Sul GIORNALE di oggi, 21/05/2012, a pag.6, con il titolo "Per chi ha visto l'orrore il dolore non passa mai. E niente è come prima", Fiamma Niresntein commenta la strage di Brindisi.
Fiamma Niresntein
È difficile capire bene il terrorismo: lo si può fare in molti anni di apprendistato, vivendo in mezzo agli attentati e alle vittime e ai terroristi stessi. Nel lavoro di giornalista ti accade, e ti rendi conto che quando non c’è l’esperienza diretta dell’evento, una specie di rimozione collettiva lo vuole collocare per forza dove vale il principio di causa-effetto, dove regna la logica e la civiltà. Non è così. Ha ragione Eli Wiesel quando dice che bisognerebbe combatterlo con leggi definitive e internazionali, quelle sui crimini contro l’umanità. È infatti la peggiore delle guerre. Esso ti trasporta nel mondo dove niente di quello che insegni ai tuoi figli vale. Non c’è premio, non c’è punizione: sei una creatura meravigliosa e innocente come Melissa e tuttavia ti colpisce come una piaga.
Il terrore uccide, menoma per sempre, ti confina nella depressione o in una sindrome postraumatica per sempre. Il paradosso biblico di Giobbe si fa realtà; la tua shoah può avere caratteristiche svariate. Per chi vi viene coinvolto, se anche gli va bene, gli è andata sempre male. Chiunque l’ha scampata, di fatto resta impigliato per sempre, ha la vita rovinata. Chi non c’era,rimasto a casa per un caso fortuito rischia di riempire il vuoto fisico con una colpa inesistente che distrugge. Se sei un amico, un genitore, un compagno di scuola o di lavoro, di una vittima, di un ferito, il tormento inflitto dal terrorista ti trascina nella rete. Il terrorismo è una guerra grande, basta pensare all’Irlanda, a Israele, all’Irak,basta pensare che grande ambizione dimostra quando estende le sue grinfie sulle grandi capitali del mondo con le Twin Towers, Londra, Madrid. Non importa, adesso, se qui invece si è trattato di un pazzo: il terrorista islamico come, quello che a Columbine impugna un fucile e spara sui compagni di college, come quello che fa saltare per aria il Caffè Moment a Gerusalemme uccidendo un padre e una figlia che insieme festeggiano il fatto che la ragazza, Nava Applebaum, si sarebbe sposata la mattina dopo, come quello che ha ucciso Melissa, formano un unico esercito.
Un attacco terrorista non finisce quando si placa il rumore dello scoppio, non muore con le sue vittime né guarisce con le cure ai feriti. È il colloquio con la morte ingiusta che sei obbligato a continuare ad afferrarti. Le vittime raccontano che quando la bomba ti assorda, dopo passano alcuni momenti di silenzio totale, in cui vedi senza sonoro una marea di sangue che ti annega, di fuoco che ti brucia, non sai se sei vivo o morto. Poi la vita di nuovo alza il volume e vieni investito dal dolore tuo, di chi ti sta intorno. È la tua vita che torna dopo un silenzio che, mi ha detto una volta un ferito, è quello della morte. Dal momento del soccorso comincia un calvario fatto di dolore fisico ma anche di rimorso di essere vivi e di pena per l’umanità che produce simili orrori. Pensiamo non solo a Veronica Capodieci di 15 anni, in prognosi riservata, che resiste come una leonessa per la sua vita, ma anche a Vanessa, sua sorella che ha 19 anni.
Si dice si sia salvata perché la sorella le ha fatto scudo col suo corpo. E pensiamo a Selena Greco, anche lei in condizioni gravi e alle altre ragazze Sabrina, Vittoria, che hanno combattuto a loro modo nella guerra contro il terrorismo facendosi forza l’una l’altra mentre bruciavano vive, ma che ora hanno da combattere quella parte della battaglia su cui il terrorista conta, quella della distruzione della personalità, quella per cui negli anni dell’Intifada i terroristi erano sicuri di riuscire a cacciare gli israeliani da Gerusalemme a furia di esplosioni di autobus e di caffè, o gli irlandese volevano piegare gli inglesi uccidendo la gente nei pub, o i suprematisti bianchi americani vogliono minare alla base la società cercando di corroderne col sangue la compattezza, o i talebani terrorizzano chi spera in una società un po’ migliore. Un attacco terrorista ha mille non ratio e nessuna, il capriccio del fato può uccidere te e non qualcuno che ti siede a pochi centimetri, può uccidere l’altro e lasciare in vita te a chiederti per sempre perché questo è accaduto a lui e non a te. Nella zona pedonale di Gerusalemme un ragazzo di una quindicina di anni, Eran Mizrachi, fu messo nella fila con altri undici ragazzi come lui, tutti uccisi mentre erano al pub da un terrorista suicida. Era morto, ma suo fratello gemello, Avi, gli fece la respirazione artificiale per 25 minuti, finché lo resuscitò. Poi però corse su per una scala fino sul tetto deciso a buttarsi di sotto e farla finita nonostante il successo: non poteva tollerare quello che avevano fatto al fratello. Lo trattennero, poi suoi fratello Eran fu ferito in un altro attacco. Così è il terrorismo.
Quando uno vede il corpo di un terrorista ucciso, come è capitato alla cronista, più che pietà il suo tronco morto suscita un senso di curiosità. Ci sono molte domande che uno vorrebbe fargli: perché? che mondo si immaginava di costruire sui corpi di innocenti, ragazzini, bambini? La nostra curiosità andrebbe delusa, avremmo una serie di risposte stereotipate e vuote. Il terrorismo ha un segno comune, comunque si vesta: odia la vita, odia la civiltà, alcuni di loro dicono che questo è il loro grande vantaggio tattico e strategico su chi invece la vita la ama. Noi, che dobbiamo vincere per forza la sfida, perché se non ce la facciamo ci uccideranno fino nell’anima.
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