Riportiamo dal SOLE 24 ORE dell'8/05/2012 l'articolo di Paul Berman dal titolo "Orwell, l'Islam, la libertà di espressione e noi", preceduto dall'introduzione di Christian Rocca dal titolo " La polizia del pensiero ".
Ecco i pezzi:
Christian Rocca - " La polizia del pensiero "
Christian Rocca
In 1984, George Orwell si era inventato la "Thought Police", la polizia del pensiero (nella traduzione italiana chiamata la psicopolizia), un espediente narrativo per fornire al sistema totalitario guidato dal Grande Fratello lo strumento di coercizione più invasivo che l'essere umano potesse immaginare e sopportare: il controllo del pensiero ventiquattr'ore su ventiquattro.
Il controllo poliziesco del pensiero significava annullamento del pensiero, cancellazione dell'individuo, schiavitù. «Il Grande Fratello vi guarda», minacciavano le scritte sulle strade di Oceania. I sudditi del regime di conseguenza erano costretti a non pensare. Erano costretti ad annullarsi per evitare guai. «Si doveva vivere (o meglio si viveva, per un'abitudine, che era diventata, infine, istinto) tenendo presente che qualsiasi suono prodotto sarebbe stato udito e che, a meno di essere al buio, ogni movimento sarebbe stato visto», si legge già alle prime pagine di 1984, assieme a Buio a mezzogiorno di Arthur Koestler uno dei testi letterari definitivi sul totalitarismo.
Che cosa c'entrano George Orwell e i sistemi totalitari del Novecento con l'ideologia militante dell'Islam radicale e la minaccia alla libertà di pensiero di cui parla questo saggio scritto da Paul Berman?
C'entrano. Oggi, argomenta Berman, l'Islam radicale si è posto l'obiettivo politico di restringere i limiti di ciò che è consentito pensare, sia nella società occidentale sia nel mondo islamico. L'ideologia islamista e le sue squadracce non minacciano soltanto la libertà di espressione, puntano addirittura a controllare la libertà di pensiero. L'Islam radicale si è trasformato nella psicopolizia del romanzo di Orwell. Se non ce ne accorgiamo, avverte Berman, possiamo dire addio società liberale.
Paul Berman è un intellettuale americano liberal e di sinistra da anni impegnato a spiegare come la battaglia contro l'Islam politico è la diretta continuazione della lotta contro gli altri totalitarismi del Novecento, il nazifascismo e il comunismo. In Terrore e liberalismo (Einaudi, 2004), Berman aveva illuminato con precisione la connessione ideologica tra l'islamismo, il nazionalismo arabo e i movimenti totalitari del ventesimo secolo.
A poco a poco l'attenzione di Berman si è spostata sugli intellettuali del mondo libero, in particolare quelli che non sono stati capaci di individuare nell'estremismo islamico, e nemmeno nella dittatura nazionalista di Saddam Hussein, la versione moderna della minaccia totalitaria del secolo scorso. Affrontare e contrastare sul piano delle idee questo pericolo, secondo Berman, non è soltanto la cosa giusta da fare, ma quella moralmente doverosa.
Gli intellettuali, ha scritto Berman nel saggio del 2010 intitolato The Flight of Intellectuals (incomprensibilmente non ancora tradotto in italiano), scappano di fronte alla realtà e non assolvono il loro compito che in teoria è quello di spiegare all'opinione pubblica che cosa sta succedendo. I maître à penser occidentali vedono la minaccia di un movimento politico autoritario e totalitario che dice di agire in nome dell'Islam ma, invece di denunciare la barbarie e le intimidazioni, preferiscono fuggire dalle loro responsabilità. Stanno zitti. Rinunciano al loro ruolo. Depotenziano il dibattito. Evitano la discussione. Fanno anche di peggio: accusano i dissidenti e gli spiriti liberi di quelle società, ridicolizzano il loro coraggio. Li disprezzano, anche. Assieme a chiunque prenda le loro difese.
Non è stato sempre così. Nel 1989, il mondo intellettuale si è schierato con Salman Rushdie, quando lo scrittore è stato condannato a morte dalla fatwa religiosa emanata dall'ayatollah iraniano Khomeini, ma allora non era ancora evidente la capacità di intimidazione dell'Islam politico. In nome della libertà di espressione, durante il caso Rushdie le guide morali del mondo libero si sono mobilitate a favore dell'autore dei Versi satanici. I Rushdie dei nostri giorni – da Ayaan Hirsi Ali a Ibn Warraq – sono meno fortunati. Vengono liquidati come personaggi insignificanti, ignoranti, non rappresentativi. Non valgono quanto i leader del movimento islamista che fingono di essere moderati, come Tariq Ramadan.
Secondo Berman, la ragione di questa fuga degli intellettuali è più semplice di quanto possa sembrare: «Pensano sia meglio stare alla larga da autori che definiscono provocatori, temono sia troppo pericoloso sostenerli, sono intimiditi».
Con la polizia del pensiero a vigilare, l'intimidazione e la paura diventano sentimenti decisamente più efficaci della rabbia e dell'orgoglio di chi denuncia l'oppressione e l'intolleranza. La nuova riflessione di Berman, contenuta in questo saggio pubblicato da IL in esclusiva italiana, si concentra su un rischio apparentemente lontano per la società aperta, ma che in realtà è più pericoloso e attuale degli atti di violenza terroristica. Un pericolo di tipo orwelliano.
Berman non è solo in questa battaglia. L'editorialista dell'Observer britannico, Nick Cohen, su questo tema ha scritto un saggio dal titolo You Can't Read This Book (dedicato a Christopher Hitchens, uno che dal caso Rushdie fino al suo ultimo giorno di vita non si è mai dato alla fuga). Cohen sostiene che non è vero che stiamo vivendo un'epoca di libertà senza precedenti, come si usa dire con un pizzico di ingenuità. Chi offende la religione musulmana, anche solo con una vignetta o con un romanzo, mette a rischio la propria vita. Il risultato diretto è l'autocensura, la fine della società aperta. A vigilare che tutto vada secondo i precetti ideologici c'è la polizia del pensiero, temibile per la sua capacità di intimidire e facilitata nel compito coercitivo dall'abdicazione dell'élite culturale.
Bruce Bawer, scrittore americano in trasferta in Norvegia, definisce «nuovi Quisling» quegli intellettuali occidentali che si oppongono al dibattito sul totalitarismo musulmano e cercano di controllare la conversazione sull'Islam in modo che non offenda i suoi principi ideologici. "Nuovi Quisling" è un insulto feroce.
Vidkun Quisling è stato il gerarca fascista norvegese che ha governato il suo Paese con il pugno di ferro per conto dei nazisti. Quisling, insomma, è il simbolo del collaborazionismo con il male assoluto. In The New Quislings: How the International Left Used the Oslo Massacre to Silence Debate About Islam, appena pubblicato da Harper Collins ed edito da Adam Bellow, il figlio di Saul, Bawer ha replicato con veemenza a chi ha strumentalizzato la lucida follia assassina di Anders Breivik, il massacratore locale dei ragazzi di Oslo, per delegittimare i pochi critici dell'ideologia islamista.
Gli articoli di Bawer sono stati citati nel lungo e delirante manifesto lasciato da Breivik e, per questo, con una dose eccessiva di cinismo sono stati successivamente collegati all'azione omicida del solitario assassino norvegese. Da qui la passione personale, talvolta scomposta, di Bawer nel rilanciare attaccando chi ha approfittato di una strage di adolescenti per silenziare il dibattito sull'Islam.
Il saggio di Paul Berman è più sereno, sine ira ac studio, senza ira né pregiudizi, ma il punto di arrivo è lo stesso: la società aperta non si può permettere di ignorare la campagna globale islamista per la limitazione della libertà di pensiero attraverso l'intimidazione.
Paul Berman - "Orwell, l'Islam, la libertà di espressione e noi"
Paul Berman
Come si spiega il successo continuo e spettacolare in tutto il mondo dei movimenti politici che si richiamano apertamente a dottrine islamiche e a programmi radicali? Qualcuno pensa che sia l'Islam stesso, l'antica religione, a prescrivere i principi della teocrazia e della conquista globale, e che l'affermazione, oggi, dei movimenti radicali che si fanno portatori di queste idee non abbia bisogno di alcuna spiegazione. È una mera conseguenza logica della decolonizzazione che ha consentito al mondo islamico di recuperare gradualmente la sua natura profonda e autentica: uno sviluppo che si potrebbe perfino vedere come un ritorno – in qualche modo ammirevole – alla propria essenza.
Ma è soltanto un'opinione, mentre è un dato di fatto che in tutto il mondo si possono trovare studiosi islamici raffinati che sostengono che è vero il contrario, e cioè che l'Islam tradizionale contiene una varietà di correnti perfettamente compatibile con le moderne idee liberali: le tradizioni pacifiche del sufismo, ad esempio, e il lascito umanista dell'età dell'oro dell'Islam medievale. Alcuni di questi raffinati studiosi sono personalità di grandissimo rilievo, che occupano posizioni istituzionali di primo piano: per esempio l'ex presidente indonesiano Abdurrahman Wahid, oggi scomparso. Il presidente Wahid condannò aspramente i movimenti radicali, accusandoli di essere portatori di «un'ideologia estrema e perversa». Ma l'esempio del presidente Wahid e di quelli che la pensano come lui in tutto il mondo islamico non fa altro che sollevare un'ulteriore questione: perché i tanti pensatori islamici liberali, profondi conoscitori dei testi sacri, in molti Paesi non sono riusciti a sconfiggere, con la forza delle loro argomentazioni, i fautori di quell'ideologia estrema e perversa? Perché i progressisti e i moderati non sono riusciti a schiacciare i radicali?
Negli Stati Uniti, due ricercatori esperti di diritti umani, Paul Marshall e Nina Shea, hanno elaborato uno studio che affronta questo problema, intitolato Silenced e pubblicato dalla Cambridge University Press.
Marshall e Shea dimostrano che i portabandiera di un Islam radicale e politicizzato si sono proposti nel mondo islamico e non solo, un obbiettivo specifico, per nulla irrealistico o utopistico: restringere i confini di ciò che è lecito pensare per tutti gli altri. Il modo per raggiungere questo obbiettivo è invocare tabù sacri contro l'apostasia e la blasfemia, assieme a una serie di altri tabù (le «offese all'Islam», la «corruzione sulla terra», la «lotta contro Dio», la «stregoneria» e così via).
Gli ideologi radicali giudicano l'apostasia e la blasfemia come reati capitali punibili, secondo il codice della shari‘a, con la morte. In realtà i vari studiosi islamici liberali e moderati nella stragrande maggioranza dei casi non concordano con questa visione. Secondo gli islamici progressisti, la shari‘a dovrebbe essere vista come un'esortazione flessibile a rispettare una moralità devota, non come un rigido codice di punizioni temporali. La blasfemia e l'apostasia non sono viste con raccapriccio dagli studiosi non radicali, non c'è nemmeno consenso unanime sulla loro definizione. Sono materie aperte al dibattito, ma il dibattito è andato come è andato: le controargomentazioni dei liberali sono state schiacciate, i limiti di ciò che è lecito pensare si sono ristretti drasticamente. E il successo dei radicali è dovuto in misura significativa a un fattore importante e osservabile, che i due ricercatori americani sui diritti umani, Marshall e Shea, si sono sforzati di documentare: l'intimidazione sistematica. I radicali sono più che disposti a discutere secondo i metodi convenzionali, ma se gli argomenti non sono sufficienti sono altrettanto ben disposti a imporre la loro opinione. Dove i radicali sono al potere, questa imposizione è affidata alle forze in divisa, una realtà ben visibile in Paesi diversissimi fra loro come l'ultrarivoluzionaria Repubblica islamica d'Iran e l'ultraconservatrice monarchia wahabita della penisola araba. Ma l'imposizione poliziesca dei tabù dell'apostasia e della blasfemia giocava un ruolo anche nell'Egitto di Hosni Mubarak, dove il suo movimento politico, gli Ufficiali Liberi, nonostante gli ideali di modernità laica e le aspirazioni democratiche che sbandierava, ha stretto un'alleanza efficace con i semitollerati Fratelli musulmani. In altri Paesi ancora sono milizie non governative – ad esempio i Boko Haram in Nigeria – a farsi carico dell'imposizione forzata.
Ci sono anche le folle inferocite viste all'opera in vari luoghi, dall'Africa occidentale al Pakistan, e le bande di picchiatori.
I radicali hanno indirizzato la loro campagna contro l'apostasia e la blasfemia su varie categorie di individui, a cominciare dalle minoranze religiose. Nessuno si stupirà di sapere che per i cristiani che vivono in varie parti del mondo islamico questa sembra la nuova epoca dei leoni dell'antica Roma – stanno fuggendo in massa. In Sudan un governo islamista ha scatenato una guerra civile anche perché ha cercato di imporre ai cristiani e agli altri non musulmani delle regioni meridionali una versione spietata della shari‘a, e alla fine della guerra (anche se le violenze sembra che stiano ricominciando) il bilancio dei morti è di oltre due milioni di persone, di varie confessioni.
In Somalia gli islamisti considerano tutti i cristiani come apostati, e per questo uno dei gruppi islamisti ha invocato uno sterminio generalizzato. I cristiani subiscono persecuzioni anche in luoghi dove formalmente il Governo è laico e fa rispettare, in teoria, i diritti civili: è il caso dell'Algeria, dove, in risposta allo sdegno islamista contro i missionari, negli ultimi anni sono state esercitate pressioni governative su molte attività cristiane, spesso con il pretesto che i cristiani di Algeria sarebbero agenti di forze straniere. In Egitto i copti stanno iniziando a scappare, forse in gran numero.
Le pressioni più sistematiche si concentrano sui gruppi islamici eterodossi, come gli ismailiti, gli aleviti e gli ahmadi (perseguitati perfino in Indonesia, triste a dirsi), per non parlare dei rami collaterali dell'Islam, come i perseguitatissimi Baha'i. Inoltre, i militanti dell'Islam radicale tendono ad appendere l'etichetta di blasfemia al collo dei seguaci di quella, fra le due correnti principali della religione musulmana, che localmente si trova in minoranza, come i sunniti in Iran, dove la maggioranza è sciita, e gli sciiti in Pakistan e in Arabia Saudita, dove la maggioranza è sunnita. Di sicuro chiunque si sarà accorto che ormai da molti anni non passa quasi settimana senza che arrivi la notizia dell'ennesimo massacro indiscriminato di sciiti, a volte in una moschea, a volte a un corteo funebre: è un fenomeno molto accentuato in Iraq, ma anche in Pakistan e recentemente in Afghanistan. A volte interi gruppi etnici sono accusati di aver violato il tabù: la persecuzione dei cristiani in Algeria prende di mira in particolare i berberi, o cabili, in maggioranza musulmani ma con una certa percentuale di cristiani; gli islamisti sudanesi hanno accusato di apostasia i Nuba, mettendo in pericolo mezzo milione di persone (anche se non ci sono stati massacri generalizzati). Ovunque, le persecuzioni dei radicali si concentrano sugli umanisti, sui riformatori liberali e sui liberi pensatori dell'Islamslam. Illustri esponenti riformisti sono stati uccisi, e la persecuzione continua. Se seguite le notizie forse avrete notato il caso di un giornalista saudita di nome Hamza Kashgari, 23 anni, fuggito in Malaysia dopo aver pubblicato su Twitter tre messaggi riguardanti Maometto e che ora è stato rimandato in Arabia Saudita per rispondere di accuse di blasfemia, apostasia e ateismo, reati per cui è prevista la pena capitale.
E quando la persecuzione si abbatte su eretici e gruppi minoritari designati, anche i membri delle maggioranze privilegiate imparano la lezione. Ogni singolo individuo, nella riservatezza delle sue riflessioni personali, prenderà in considerazione le possibili conseguenze del lasciar vagare pensieri ribelli lungo strade proibite. È lo stesso Islam che finisce per rimanerne vittima: lo studioso liberale Abdullahi Ahmed An-Na'im osserva che se non hai la possibilità di abbandonare la tua religione non puoi apprezzare nemmeno la possibilità di abbracciarla liberamente. In circostanze come queste, chi oserà alzarsi in piedi per contrastare la marcia degli islamisti militanti? In sempre più Paesi, la maggioranza assoluta della popolazione guarda con disdegno e orrore ai paladini dell'Islam totalitario. Ma quella stessa maggioranza ha tutte le ragioni per tenere per sé le proprie opinioni: e chi tiene per sé le proprie opinioni dopo un po', di solito, non sa più quali siano. E in certi casi, come abbiamo imparato, la maggioranza si schiera dalla parte dei radicali, lasciando la responsabilità di fronteggiare la loro avanzata nelle mani di minoranze drammaticamente isolate.
I radicali a volte tengono d'occhio quello che succede in altre parti del mondo, un orientamento globale che aggiunge elementi nuovi alla questione. I leader dell'Islam di una volta generalmente non si curavano del rispetto della shari‘a in regioni del mondo non musulmane, e neanche i radicali: almeno fino a poco tempo fa. L'islamismo nella sua forma moderna e riconoscibile è nato negli anni 20 e 30 con la fondazione dei Fratelli musulmani in Egitto e di una manciata di movimenti gemelli in altri Paesi, e gli islamisti di quell'epoca sognavano più che altro di risuscitare l'antico califfato sacro nelle loro zone storiche di insediamento. L'idea non solo di risuscitare il califfato ma di espanderlo verso il resto del mondo era più che altro un retropensiero millenaristico, menzionabile ma, per così dire, non praticabile.
La nuova formulazione, più espansiva, dell'ideologia islamista, emerse solo con l'affaire Rushdie, nel 1988-1989, quando l'ayatollah Khomeini e altri leader giudicarono che il castigo fisico per l'atto satanico di scrivere e pubblicare I versi satanici dovesse essere impartito anche a chi pubblicava, traduceva e vendeva il libro in ogni parte del mondo, fino alla California (dove ci fu un incendio doloso) e al Giappone (dove ci fu un omicidio). L'era dell'l'affaire Rushdie non si è ancora conclusa. Marshall e Shea riassumono alcune delle sue perduranti manifestazioni: l'omicidio del regista olandese Theo Van Gogh in una strada di Amsterdam nel 2004; la reazione a una dozzina di vignette satiriche contro il terrorismo islamico pubblicate in Danimarca nel 2005, che generò dimostrazioni di massa, rivolte e attacchi incendiari per un bilancio complessivo di 241 vittime in tutto il mondo; i ripetuti tentativi di assassinare il vignettista danese Kurt Westergaard, autore della più citata e memorabile di quelle vignette (quella in cui si vede Maometto con una bomba infilata nel turbante), con arresti di aspiranti assassini in posti lontanissimi dalla Danimarca come Chicago; la reazione al discorso di Benedetto XVI a Ratisbona, in Germania, nel 2006, che provocò l'uccisione di fedeli cristiani in Iraq e in Somalia e attentati dinamitardi e sparatorie contro centri cristiani a Gaza e in Cisgiordania.
E ancora: la reazione a una vignetta sul profeta Maometto disegnata dall'artista e teorico dell'arte Lars Vilks, svedese, che ha portato a un piano per assassinarlo negli Stati Uniti (che includeva, tra gli autori, anche "Jihad Jane", la jihadista americana); la reazione a un film del politico di destra olandese Geert Wilders (come sottolineano Marshall e Shea, una delle poche persone, fra tutte quelle coinvolte in queste faccende, a manifestare realmente un'assoluta ostilità nei confronti dell'islam), che ha portato all'uccisione di un soldato olandese in Afghanistan; la reazione a un romanzo sentimentale della scrittrice americana Sherry Jones su una delle mogli di Maometto, che ha portato all'arresto di tre uomini che avevano tentato di appiccare il fuoco alla sede della casa editrice inglese (dopo che la Random House, negli Stati Uniti, aveva già fatto marcia indietro e scelto di non pubblicare il libro); la condanna di un uomo che aveva minacciato gli autori della serie televisiva South Park, anche se questi ultimi avevano deciso di recedere dal loro progetto di raffigurare Maometto in costume da orso; il pestaggio, a Oslo, di Kadra Noor, una femminista somalo-norvegese. E via discorrendo (ho limitato gli esempi ai casi di uccisioni o ferimenti di persone o arresti di sospetti terroristi e aggressori).
Casi di manifestazioni intellettuali o artistiche cancellate senza che fossero avvenute violenze o arresti sono diventati abbastanza comuni: la polizia olandese che ha raschiato via un murales contro l'omicidio di Van Gogh ad Amsterdam, la Whitechapel Art Gallery di Londra che ha rimosso alcune opere nel 2006, la Tate Gallery che ha cancellato una mostra, l'annullamento a Ginevra, nel 1993, di una rappresentazione della commedia di Voltaire Maometto ossia il fanatismo (seguito, una dozzina di anni più tardi, da una piccola rivolta quando la commedia di Voltaire è stata rappresentata in Francia), la rimozione delle vignette da un colto saggio sul caso delle vignette danesi pubblicato dalla Yale University Press, la cancellazione di un romanzo giallo tedesco sui delitti d'onore islamici nel 2009, la vignettista Molly Norris, del Seattle Weekly, che ha dovuto entrare in clandestinità dopo essere stata minacciata, la decisione di 800 quotidiani statunitensi di non pubblicare una vignetta di Wiley Miller. E così via. Le intimidazioni più significative naturalmente hanno colpito artisti e personaggi pubblici europei musulmani o di origine musulmana: il vescovo anglicano Michael Nazir-Ali, che si è convertito al cristianesimo; il coraggioso e moralmente scrupoloso giornalista italo-egiziano Magdi Allam, anche lui convertito (per mano nientemeno che del papa, tanto che ha preso come secondo nome Cristiano); la scrittrice e attivista Ayaan Hirsi Ali in Olanda, finché non ha lasciato il Paese; Necla Kelek, una femminista tedesca di origine turca; Ekin Deligöz, esponente politica dei Verdi tedeschi, anche lei di origine turca; Souad Sbai, la presidentessa dell'Associazione delle donne marocchine in Italia; e tanti, troppi altri nomi. Quasi tutte queste persone sono emigranti che dopo essere fuggiti dalla loro patria verso l'Europa si ritrovano costretti a fuggire di nuovo, e a volte a cambiare nome e farsi proteggere dalla polizia. Ci sono esempi in tal senso anche in Nordamerica: una campagna di minacce contro Tarek Fatah e i suoi colleghi del Canadian Muslim Congress, di orientamento riformista; le minacce contro la scrittrice canadese Irshad Manji, anche lei musulmana riformista; il pestaggio, sempre in Canada, di un giornalista di origine pachistana, Jawad Faizi; e la necessità per Ibn Warraq, perfino negli Stati Uniti, di adottare uno pseudonimo e muoversi con circospezione: Ibn Warraq è un brillante studioso di origine pachistana, autore di Virgins? What Virgins? e Perché non sono musulmano (quale sia il problema di Warraq lo si può capire già dai titoli dei suoi libri).
Potrei andare avanti, ma ho reso l'idea. I casi di storie di vite infelici come questi sono troppo numerosi per poterli liquidare come un fenomeno marginale.
La campagna antiblasfemia e antiapostasia nel frattempo ha fatto progressi su un altro terreno ancora, quello della legge. Cinquantasette Paesi in tutto il mondo aderiscono all'Oci, l'Organizzazione della cooperazione islamica (già Organizzazione della conferenza islamica), fondata dall'Arabia Saudita nel 1969. Non tutti i Governi dell'Oci sono di orientamento radicale, ma gli ideologi sembrano esercitare un'influenza sproporzionata. Nel 1990 l'organizzazione propose un sovvertimento totale della Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo. Il nuovo documento si chiamava «Dichiarazione del Cairo sui diritti dell'uomo nell'islam» e affermava: «Tutti hanno il diritto di esprimere la loro opinione liberamente in maniera non contraria ai principi della shari‘a». E l'Oci ha anche lanciato una campagna per persuadere le Nazioni Unite a inserire nel diritto internazionale il rispetto della shari‘a.
Vale la pena chiedersi perché l'Oci dovrebbe preoccuparsi di fare una cosa del genere, e perché, più in generale, il movimento radicale abbia spostato il fulcro della sua azione dal già grandioso progetto di risuscitare un antico impero a quello di evangelizzare il pianeta. Ma non c'è niente di così misterioso se ci si prende la briga di leggere alcuni dei classici della letteratura islamista. L'ideologia «estrema e perversa» non è semplicemente, come molti danno per scontato, un ritorno alle devozioni e alle amputazioni dei tempi degli avi. È un'ideologia moderna, e come molte altre manie totalitarie di questo secolo la sua perversità è legata a una paranoia. La dottrina postula una teoria del complotto secondo la quale crociati e sionisti starebbero cospirando da secoli per distruggere l'Islam (nel caso dei sionisti fin dai tempi delle controversie di Medina, nel VII secolo). Certo, probabilmente nei ministeri degli Esteri mondiali, o anche nei Governi degli Stati che fanno parte dell'Oci, non sono in molti a coltivare questa esotica fantasia dell'alleanza crociato-sionista in tutta la sua gloria. Ma come il liquido versato da un bicchiere, l'esotica fantasia è capace di insinuarsi nel tessuto convenzionale delle paure moderne, diffuse in tutto il mondo, sulla potenza dell'Occidente e l'arroganza dei suoi modi e delle sue intenzioni.
Marshall e Shea, nel loro rapporto sui diritti umani, citano le presentazioni di un funzionario delle Nazioni Unite dal titolo magniloquente di Relatore speciale sul razzismo, la discriminazione razziale, la xenofobia e l'intolleranza, che dal 2003 al 2008 è stato un giurista senegalese di nome Doudou Diène. Secondo Diène le persone in Occidente che esprimevano preoccupazione per l'estremismo islamico stavano montando una specie di aggressione razzista contro i musulmani. Il Relatore speciale era turbato dall'islamofobia, una forma di timore irrazionale o di intolleranza sostenuta da giustificazioni teoretiche e ideologiche. In un'ottica come quella di Diène, perfino una serie di vignette innocenti o maliziose pubblicate su un quotidiano poco noto di un minuscolo Paese europeo come la Danimarca poteva apparire come un'arma islamofobica di eccezionale potenza, assimilabile a un intervento imperialista contro i musulmani di tutto il mondo: anzi, un'arma vera, tesa a provocare danno. In questo modo, le paranoie medievali su crociati ed ebrei del VII secolo possono essere spacciate per sofisticate denunce di residue o rinascenti ambizioni imperialistiche. E l'Oci ha scoperto che una campagna antiblasfemia, adeguatamente riformulata, è in grado di attirare consenso ben al di fuori della cerchia delle delegazioni musulmane.
L'Oci ha lanciato infatti altre proposte, sottoposte alle Nazioni Unite, per condannare la diffamazione ai danni dell'islam, o "islamofobia", e queste proposte in certi casi sono sfociate in risoluzioni non vincolanti delle varie commissioni per i diritti umani dell'Onu o addirittura dell'Assemblea generale delle Nazioni Unite. Dopo un po', alcune democrazie occidentali hanno cominciato a irrigidirsi e le reazioni hanno indotto l'Oci a riformulare ingegnosamente le proposte, adottando un approccio più eclettico, per così dire, che consiste nel condannare in generale la diffamazione antireligiosa, come se dietro non ci fosse nessuna preferenza confessionale. Le risoluzioni condannavano "l'incitamento all'odio" e le "offese" nei confronti della religione, ma l'intento di fondo rimaneva invariato. Solo pochi mesi fa, nel novembre del 2011, un progetto iraniano, espresso nella «Dichiarazione e programma di azione di Teheran» del 2007, ha attirato altro consenso ancora, stavolta in favore di una risoluzione in difesa della "diversità culturale". Ma la retorica della "diversità culturale", come la retorica precedente sull'incitamento all'odio e le offese rivolte alle religioni in generale, rappresenta semplicemente un modo di più per chiedere la repressione con mezzi legali di qualunque cosa dia fastidio all'ideologia radicale.
Marshall e Shea sostengono con decisione che dopo tutti questi anni il progetto di mettere a tacere con mezzi legali le critiche in ogni parte del mondo è penetrato pian piano nel tessuto giuridico anche di Paesi che dovrebbero esserne immuni, e citano una serie di inquietanti episodi processuali, dalla causa intentata contro il più famoso romanziere francese, l'irriverente e scontroso Michel Houellebecq, obbligato a difendere di fronte a un giudice, nel 2002, il suo diritto di dichiarare l'Islam «la religione più stupida» (parafrasando quello che diceva Voltaire del cristianesimo, fra l'altro), ai problemi incontrati da uno dei più noti filosofi di Francia, il sobrio e rigoroso Alain Finkielkraut, anche lui oggetto di cause legali e perfino di minacce personali. È rassicurante ricordare che Houellebecq ha vinto la sua causa e che Finkielkraut è stato difeso nientemeno che da Nicolas Sarkozy: il repubblicanesimo francese non si abbasserà mai a irreggimentare le glorie della cultura transalpina. Ed è rassicurante anche apprendere che in Germania una rappresentazione dell'Idomeneo di Mozart, dove sono mostrate le teste recise di vari personaggi religiosi, fra cui anche il fondatore dell'islam, alla fine è andata in scena, dopo un momento di esitazione, in mezzo a un nervoso dispiegamento di poliziotti e scanner elettronici. Ed è rassicurante anche apprendere che negli Stati Uniti una piccola casa editrice si è fatta avanti per pubblicare il romanzo di Sherry Jones.
Vincere cause di questo tipo, però, può costare un bel po' di quattrini, e probabilmente una prospettiva del genere spegne in chiunque l'ardore per la difesa della libera espressione: è evidente nel caso dello scrittore canadese Mark Steyn, che ha dovuto difendersi a sue spese dalle querele, e nel caso di Daniel Scot, un pastore australiano che ha dovuto sostenere spese legali per centinaia di migliaia di dollari, secondo i suoi stessi calcoli. E poi c'è sempre la possibilità che una vittoria giudiziale, anche netta e incontestabile, lasci aperta la porta a sconfitte stragiudiziali: Marshall e Shea citano una causa del 2007, in Francia, contro il direttore del giornale satirico di sinistra Charlie-Hebdo, accusato di aver violato la legge per aver ripubblicato le vignette danesi, e debitamente assolto; ma pochi mesi fa, dopo che Charlie-Hebdo aveva annunciato un numero di satira sul movimento islamista, gli uffici parigini del settimanale sono stati devastati da un attentato incendiario.
Le questioni legali, e in parte anche gli episodi di violenza, mi sembrano comunque secondari rispetto a un fenomeno più generale (a livello mondiale) di autocensura del tutto volontaria, la tendenza a depotenziare certi argomenti giudicati sensibili o a evitare addirittura di pronunciare certe parole controverse, fingendo al tempo stesso di essere franchi e diretti. Tutti ormai avranno notato il velo di eufemismo che ha avvolto surrettiziamente la parola "moderato" quando questa viene applicata ai movimenti e ai leader islamisti. Un "moderato" è uno come Rachid Ghannouchi, il leader islamista tunisino, reduce dalla vittoria elettorale di ottobre, uno che nel corso degli anni ha parlato diffusamente delle «bande ebraiche, massoniche, sioniste e atee» e del «progetto satanico-talmudico» per creare un «nuovo ordine mondiale ebraico sulle rovine dell'ordine mondiale americano e occidentale», uno che ha definito le madri dei terroristi suicidi un «nuovo modello di donna» e più in generale ha parlato di «estinzione di Israele» o, in tempi più recenti e con terminologia più igienista, di «germe di Israele», da estirpare come la poliomielite. Ghannouchi è uno dei maggiori sostenitori mondiali di Hamas (gli islamisti palestinesi non sono mai stati molto ben forniti quanto a intellettuali, mentre Ghannouchi è un filosofo di grande cultura).
Anche Ghannouchi promette di rispettare le regole democratiche all'interno della Tunisia. Secondo gli standard islamisti, Ghannouchi è effettivamente un "moderato". Solo i germi del sionismo satanico-massonico devono temere lo sterminio per mano sua. Almeno per il momento! Ma come è possibile che la grande stampa occidentale abbia finito per accettare gli standard islamisti, al punto che ormai, da mesi, non passa quasi giorno senza dover leggere encomi della "moderazione" di Rachid Ghannouchi?
Esorto i più ottimisti fra i miei lettori a dare un'occhiata ai filmati su YouTube di un sermone tenuto dallo shaykh Yusuf al-Qaradawi in piazza Tahrir nel febbraio del 2011, di fronte a una folla enorme. Il suo sermone fu uno dei punti di svolta della Primavera Araba, il momento in cui i Fratelli musulmani finalmente decisero di mostrare i muscoli di fronte a un vasto pubblico. Al-Qaradawi è il religioso sunnita più conosciuto e ammirato nel mondo grazie alla sua trasmissione evangelica su al-Jazira, al di là del suo status di teologo capo dei Fratelli musulmani. In quell'occasione dedicò gran parte del suo sermone a celebrare la prima fase della nuova rivoluzione, esortando il popolo egiziano a proseguire nella sua lotta. Ma il discorso toccò l'apice quando si discostò dalle questioni egiziane per toccare il problema palestinese: Qaradawi pregò Dio di poter «assistere alla conquista della moschea di al-Aqsa» a Gerusalemme; in un'altra traduzione non si parlava di «conquista» ma di «apertura»: il senso però era chiaro, in tutti e due i casi.
Qaradawi è famoso per aver concesso una benedizione religiosa ai terroristi suicidi e alle politiche portate avanti da Hamas. Da questo punto di vista assomiglia a Rachid Ghannouchi, suo collega nel Consiglio europeo per la fatwa e la ricerca (ma Qaradawi è la figura di primo piano). Il titolo sbarazzino di «mufti delle operazioni di martirio» è qualcosa di cui Qaradawi si è autoinsignito in un accesso di humour macabro in diretta tv. L'invocata «conquista» o «apertura» della moschea di al-Aqsa, all'apice del suo sermone in piazza Tahrir, poteva significare soltanto il trionfo della jihad di Hamas. Qualcuno sostiene che non si sa che cosa comporterebbe una cosa del genere, ma è stato lo stesso Qaradawi a fornire qualche indizio: la jihad di Hamas significa il completamento di quello che Hitler cominciò molto tempo fa, agendo per conto di Dio; è un altro elemento del pensiero di Qaradawi, anche questo annunciato, insieme alla sua generale condanna del processo di pace, al suo sterminato pubblico televisivo. Quello che più mi colpisce del sermone di Qaradawi al Cairo è la reazione della folla a quelle ultime, accorate invocazioni. Una reazione oceanica. In alcuni di quei video sembra che un'onda gigantesca sollevi l'enorme piazza. Era qui che stava l'emozione rivoluzionaria: non per tutti gli egiziani, questo è ovvio, ma evidentemente per moltissime persone che hanno appena votato per uno dei partiti islamisti. Qui stava lo scopo della rivoluzione, apertamente dichiarato: non semplicemente il rovesciamento del faraone, ma la liberazione di Gerusalemme. La folla di piazza Tahrir è esplosa di emozione perché tantissime persone vedevano l'obbiettivo annunciato da Qaradawi come un'aspirazione trascendentale, una jihad spirituale e materiale al tempo stesso.
Eppure anche Qaradawi normalmente viene definito un "moderato". Perfino il suo sermone a piazza Tahrir è stato descritto e acclamato più volte come un esempio di "moderazione", senza il minimo accenno alla sua parte conclusiva. Come è possibile, quasi settant'anni dopo la sconfitta del nazismo, che un individuo del genere venga presentato come un "moderato", passando sopra alle sue invettive contro gli ebrei? E le omissioni tendono a essere sistematiche, come potete constatare con i vostri occhi leggendo alcuni dei saggi accademici più recenti, pubblicati dalle case editrici di prestigiose università, su persone come Qaradawi o Ghannouchi, o anche sul predecessore dell'uno e dell'altro, il teorico islamista Sayyid Qutb. I libri su questi personaggi sono scandalosi, nel loro complesso, per quello che omettono, vale a dire le espressioni più violente di fantasie e odi antisemiti. Silenced è il titolo del rapporto sui diritti umani di Marshall e Shea, e Self-Silenced dovrebbe essere il titolo da dare a un'analisi consuntiva di certi saggi di recente pubblicazione in Occidente.
Il problema dell'autocensura raggiunge livelli ancora più eclatanti. È la delicata questione di come i più potenti Governi occidentali siano arrivati a definire che cosa si può discutere e che cosa al contrario non può essere nemmeno menzionato. Così scrivono Marshall e Shea: «Nel 2008, negli Stati Uniti, il Dipartimento della Sicurezza interna e il Dipartimento di Stato hanno dato istruzioni ai loro dipendenti di evitare le parole "salafita", "wahhabita", "califfato" e "jihadista" in quanto considerate offensive dai musulmani se usate da non musulmani. Su raccomandazione di consulenti musulmani di cui non è stato fatto il nome si è anche rinunciato a usare la parola "libertà", sostituendola con "progresso". Nello stesso anno anche il ministero dell'Interno del Regno Unito ha smesso di usare il termine ‘terrorismo islamico', rimpiazzandolo con "attività anti islamica". Nel 2009, il segretario alla Sicurezza interna degli Stati Uniti ha sostituito ‘terrorismo islamico' con ‘disastri opera dell'uomo'. Il documento della Strategia di sicurezza nazionale degli Stati Uniti diffuso nel maggio del 2010, che pure negli anni precedenti diceva che ‘la lotta contro il radicalismo islamico militante è il grande conflitto ideologico dei primi anni del XXI secolo', ha rimosso ogni riferimento all'‘estremismo islamico'».
Notizie vecchie? Il libro di Marshall e Shea le fa sembrare nuove di zecca. I due autori dipingono un panorama mondiale fatto di censura e autocensura, e le scene di violenze e intimidazioni suggeriscono che dietro a questa propensione per un orwellianesimo burocratico, a Washington o a Londra, potrebbe esserci qualcosa di più di una semplice discrezione diplomatica. L'isteria indotta ad arte sulla blasfemia e l'islamofobia ha sicuramente assolto uno scopo militare. Proprio ora, dopo la pubblicazione del libro di Marshall e Shea, le proteste contro i roghi non intenzionali di copie del Corano avvenuti in Afghanistan in febbraio hanno provocato 29 morti fra gli afghani e l'uccisione di 6 soldati americani, e anche qualcos'altro: un fremito visibile fra gli alleati Nato in Afghanistan, un sentore di sconfitta militare.
Che cosa possiamo concludere? Se non altro una cosa, a proposito dei diritti umani: il movimento dei diritti umani ha sempre tenuto sotto osservazione l'operato dei Governi repressivi, ma oggi dobbiamo renderci conto che anche i movimenti politici e religiosi che non detengono il potere sono in grado di esercitare repressione su larga scala, e questa repressione va analizzata e denunciata. Dobbiamo porci un paio di interrogativi, difficili da quantificare, ma comunque inquietanti: riguardano non soltanto il diritto a pensare liberamente, ma anche l'abitudine a farlo, perché ci vuole poco a perderla; e non stiamo parlando solo di Paesi lontani, ma anche di casa nostra, qui nella land of the free. Ma se siete aggiornati sui risultati delle elezioni in Nordafrica e sulle guerre civili in varie parti del mondo arabo, forse avrete giù intuito che la campagna mondiale per reprimere le critiche nei confronti del movimento islamista, documentata da Marshall e Shea, è in procinto di fare un colossale e preoccupante scatto in avanti, molto al di là di quanto abbiamo visto finora.
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