenzione era proprio costringere al silenzio gli attori e pure il buon Shakespeare; inoltre hanno anche guastato la visione alle persone sedute dietro di loro..... Il pubblico, caloroso, ha ignorato i dimostranti, con una divertente eccezione. A un certo punto, in basso, qualcuno in platea ha parafrasato a voce alta un passo del famoso discorso di Shylock nel terzo atto (in italiano: “Un ebreo non ha occhi? Un ebreo non ha mani, organi, membra, sensi, affetti, passioni?...” diventato “Un palestinese non ha occhi?...” eccetera), ed è stato subito zittito da un vigoroso “Piss off!” (“Ma vai a quel paese!”, traducibile anche con meno eleganti “vaffa”), accolto dal resto del pubblico con risate e un entusiastico applauso.
Altri striscioni e bandiere sono stati esposti prima dell'intervallo, durante il quale potevamo sentire le voci dei dimostranti rimasti davanti al teatro. A fine rappresentazione siamo lentamente defluiti all'aperto, dove c'erano ancora dei manifestanti e sempre molti poliziotti, ma credo che la sensazione da parte di noi spettatori fosse del tipo “E' andata bene, credevo peggio”.
Insomma, per dirla con Shakespeare, “molto rumore per nulla”.
Ho letto che in tutto sono state espulse dal teatro una ventina di persone, e che la polizia ha arrestato un tale che aveva aggredito un membro del personale di sicurezza. A quanto pare la rappresentazione di martedì è stata molto più tranquilla, però a quel punto i boicottatori avevano raggiunto il risultato sperato, ottenendo la massima visibilità mediatica e facendo passare la rappresentazione in secondo piano: le recensioni sono inevitabilmente dedicate almeno per metà alle polemiche precedenti.
Peccato, perchè si è trattato di una rappresentazione di grande spirito: a mio parere abbastanza tradizionale, anche scenograficamente (ambiente chiaramente veneziano con venature elisabettiane, maschere, forte caratterizzazione ebraica di Shylock), ma energica e vibrante, veloce (forse troppo), a tratti anche un po' comica, molto incentrata, come c'era da aspettarsi, su Shylock.
Il regista, Ilan Ronen, ha inserito una nuova scena, muta, in apertura, in cui un gruppo di giovani veneziani mascherati aggredisce e picchia Shylock, strappandogli quelli che sono i segni della sua condizione di outsider - yarmulke, tallit e tefillin.
L'aggiunta non è piaciuta a tutti; ad alcuni è sembrata inutile retorica, visto che Shylock subisce abbastanza umiliazioni nell'opera. L'aspetto esotico dei principi del Marocco e di Aragona, aspiranti alla mano di Portia, viene accentuato, quasi a sottolineare che Shylock non è l'unico outsider – unico è il trattamento meschino che gli viene riservato.
Un aspetto interessante è che i lacci del corsetto di Portia (che non è libera di scegliere tra i suoi pretendenti) diventano parte di un sistema di corde in cui vengono imprigionati in tribunale prima Antonio e poi Shylock.
Mi sono particolarmente piaciute le interpreti femminili, Hila Feldman e Rinat Matatov (rispettivamente Portia e Nerissa), e anche lo Shylock di Jacob Cohen, ben lontano dalla caricatura che ne fanno alcune produzioni: semplicemente un uomo che non chiede nulla a parte civiltà e rispetto e, vedendoseli negare, viene spinto a vendicarsi.
Purtroppo di ebraico capisco poco o niente, ma i due schermi laterali e una buona conoscenza dell'opera mi hanno permesso di apprezzare la rappresentazione. Tutto il cast si è comportato in modo ammirevole di fronte alle interruzioni, senza mai perdere concentrazione, ed è stato giustamente ricompensato da una standing ovation a fine recita. Il pubblico ha sicuramente apprezzato, e molto.
Le recensioni sulla stampa sono state positive, anche se non proprio entusiaste. Fiona Mountford dell'Evening Standard parla di “una serata piena di trabocchetti negoziata trionfalmente”, elogiando il prologo equilibrato del direttore artistico Dromgoole. Le interruzioni sono quasi ignorate (“alcuni brevi e seccanti interludi”), mentre la performance di Habima viene descritta come “una lettura intelligente e gradevolmente energica di un'opera sempre inquietante”. Paul Taylor dell'Independent, giornale certamente non filoisraeliano, fornisce un breve resoconto delle polemiche pre-rappresentazione e cita un interessante argomento a difesa dell'attività (minima: quattro-cinque rappresentazioni su oltre millecinquecento) di Habima negli insediamenti, ovvero il fatto “che penetrano nella bolla illiberale delle colonie con materiale provocatorio”.
Molto caritatevole. Taylor ha però anche il merito di citare il drammaturgo Howard Brenton, che ha definito un eventuale boicottaggio di Habima “un vergognoso atto di censura”. Le proteste in teatro sono viste con occhio benevolo: “La pronta rimozione dei manifestanti ha forse attratto più attenzione di bandiere e striscioni”, mentre l'interruzione del manifestante che ha parafrasato a voce alta il discorso di Shylock (“Un palestinese non ha occhi?...”) viene descritta come “elettrizzante”, “un atto di significativa appropriazione che per alcuni vertiginosi secondi ha minacciato di scombussolare l'equilibrio della rappresentazione”. (Comunque lo sconosciuto che ha invitato l'elettrizzante scombussolatore ad andare a quel paese è stato ancora più efficace.) Naturalmente per Lyn Gardner del Guardian, altro bastione di political correctness, lo Shylock delegittimato, umiliato, vinto, privato della sua casa, del suo patrimonio e della figlia, evoca non solo l'immagine dell'eterna condizione dell'ebreo errante, ma anche il pensiero di “altri profughi, soprattutto i palestinesi”. Per il resto, Gardner riassume velocemente e in modo neutrale le polemiche che hanno preceduto la rappresentazione, concludendo con un'intelligente osservazione: che, come dimostra con crudele chiarezza Portia in tribunale, ci sono diversi modi di strappare una libbra di carne.
Concordo pienamente: si dice che non ci sia vera giustizia senza misericordia, ma misericordia in quest'opera non se ne vede proprio; la si chiede, ma non la si dà.
Come concludere? Il Mercante è davvero un'opera inquietante, che a me lascia sempre l'amaro in bocca, e che analizza con grande sensibilità la natura dell'antisemitismo. Inquinarlo con considerazioni politiche attuali significa ignorarne la profondità senza tempo. Da profana, ho sempre pensato che in confronto ad Antonio e Bassanio, due “anime belle” che fanno tutto con soldi che non hanno o che appartengono ad altri (e in questo sono molto contemporanei), Shylock appaia come un gigante – sia nella sua sete di vendetta che nella sua disperazione – e che anche nei suoi momenti di meschinità sia, a differenza di coloro che lo circondano, sempre profondamente umano.
Il suo monologo, a quattrocento anni di distanza, ha ancora il potere di scuotere le coscienze:
“Sono un ebreo. Ma non ha occhi un ebreo? Non ha un ebreo mani, organi, membra, sensi, affetti, passioni? Non si nutre degli stessi cibi, non è ferito dalle stesse armi, non è soggetto alle stesse malattie, non si cura con gli stessi rimedi, non è riscaldato e agghiacciato dallo stesso inverno e dalla stessa estate come lo è un cristiano? Se ci pungete, non facciamo sangue? Se ci fate il solletico, non ridiamo? Se ci avvelenate, non moriamo? E se ci oltraggiate, non dobbiamo vendicarci?”
A quattrocento anni di distanza, tuttavia, una differenza c'è, e fondamentale. L'immagine di Shylock vinto e schiacciato, costretto a convertirsi, che chiede di potersene andare da Venezia (“Vi prego, permettetemi di andar via di qua. Non mi sento bene.”), ci ricorda anche che ora esiste un luogo in cui ogni ebreo può ripararsi ed essere difeso, essere se stesso anzichè un outsider; un luogo che ogni ebreo può chiamare il suo Paese.
Annalisa Robinson