L’articolo di Umberto De Giovannangeli intitolato “Tel Aviv, violenze contro gli africani”, pubblicato sull’edizione del 27 maggio, è un’ennesima dimostrazione della disinformazione operata, ahimè, dall’Unità sul Medio Oriente e su Israele in particolare. In particolare colpisce che De Giovannangeli dopo aver definito “laica” Tel Aviv denunci “regresso culturale” del danneggiamenti di auto degli immigrati sudanesi. Colpisce perché tale fenomeno, rappresentanto nell’articolo come se fosse un’anomalia tutta israeliana, in realtà è diffuso in tutti gli Stati, evoluti o no, interessati dall’immigrazione. Colpisce perchè l’attività di gruppi di estrema destra vengono rappresentati come se fossero condivisi dalla maggioranza degli Israeliani e degli abitanti di Tel Aviv in particolare. Colpisce perché, con una tecnica degna dei peggiori mistificatori propagandistici, l’articolo, definendo l’ostilità verso gli immigrati come “regresso culturale”, da un lato afferma, implicitamente, che finora, la società israeliana non era regredita in materia di diritti umani (cosa mai riconosciuta esplicitamente da De Giovannangeli e da certa sinistra antisionista/antisemita), e dall’altro utilizza questo riconoscimento di elevato livello etico della “laica” Tel Aviv del passato per rivolgere alla società israeliana un’ennesima accusa, a dispetto di ciò che accade in tutti gli Stati arabi, confinanti e non, compresi quelli in cui la “Primavera araba” si sta rivelando un “Inverno islamista”. Cosa dire, poi, del confronto tra il problema dell’immigrazione in Israele e nei Paesi europei. De Giovannangeli scrive “In cifra assoluta il numero resta modesto rispetto a quello di diversi Paesi europei, ma secondo i dati ufficiali ha raggiunto comunque in pochi mesi quota 60.000”, dimenticando il non trascurabile fatto che Israele ha un territorio ed una popolazione simili a quelli di una media regione italiana. E’ chiaro che i dati sull’immmigrazione siano “in cifra assoluta” modesti rispetto a quelli di diversi Paesi europei, ma, per comprendere l’impatto di una simile immigrazione sul tessuto sociale di Israele si dovrebbe immaginare cosa succederebbe se in Campania, nel Lazio, in Liguria, in Lombardia arrivassero in pochi mesi 60.000 immigrati. Se a ciò si aggiunge il fatto che il territorio israeliano è occupato, per metà da deserto, è facile comprendere l’impatto di una simile ondata migratoria. Lungi dal volere giustificare i danneggiamenti e le aggressioni agli immigrati da parte di bande di estrema destra (del tutto analoghe a quelle che si rendono protagoniste di episodi identici in Italia, Francia, Germania, e altri Paesi europei), l’articolo determina un certo fastidio oltre che per il tono, anche e soprattutto per la parzialità dell’analisi del fenomeno migratorio. Perché, se in Israele arrivano tanti immigrati africani e, in particolar modo, sudanesi è a causa delle persecuzioni del regime di Al Bashir, delle violenze dei Libici, dei taglieggiamenti degli Egiziani. Ecco quindi che, invece di sottolineare l’accoglienza di profughi e immigrati africani respinti, perseguitati, taglieggiati dai regimi arabi vicini, compresi quelli della cosiddetta “Primavera araba”, si enfatizzano episodi con una ben definita connotazione politica, del tutto minoritaria, e che nulla hanno a che vedere con l’etica ebraica e dello Stato di Israele. L’errata traduzione del termine “deportation” che non è “deportazione” ma “espulsione” è un’altra “perla” che rende ancor più irritante l’ipocrita domanda conclusiva dell’articolo “Dove vai Israele?”, fatta da un giornalista che si distingue sempre e sempre di più per la sua ostilità verso lo Stato degli Ebrei, in linea con la propaganda palestinese.