Golfo Persico: travolti dalla paura
Analisi di Mordechai Kedar
(Traduzione dall'ebraico di Sally Zahav,
versione italiana a cura di Yehudit Weisz)
Mordechai Kedar
Il Golfo Persico soffre di una forte sproporzione geo-politica: sulla sua sponda orientale si trova uno stato di grandi dimensioni, l’Iran, che agisce con metodo e determinazione per realizzare l’egemomia sulla regione, avendo come obiettivo un territorio ancora più esteso.
Sulla sponda occidentale, vi sono non meno di dodici stati arabi: Kuwait, Arabia Saudita, Bahrain, Qatar, Oman, e i sette Emirati Arabi: Abu Dhabi, Ajman, Dubai, Fujairah, Ras al-Khaimah, Sharjah e Umm al-Quwain.
Ogni stato ha la propria storia: una famiglia leader che prevale sulle altre,i problemi interni, e ciascuno con un proprio programma, che varia da stato a stato. L’Iraq, finchè fu sotto il controllo di Saddam Hussein, rappresentò un contrappeso all’Iran, con il risultato che gli stati del Golfo si rifugiarono sotto la sua protezione. Compreso il pizzo pagato all’Iraq sotto forma di finanziamento parziale degli sforzi militari negli anni della guerra contro l’Iran, tra il 1980 e il 1988.
Fin dalla loro fondazione, l’obiettivo degli stati del Golfo era quello di sopravvivere tra i giganti, Iraq e Iran, mentre gli Emirati stavano a una certa distanza dall’Arabia Saudita. Questo finchè l' Iran non è diventato lo stato più potente della regione. Gli stati della Penisola araba per anni hanno cercato di creare iniziative volte alla difesa comune, durante la guerra tra Iran e Iraq, nel maggio del 1981, avevano fondato il “Consiglio di Cooperazione del Golfo” (GCC). Il principale risultato di questo Consiglio fu la creazione di un esercito denominato “ Scudo della Penisola”, il cui ruolo era difendere i suoi membri dagli attacchi esterni. Ma questo esercito era troppo debole e non fu in grado di salvare il Kuwait dall’invasione irachena nel 1990. La sua azione più brillante ebbe luogo nel marzo del 2011, quando gli stati arabi furono coinvolti nella lotta intestina in Bahrein volta a stabilizzare il dominio della minoranza arabo-sunnita sulla popolazione in maggioranza persiano-shiita, che si era ribellata al regime, influenzata dalla “Primavera araba”e incoraggiata dall’Iran.
Da quando il regime di Saddam fu rovesciato nel 2003 e dal momento in cui nel 2011 l’Iran è riuscito a trascinare l’Iraq nella propria sfera d’influenza, gli stati del Golfo avvertono sempre più vicino l’arrivo del rullo compressore iraniano, e la ghigliottina degli ayatollah sta minacciando il collo di sheicchi, principi, e re che vivono nella penisola araba.
Gli stati della Penisola si sentono sempre più dipendenti dagli USA e dall’Occidente per salvaguardare la propria indipendenza, politica ed economica, ma l’Occidente oggi appare stanco e debole, a causa del fallimento in Iraq e Afghanistan, e la sua leadership, in particolare quella che risiede alla Casa Bianca, fortemente influenzata dalle prossime elezioni, appare carente sul piano decisionale, incapace di dissuadere gli iraniani a diventare un potere egemonico regionale, che includerebbe tutta la Penisola araba.
Gli stati del Golfo sanno che, se l’Iran invadesse e conquistasse il Kuwait, come fece Saddam nell’agosto del 1990, il mondo non invierebbe aiuti militari per salvarlo di nuovo, lo sacrificherebbe sull’altare iraniano con la speranza che gli ayatollah si sentano soddisfatti. Qualsiasi altro paese sa che deve aspettarsi lo stesso trattamento. La situazione degli stati della Penisola araba è stata recentemente aggravata dai problemi che travagliano lo Yemen: il conflitto tra Nord e Sud risveglia il desiderio tra le tribù del Sud di riconquistare l’indipendenza che avevano perduto 22 anni fa, nella guerra senza fine tra il regime di Sana’a e gli Hawthi nel distretto di Sa’da al Nord, e le attività di Al-Qaeda contro il regime centrale - particolarmente feroce fu l’attacco terroristico che causò un centinaio di morti tra i soldati dell’esercito - che hanno indebolito il governo, minacciando l'integrità del paese.
La situazione geo-politica nel Golfo attualmente è contrassegnata da una totale disuguaglianza: da un lato c’è uno stato unificato, con un obiettivo ben preciso, che possiede un grande potere, la volontà di usarlo e la comprovata capacità di fare qualsiasi cosa senza tener conto della comunità internazionale; e dall’altro lato ci sono 13 stati, incluso lo Yemen, con vari interessi contrastanti, e con complessi conflitti interni.
In alcuni stati esistono ampie minoranze shiite, una sorta di “un cavallo di Troia”all’interno degli stati arabi-sunniti. E in aggiunta a questa già problematica situazione, c’è una storia, non meno complessa e problematica: la rivendicazione iraniana di tre isole, che appartengono agli Emirati fin dai tempi dello Scià, che continua ad essere un punto nevralgico di tensione.
La visita di Amadinejiad a una di queste isole circa due mesi sottolinea la rivendicazione della sovranità dell’Iran.
Da non sottovalutare poi le manovre navali iraniane per chiudere lo Stretto di Hormuz, il legame storico tra Iran e Bahrain, che ha una maggioranza persiano-sciita e i discorsi sulla necessità che il Bahrain torni in seno all’Iran. Più le proteste iraniane nei confronti dell’Arabia Saudita per come si rapporta alla minoranza sciita che risiede nell’area dei giacimenti petroliferi e, in ultimo, il comportamento provocatorio degli iraniani che fanno pellegrinaggi alla Mecca, suscitando tensioni tra i sunniti.
Tutto questo insieme di fattori, e soprattutto la mancanza di fiducia nel sostengno dell’Occidente e degli Stati Uniti nel momento del bisogno, ha creato tra i leaders degli stati del Golfo una grande paura del gigante iraniano, che minaccia di prenderne il controllo, con il risultato che oggi prevale la sensazione che non ci sia altra scelta se non quella di modificare l' atteggiamento politico nei confronti dell’Iran. Per realizzarlo, devono creare un terreno comune in merito alle scelte politiche relative alla sicurezza, che risulta fragile a causa della divisione che prevale fra i paesi della Penisola .
Lo stesso valer per l’Arabia Saudita, chi si ritiene, a buon titolo, l’obiettivo principale dell'Iran. I sauditi sanno che l’obiettivo principale degli iraniani nella Penisola, persino e più del petrolio, sono le due città sante dell’islam: La Mecca e Medina. Da quando, 90 anni fa, la famiglia Ibn Saud ha preso il controllo della regione di Hijaz, il re si vanta di essere “il custode dei due Luoghi Santi”e si vale di questo titolo quale fondamento di legittimazione islamica del suo ruolo. Un recupero da parte degli sciiti della Penisola, che fu loro tolta dai sunniti, farebbe tornare indietro la ruota della storia alla metà del VII secolo, ai tempi del Califfato di Ali bin Abi Talib, il quarto califfo.
Ancora oggi gli sciiti sognano il ritorno dell’egemonia islamica alla sua famiglia, mentre i sauditi vedono lo sciisma come una sorta di eresia.
La spinta saudita per l' unità della Penisola fu dichiarata nel gennaio 2012, quando il summit di emergenza degli stati del Golfo si riunì per affrontare la minaccia iraniana alla luce degli sviluppi della “Primavera araba”, e delle sue implicazioni con la stabilità dei vari governi.
In questo summit, che si svolse a Riyadh, capitale dell’Arabia Saudita, il re Abdullah si rivolse ai partecipanti, in questi termini (i miei commenti sono tra parentesi MK):
”Ci incontriamo all’ombra di una sfida che richiede tutta la nostra attenzione, in un momento in cui dobbiamo unire le nostre forze e le nostre voci”. Il re disse che vi sono minacce alla sicurezza e alla stabilità del Golfo, e nonostante il fatto che egli non avesse menzionato l’origine di queste minacce, tutti capirono a chi si fosse rivolto. Egli chiese ai capi di governo “di aumentare (al di sopra delle controversie) il livello necessario di responsabilità a loro richiesto, e, dato che tutti i partecipanti erano parte della nazione islamica, tutti avrebbero dovuto aiutare i propri fratelli (i siriani) al fine di sottrarli allo spargimento di sangue (del regime siriano, che è sostenuto dall’Iran).
Re Abdullah aggiunse: “ La storia del nostro passato e l’esperienza ci hanno insegnato che non dobbiamo trarre soddisfazione semplicemente parlando della nostra situazione, lasciando le cose come stanno, perché chi si comporta così finisce per trovarsi a fine corsa e sarà perduto. E poiché ciò non è accettabile per nessuno di noi, vi chiedo di passare da questa fase di cooperazione a una fase di unificazione, come entità unica; questo allontanerà il male e porterà il bene”.
Non c’è espressione più grave di parole come queste, cariche di religiosità, in un linguaggio diplomatico arabo, usato al fine di comunicare un messaggio all’Iran. Il fatto che non sia stato esplicitamente menzionato per nome, non diminuisce il peso delle sue parole. Si deve presumere che dietro le quinte, nei confronti dell'Irana, siano state pronunciate espressioni più chiare, meno diplomatiche e più esplicite.
L’ansia dei paesi del Golfo è stata esacerbata dalla visita provocatoria del Presidente iraniano, Mahmoud Ahmadinejad, nell’aprile di quest’anno, all’isola di Abu Musa, una delle tre che fanno parte degli Emirati Arabi Uniti, rivendicate dagli stessi Emirati Arabi Uniti, e di cui l’Iran aveva preso il controllo ai tempi dello Scià nel 1971. L’isola si trova nello Stretto di Hormuz, di fronte alle coste di Abu Dhabi, e la base militare che l’Iran vi aveva posto, potrebbe servire all’esercito iraniano nel caso in cui lo Stretto dovesse venire bloccato.
La visita ha scatenato un’ondata di pesanti reazioni verbali da parte degli EAU, e l’Iran ha risposto con un’ondata di dichiarazioni violente contro gli stati del Golfo. Questa risposta è importante perché ha ingigantito i già pessimi rapporti tra le due sponde del golfo. Vale la pena ricordare che gli arabi lo chiamano ”Golfo Arabico”, mentre gli iraniani insistono a chiamarlo “Golfo Persico”, e ogni volta che un leader arabo dice “Golfo arabico”, gli iraniani protestano e chiamano a rapportol’ambasciatore di quel paese .
Lo sceicco Hassan al-Islam, consigliere per gli Affari Internazionali a capo del Parlamento iraniano, Majlis al-Shura, ha detto che ”le dichiarazioni dei leaders degli Emirati a proposito delle isole del Golfo Persico, fanno parte di una vecchia trama tesa dai leaders della Gran Bretagna (che aveva il Governatorato del Golfo fino a quando lo lasciò negli anni ’60) e dall’entità sionista”. Accusando gli stati del Golfo di sionismo si intende tappare la bocca ai detrattori dell’Iran. E’ da notare che anche Hitler a suo tempo, aveva accusato i suoi avversari di cooperare con gli ebrei.
Le isole, secondo lo sceicco al-Islam, sono una parte inscindibile dall’Iran, per cui la visita del Presidente nell’isola deve essere considerata assolutamente naturale. Ha poi accusato l’Arabia Saudita di non avere rivendicato due isole saudite, Sanafir e Tiran, situate all’imbocco del golfo di Eilat, che Israele aveva conquistato nel 1967 con la Guerra dei Sei Giorni, e che ancora controlla, secondo lui perché Sadat non ne aveva richiesto la restituzione, dato che appartengono all’Arabia Saudita.
Sostiene poi che i sauditi stanno tranquilli per non aggravare la posizione dei loro amici a Tel Aviv, proprio come si comportano gli Emirati, che stanno calmi di fronte all’occupazione ebraica di Giudea e Samaria che appartiene ai palestinesi, all’occupazione delle alture del Golan che appartengono alla Siria, e all’acquisizione delle fattorie Sheba, di pertinenza del Libano.
Il portavoce iraniano ha accusato “Abu Matav” (l’uso del soprannome di Abdullah, re dell’Arabia Saudita, è citato in segno di disprezzo) di sostenere i ribelli siriani, e che i suoi sceicchi hanno pronunciato fatwe che obbligano i musulmani a partecipare alla jihad contro il governo siriano, al fine di imporre in Siria un regime salafita e waabita come quello dell’Arabia Saudita.
Tutti sanno che il nemico del mondo islamico è Israele, perché dunque i media del Golfo si occupano di minuzie simili, come la visita di Ahmadinejad ad Abu Musa? I media dovrebbero concentrarsi su Israele!
Queste parole contro i media si riferiscono in particolare alla Tv al-Jazeera, che trasmette dal Qatar, che ha causato –secondo il parere dei regimi siriano, iraniano e dei leaders di Hezbollah in Libano- l’ondata di violenza araba, chiamata “Primavera araba”, al soldo dell’entità sionista che mirava al rovesciamento dei leaders arabi.
Il portavoce iraniano concluse il suo discorso dichiarando che l’Iran non cadrà nella trappola delle liti con gli arabi a livello regionale, e che serba tutte le sue forze per affrontare il vero nemico, il regime sionista. L’obiettivo che si nasconde dietro queste dichiarazioni, è quello di rendere gli Emirati del Golfo deboli, come anestetizzati, in modo che non reagiscano quando l’Iran li attaccherà.
I leaders, però, conoscono i metodi ingannevoli degli iraniani e sono ben consapevoli del fatto che parlare dell’entità sionista è la prova che l’Iran considera gli stati del Golfo la prima preda da conquistare.
A metà del mese di maggio, si è saputo che il Capo del “Middle East Center for Strategic Studies and Legal” a Jedda, il Generale Anwar Eshki, ha detto che il consiglio del vertice degli Stati del Golfo che avrebbe dovuto riunirsi a Riyadh, avrebbe deciso in merito a “un certo tipo di unione tra Arabia Saudita e Bahrain”. Il significato di tale dichiarazione è che l’Arabia Saudita sta già intrattenendo negoziati segreti con la casa reale del Bahrain, al fine di dichiarare un’ unione per contrastare i tentativi iraniani di impossessarsi dell’isola, e per dare legittimità a un coinvolgimento militare saudita contro la maggioranza persiano-sciita dei cittadini del Bahrain.
Un’unione di questo tipo cambierebbe l’intervento in una “questione interna”, cosicchè gli altri stati non avrebbero nulla da obiettare. Queste voci hanno destato preoccupazione in Bahrain e nella regione. Per l’opposizione sciita in Bahrain, una tale unione sarebbe il bacio della morte; per l’Iran significherebbe dilazionare il giorno in cui prendere di nuovo il controllo sul paese, mentre le famiglie regnanti degli altri stati del Golfo non vogliono sacrificare la loro indipendenza e il loro benessere per diventare un organo del vecchio corpo politico dell’Arabia Saudita.
Tutti gli osservatori si sono ricordati delle parole di Re Abdullah, proferite lo scorso dicembre, che sottolineavano come l’Arabia Saudita e il Bahrain erano già passati da uno stadio di cooperazione per diventare un’entità unica, un esempio mirato a diventare accettabile per tutti. Hanno ricordato che durante il primo Summit si era deciso di istituire un comitato di esperti che avrebbe compreso tre rappresentanti per ogni stato, con il compito di affrontare il modo con cui creare una sorta di unione tra loro. Il programma, molto circostanziato, doveva essere pronto a febbraio conl’elenco dei partecipanti, e in marzo avrebbe dovuto consegnare le proprie raccomandazioni.
Quando gli iraniani vennero a conoscenza del progetto di unione tra Arabia Saudita e Bahrain, reagirono furiosamente. L’agenzia ufficiale di notizie, “Fars”, definì l’idea “un passo diabolico degli stati sauditi del Golfo per legittimare l’occupazione del Bahrain”, e il portavoce iraniano intervistato dalla BBC, disse che “se il Bahrain si lega ad un altro stato, deve riunirsi di nuovo all’Iran e non all’Arabia Saudita”.
La dichiarazione di Eshki poteva essere valutata come un tentativo di sondare quali reazioni ci sarebbero state, quali sarebbero state intraprese, ma poteva anche significare un tentativo di preparare l’opinione pubblica negli stati del Golfo per il momento in cui essi avrebbero dovuto accettare l’egemonia del “Grande Fratello”saudita, per proteggersi dal “vicino gigante” iraniano.
In molti stati del golfo ci sono significative minoranze sciite, alcune delle quali parlano persiano, e i leaders di questi stati sono ben consapevoli dei tentativi iraniani di far insorgere queste minoranze per ribellarsi contro i regimi sunniti come quello in Bahrain.
Grande è la preoccupazione per come l’equilibrio del potere sta cambiando a loro svantaggio anche a livello globale, dato che le decisioni di Cina e Russia paralizzano l’Occidente, permettendo all’Iran di proseguire i programmi militari nucleari. La loro paura è aumentata da quando il presidente dell’AIEA ha relazionato di un “accordo”, che ricorda, in versione 2012, quello di Monaco, che Neville Chamberlain, Primo Ministro della Gran Bretagna, definì nel 1938 “pace nel nostro tempo”, mentre si concluse un anno dopo, con lo sterminio che coinvolse l’Europa e il resto del mondo.
I leaders del Golfo non credono nemmeno a una parola di quello che affermano gli iraniani, e temono che l’Occidente possa di nuovo cadere nella trappola, questa volta tesa da Saeed Jalili a Bagdad. Ritengono che, alla fine, l’ingenuità occidentale porterà gli stati del Golfo a cadere ai piedi degli iraniani, per questo sono ora alla ricerca di un’unione con l’Arabia Saudita. Il Bahrain è l'anello debole della catena costituita dagli stati del Golfo, e quindi l’unione comincerà da lì. Più il tempo passa, più l’Occidente cade nella trappola iraniana, più gli stati del Golfo saranno spinti dalla paura nel grembo accogliente della famiglia saudita.
Mordechai Kedar è lettore di arabo e islam all' Università di Bar Ilan a Tel Aviv. Nella stessa università è direttore del Centro Sudi (in formazione) su Medio Oriente e Islam. E' studioso di ideologia, politica e movimenti islamici dei paesi arabi, Siria in particolare, e analista dei media arabi.
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