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Partecipare alla marcia dei vivi vuol dire alzare un inno alla vita mentre si guarda in faccia la morte. La marcia dei vivi comincia al cancello di Auschwitz, dalla parte interna del cancello, la terribile scritta Il lavoro rende liberi, si legge al contrario, e poi procede. Si fanno a piedi i tre chilometri che separano Auschwitz da Birkenau, il luogo descritto ne L’ultimo dei giusti. Era il luogo dove c’era Menghele o un altro medico che con un gesto stabiliva se si poteva morire subito o se la morte una andava di un qualche numero di giorni da schiavo del terzo Reich. La differenza era tra una morte immediata e terribile e una morte differita e terribile. Non la scelta tra la vita e la morte. Ho fatto questi 3 chilometri circondata da migliaia di persone, molti adulti, certo, ma la stragrande maggioranza ragazzi. Molti sono ragazzi israeliani, altri sono semplicemente ebrei. C è una particolare commozione dentro di me quando guardo ragazzi ebrei, perché sono ragazzi che secondo Hitler non avrebbero dovuto esistere, che secondo il dittatore iraniano, secondo Hamas non dovrebbero esistere. E invece ci sono e marciano addolorati e felici con la loro bandiera, la bandiera di una nazione che si è forma a sola contro tutti, con il proprio coraggio. Un nazione che si è formata acquistando i terreni, terreni disabitati, per metà desertici, par metà paludosi. Terreni acquistati e poi, a prezzo di fatiche indescrivibili, a costo di morti di malaria, consunzione ed epidemie, sono state rese un giardino. Cammino lentamente , perché di fianco a me c’è la signora Fulvia, che ora vive a Gerusalemme, ma che apparteneva al ghetto di Roma. La signora Fulvia si è salvata per caso, un puro caso, un minuscolo colpo di fortuna, ma 16 dei suoi congiunti sono partiti, sedici, ed ora sono qui, le loro ceneri mischiate con la terra che la palude sta invadendo di nuovo questo luogo. I loro capelli sono forse in mezzo all’ultimo carico di capelli mai partiti, quelle due tonnellate che sono ancora qui, ormai scoloriti. L’analisi chimica di questi capelli ci ha detto che sono intrisi di cianuro: le persone cui appartenevano sono state gasate con il Zitron B: tutti i negazionisti vengano a vedere questi duemila chili di capelli. Una signora cecoslovacca ci ferma e ci dice nel suo zoppicante inglese che quella baracca era la sua. Lei è stata liberata a 14 anni. Lei era morta, ridotta a un numero in attesa della morte, ed è ritornata una persona. Camminiamo in silenzio, mentre l’altoparlante scandisce i nomi dei bambini uccisi. Alla fine c’è una cerimonia straordinaria dove 12.000 persone ci hanno detto che tutto questo non succederà mai più e le loro voci hanno intonato il bellissimo canto che vuol dire Speranza. Silvana De Mari |
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