Riportiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 28/04/2012, a pag. 54, l'intervista di Alessandra Farkas a Julie Orringer dal titolo " Julie Orringer: cerco un altro modo per far rivivere la tragedia ", l'articolo di Cynthia Ozick dal titolo " Ma io sono pentita delle mie 'finzioni' ".
Ecco i pezzi:
Alessandra Farkas - " Julie Orringer: cerco un altro modo per far rivivere la tragedia "


Julie Orringer Alessandra Farkas
NEW YORK — Nel recensire Il ponte invisibile di Julie Orringer (Einaudi, pp. 754, 22, traduzione di Cristiana Mennella e Alessandra Montrucchio) il «Washington Post» aprì una riflessione su come, dopo Elie Wiesel e Imre Kertész — ovvero la generazione dei sopravvissuti che ha raccontato in prima persona gli orrori della Shoah — «si assiste all'inevitabile transizione da una letteratura che può ricordare a una letteratura che può solo immaginare».
Il «Post» prese polemicamente in esame scrittori come la Orringer, il Safran Foer di Ogni cosa è illuminata e il David Benioff di La città dei ladri («i nipotini») che hanno scelto l'Olocausto come soggetto dei loro libri. Chi ricorda le accuse contro La vita è bella di Benigni e Schindler's List di Spielberg (tacciati di aver romanzato una delle pagine di storia più drammatiche, umiliando la memoria delle vittime) sa che la controversia non è nuova.
«Scrivere una poesia dopo Auschwitz è barbaro», ha scritto il filosofo tedesco Theodor Adorno. Ma con l'ineluttabile eclisse della generazione dei sopravvissuti è ancora lecito chiedersi — come ha fatto lo studioso dell'Olocausto Saul Friedlander — come si possa creare finzione artistica quando la verità è infinitamente più forte dell'immaginazione. Una «colpa», quella di aver «immaginato», che la 38enne Orringer ammette senza reticenze nel parlare del suo primo, acclamato romanzo che il «New York Times» ha inserito nella top 100 dei «Libri più importanti del 2010», paragonandolo al Dottor Zivago.
Il ponte invisibile è una grande storia d'amore ambientata tra Parigi e Budapest, alla fine degli anni 30, sullo sfondo dell'Olocausto in Ungheria. Protagonista è András Levi, secondogenito di una modesta famiglia ungherese ebrea che dal villaggio di Konyar si trasferisce prima a Budapest e poi a Parigi per frequentare, grazie a una borsa di studio, la prestigiosa École spéciale d'Architecture dove studia con Pierre Vago e Gustave Perret e incontra Le Corbusier e Pingusson.
Mentre il fratello maggiore Tibor va a studiare medicina a Modena e Matyas, il più giovane, intraprende la carriera teatrale nella natia Ungheria, nella Ville Lumière András s'innamora della misteriosa insegnante di danza Klara Morgenstern, ungherese ed ebrea come lui, di nove anni più vecchia e dal passato oscuro (e molto più privilegiato del suo). Le vite di András, Klara e degli altri protagonisti del romanzo verranno segnate dall'incalzare di eventi tanto imprevedibili quanto tragici, a dimostrazione di come la storia, con le sue circostanze spesso fortuite, possa incidere sulla sorte dei singoli.
«Solo il 10% del libro è autobiografico», spiega l'autrice, che vive a Brooklyn col marito scrittore Ryan Harty e il figlioletto di 20 mesi. Tutto inizia nel 2000, quando la Orringer, allora 26enne, scopre che, prima della guerra, il nonno materno aveva studiato architettura a Parigi ma era stato costretto ad abbandonare l'università perché richiamato in patria e spedito ai lavori forzati. «Quando lo seppi nonno era già anziano e ritenni ingiusto aver rischiato di non conoscere mai la sua storia». Andrew Tibor (che anche nella realtà cambiò in cognome da Levi in Tibor per onorare il fratello morto in guerra) è scomparso nel 2006, a 87 anni, prima della pubblicazione del libro cui lavorò per quattro anni, insieme alla nipote. Ma le «fonti» della Orringer sono anche altre. «Le opere di Imre Kertész, un autore che ammiro e spero tanto legga il mio libro». E il Shoah Project di Spielberg, «risorsa straordinaria perché non c'è nulla di più prezioso per uno scrittore di Olocausto dei racconti dei testimoni».
«Avevo bisogno di imparare, per poi ricreare emozioni, dettagli ed eventi, ovviamente entro i limiti oggettivi dell'essere separata dal mio materiale da un muro di sette decenni e tre generazioni». Il romanzo (che nello stile «s'ispira a Guerra e pace di Tolstoj, Middlemarch di George Eliot, Middlesex di Jeffrey Eugenides e Le fantastiche avventure di Kavalier e Clay di Michael Chabon) fa luce sul destino degli ebrei in Ungheria, un paese definito dagli storici «inusuale» tra gli alleati del Terzo Reich.
«Se da un lato rimosse tutti i loro privilegi e libertà fondamentali, dall'altro l'allora governo dell'ammiraglio Miklós Horthy cercò di proteggere i "suoi" ebrei dalla deportazione nei lager nazisti perché li riteneva indispensabili per la sopravvivenza economica e culturale dell'Ungheria». Privatamente — questo la Orringer non lo dice — Horthy era un antisemita convinto. «È intollerabile — scrisse in una lettera ad uno dei suoi ministri —, che qui in Ungheria ogni fabbrica, banca, teatro, azienda, giornale e fortuna sia in mani ebraiche».
Ma Horty era anche un opportunista. E nonostante gli ebrei rappresentassero solo il 5% della popolazione, la loro influenza e ricchezza erano straordinarie. Basta pensare che nella Budapest tra le due guerre l'88% dei soci della Borsa e il 91% dei broker erano ebrei, molti tra loro con titoli nobiliari. Nello stesso periodo quasi il 90% delle industrie del Paese era gestito da ebrei il cui ruolo era prevalente anche in altre importanti carriere professionali quali dottori (60%), avvocati (51%), giornalisti (34%) e musicisti (29%).
«I battaglioni di ebrei che come supporto all'esercito regolare venivano inviati ai lavori forzati, negli altri Paesi non esistevano — puntualizza Orringer —. All'inizio questi paramilitari ebrei erano addirittura pagati, nutriti e alloggiati. E indossavano la divisa delle forze armate ungheresi». Ma con l'ascesa del famigerato capo del Partito delle croci frecciate Ferenc Szálasi la situazione precipita.
Eppure nel libro c'è sempre l'ufficiale ungherese magnanimo e illuminato che salva in extremis l'ebreo dalle sgrinfie dell'antisemita di turno. Fiction revisionista o realtà? «Anche in Israele mi hanno chiesto scettici se gli ungheresi buoni del libro sono ispirati a persone vere — ribatte l'autrice —. Negli archivi della comunità ebraica di Budapest ho scoperto che chi è sopravvissuto a quei campi lo deve al gesto di umanità del singolo gerarca». Uno dei personaggi più memorabili e tragici del libro è Ilana di Sabato, la moglie fiorentina di Tibor. «Un'altra mia invenzione — spiega —. M'interessava includere un personaggio deciso a mettere in discussione l'educazione tradizionale dei genitori. Quando ho visitato Firenze nel 1999 rimasi colpita dalla bellezza e dalla storia della comunità ebraica e mi ripromisi di incorporarla nel libro».
Completamente inventato è anche Eli Polaner, il gay compagno di corso di András a Parigi. «È nato per caso mentre ero in vacanza con mio marito a Big Sur e lungo la highway numero 1 vidi il segnale stradale per la Henry Miller Library. Nel piccolo museo californiano trovai un libricino sulla vita gay a Parigi negli anni Trenta. Dopo averlo letto non ebbi alcun dubbio: Polaner era gay».
In Ungheria il libro è stato accolto con grande favore anche dalla destra, «forse perché non sostiene alcuna posizione politica e si limita a fotografare degli esseri umani». Nella capitale magiara si è ritrovata a fare i conti con l'animo tenebroso di una nazione la cui attrazione morbosa per l'estrema destra continua a preoccupare l'Europa. «L'antisemitismo in Ungheria resta diffusissimo. I miei coetanei hanno tutti scoperto di essere ebrei in età adulta, perché la famiglia riteneva pericoloso o infamante parlarne».
Per lei, al contrario, la Shoah è ormai un lavoro a tempo pieno. «Il mio prossimo libro sarà ambientato in Francia durante la guerra: è la storia del giornalista americano Varian Fry che, segretamente appoggiato da Eleanor Roosevelt, andò a Marsiglia nel 1940 per salvare un gruppo di 200 artisti e scrittori nella lista nera della Gestapo e alla fine ne salvò 2 mila tra cui Marc Chagall, Hannah Arendt e Max Ernst, aiutandoli a scappare attraverso Lisbona».
Orringer torna insomma a nascondersi dietro un altro personaggio maschile, ripudiando il popolare trend diaristico in voga tra i suoi coetanei. «Il potere più grande della fiction è trasportarti dentro la mente di un altro essere umano — dice —. Se lo scrittore non è capace di calarsi nei panni di un altro, neppure il lettore ci riuscirà».
Cynthia Ozick - " Ma io sono pentita delle mie 'finzioni' "

Cynthia Ozick
E' lecito «inventare» quando si scrive di Olocausto? Io l'ho fatto in maniera molto esplicita in The Shawl e me ne sono pentita. Più recentemente sono tornata a farlo indirettamente e in misura marginale quando, in Foreign Bodies, ho dedicato una frase alle atrocità in Transnistria, affidandomi alle conoscenze storiche del lettore. In linea di principio sono contraria alla mito-poetizzazione dei crimini e massacri tedeschi, soprattutto quando la malvagità dei negazionisti li ha già dichiarati «finzione». Per conoscere la verità sulla Shoah mi affido alla miriade di documenti e testimonianze che, incredibilmente, continuano a proliferare. Eppure sembra impossibile fermare l'alluvione di storie, racconti, poesie e opere teatrali: l'immaginazione letteraria non può essere messa a tacere! Ma se questa letteratura deve esistere, che abbia almeno onestà, sincerità e intento. Anne Frank nei panni di una vecchia megera nell'attico? Videogame postmoderni a base di ebrei trucidati? Forse. Ma se scrivere fiction significa entrare in un mondo di totale libertà, l'autore alla fine deve convivere col proprio senso di colpa, se lo possiede, per aver tradito, in nome di... che cosa? L'audacia? La destrezza? L'ingenuità e spavalderia letterarie? Lo sfoggio del proprio super acuto talento ironico? O dell'ultima idea, più interessante di tutte le altre?
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