sabato 19 aprile 2025
CHI SIAMO SUGGERIMENTI IMMAGINI RASSEGNA STAMPA RUBRICHE STORIA
I numeri telefonici delle redazioni
dei principali telegiornali italiani.
Stampa articolo
Ingrandisci articolo
Clicca su e-mail per inviare a chi vuoi la pagina che hai appena letto
Caro/a abbonato/a,
CLICCA QUI per vedere
la HOME PAGE

vai alla pagina twitter
CLICCA QUI per vedere il VIDEO

Fiamma Nirenstein ci parla della guerra antisemita contro l'Occidente

Riprendiamo da FORMICHE.net, la video-intervista di Roberto Arditti a Fiamma Nirenstein dal titolo: "A che punto siamo in Medio Oriente. Intervista a Fiamma Nirenstein". 
(Video a cura di Giorgio Pavoncello)

Intervista a tutto campo a Fiamma Nirenstein di Roberto Arditti, a partire dal suo ultimo libro: "La guerra antisemita contro l'Occidente". Le radici dell'antisemitismo e perché l'aggressione contro il popolo ebraico in Israele è un attacco a tutto campo contro la civiltà occidentale. E una sconfitta di Israele segnerebbe anche la nostra fine. 



Clicca qui






Il Giornale Rassegna Stampa
21.05.2012 Per chi ha visto l'orrore il dolore non passa mai. E niente è come prima
Commento di Fiamma Nirenstein

Testata: Il Giornale
Data: 21 maggio 2012
Pagina: 6
Autore: Fiamma Nirenstein
Titolo: «Per chi ha visto l'orrore il dolore non passa mai. E niente è come prima»

Sul GIORNALE di oggi, 21/05/2012, a pag.6, con il titolo "Per chi ha visto l'orrore il dolore non passa mai. E niente è come prima", Fiamma Niresntein commenta la strage di Brindisi.

Fiamma Niresntein

È difficile capire bene il terrori­smo: lo si può fare in molti anni di apprendistato, vivendo in mezzo agli attentati e alle vittime e ai ter­roristi stessi. Nel lavoro di giornali­sta ti accade, e ti rendi conto che quando non c’è l’esperienza diret­ta dell’evento, una specie di rimo­zione collettiva lo vuole collocare per forza dove vale il principio di causa-effetto, dove regna la logi­ca e la civiltà. Non è così. Ha ragio­ne Eli Wiesel quando dice che bi­sognerebbe combatterlo con leg­gi definitive e internazionali, quel­le sui crimini contro l’umanità. È infatti la peggiore delle guerre. Es­so ti trasporta nel mondo dove niente di quello che insegni ai tuoi figli vale. Non c’è premio, non c’è punizione: sei una creatura mera­vigliosa e innocente come Melis­sa e tuttavia ti colpisce come una piaga.
Il terrore uccide, menoma per sempre, ti confina nella depressio­ne o in una sindrome postraumati­ca per sempre. Il paradosso bibli­co di Giobbe si fa realtà; la tua sho­ah può avere caratteristiche sva­riate. Per chi vi viene coinvolto, se anche gli va bene, gli è andata sem­pre male. Chiunque l’ha scampa­ta, di fatto resta impigliato per sempre, ha la vita rovinata. Chi non c’era,rimasto a casa per un ca­so fortuito rischia di riempire il vuoto fisico con una colpa inesi­stente che distrugge. Se sei un ami­co, un genitore, un compagno di scuola o di lavoro, di una vittima, di un ferito, il tormento inflitto dal terrorista ti trascina nella rete. Il terrorismo è una guerra grande, basta pensare all’Irlanda, a Israe­le, all’Irak,basta pensare che gran­de ambizione dimostra quando estende le sue grinfie sulle grandi capitali del mondo con le Twin Towers, Londra, Madrid. Non im­porta, adesso, se qui invece si è trattato di un pazzo: il terrorista islamico come, quello che a Co­lumbine impugna un fucile e spa­ra sui compagni di college, come quello che fa saltare per aria il Caf­fè Moment a Gerusalemme ucci­den­do un padre e una figlia che in­sieme festeggiano il fatto che la ra­gazza, Nava Applebaum, si sareb­be sposata la mattina dopo, come quello che ha ucciso Melissa, for­mano un unico esercito.
Un attacco terrorista non fini­sce quando si placa il rumore del­lo scoppio, non muore con le sue vittime né guarisce con le cure ai feriti. È il colloquio con la morte in­giusta che sei obbligato a conti­nuare ad afferrarti. Le vittime rac­contano che quando la bomba ti assorda, dopo passano alcuni mo­menti di silenzio totale, in cui vedi senza sonoro una marea di san­gue che ti annega, di fuoco che ti
brucia, non sai se sei vivo o morto. Poi la vita di nuovo alza il volume e vieni investito dal dolore tuo, di chi ti sta intorno. È la tua vita che torna dopo un silenzio che, mi ha detto una volta un ferito, è quello della morte. Dal momento del soc­corso comincia un calvario fatto di dolore fisico ma anche di rimor­so di essere vivi e di pena per l’umanità che produce simili orro­ri. Pensiamo non solo a Veronica Capodieci di 15 anni, in prognosi riservata, che resiste come una le­onessa per la sua vita, ma anche a Vanessa, sua sorella che ha 19 an­ni.
Si dice si sia salvata perché la so­rella le ha fatto scudo col suo cor­po. E pensiamo a Selena Greco, anche lei in condizioni gravi e alle altre ragazze Sabrina, Vittoria, che hanno combattuto a loro mo­do nella guerra contro il terrori­smo facendosi forza l’una l’altra mentre bruciavano vive, ma che ora hanno da combattere quella parte della battaglia su cui il terro­rista conta, quella della distruzio­ne della personalità, quella per cui negli anni dell’Intifada i terro­risti erano sicuri di riuscire a cac­ciare gli israeliani da Gerusa­lemme a furia di esplosioni di au­tobus e di caffè, o gli irlandese vole­vano piegare gli inglesi ucciden­do la gente nei pub, o i supremati­sti bianchi americani vogliono mi­nare alla base la società cercando di corroderne col sangue la com­pattezza, o i talebani terrorizzano chi spera in una società un po’ mi­gliore. Un attacco terrorista ha mille non ratio e nessuna, il capric­cio del fato può uccidere te e non qualcuno che ti siede a pochi cen­timetri, può uccidere l’altro e la­sc­iare in vita te a chiederti per sem­pre perché questo è accaduto a lui e non a te. Nella zona pedonale di Gerusalemme un ragazzo di una quindicina di anni, Eran Mizra­chi, fu messo nella fila con altri un­dici ragazzi come lui, tutti uccisi mentre erano al pub da un terrori­sta suicida. Era morto, ma suo fra­tello gemello, Avi, gli fece la respi­razione artificiale per 25 minuti, finché lo resuscitò. Poi però corse su per una scala fino sul tetto deci­so a buttarsi di sotto e farla finita nonostante il successo: non pote­va tollerare quello che avevano fat­to al fratello. Lo trattennero, poi suoi fratello Eran fu ferito in un al­tro attacco. Così è il terrorismo.
Quando uno vede il corpo di un terrorista ucciso, come è capitato alla cronista, più che pietà il suo tronco morto suscita un senso di curiosità. Ci sono molte doman­de che uno vorrebbe fargli: per­ché? che mondo si immaginava di costruire sui corpi di innocenti, ra­gazzini, bambini? La nostra curio­sità andrebbe delusa, avremmo una serie di risposte stereotipate e vuote. Il terrorismo ha un segno comune, comunque si vesta: odia la vita, odia la civiltà, alcuni di loro dicono che questo è il loro grande vantaggio tattico e strategico su chi invece la vita la ama. Noi, che dobbiamo vincere per forza la sfi­da, perché se non ce la facciamo ci uccideranno fino nell’anima.

Per inviare al Giornale la propria opinione, cliccare sulla e-mail sottostante


segreteria@ilgiornale.it

Condividi sui social network:



Se ritieni questa pagina importante, mandala a tutti i tuoi amici cliccando qui

www.jerusalemonline.com
SCRIVI A IC RISPONDE DEBORAH FAIT