Sulla STAMPA di oggi, 22/04/2012, a pag.21, con il titolo "Ma non è Primavera per le vignette", Francesca Paci commenta la repressione nei paesi arabi, dove disegnare una vignetta può costare la vita. E' la prima volta che un quotidiano a diffusione nazionale, tra quelli che in genere chiudono un occhio -spesso tutti e due - su quanto avviene nelle società arabo-musulmane - affronta il problema della repressione del pensiero e delle conseguenze che comporta. Speriamo sia l'inizio di un cambiamento di propsettiva più generale.
Ecco l'articolo:
ma questa vignetta nessun quotidiano ha avuto il coraggio di pubblicarla, nemmeno La Stampa, che ha illustrato la pagina con una scelta di vignette tutto sommato 'tranquille'.
Un paio di giorni prima delle ultime elezioni tunisine i blogger protagonisti della rivoluzione del 14 gennaio diffusero, tra le altre, una vignetta raffigurante tre scatole: sulla prima c’era scritto «Partito politico 1», sulla seconda «Partito politico 2» e sulla terza «Dio». Pur consapevole di non avere più a che fare con lo scarso senso dell’umorismo del presidente Ben Ali, l’autore si firmava «W», confermando la tesi del connazionale e collega «Z» secondo il quale nel mondo arabo l’unica difesa da censura e autocensura è l’anonimato.
Vinsero i Fratelli Musulmani e, in barba all’annuncio di un’era islamica moderata, due settimane fa i cartoonist Jabeur Mejri e Ghazi Beji sono stati condannati a sette anni di prigione per «blasfemia online»: avevano disegnato su Facebook Maometto nudo.
Sin dall’oscuro omicidio del palestinese Naji al-Ali, il padre del fumetto Handala ucciso a Londra nell’87, i vignettisti non hanno mai avuto vita facile in Medioriente. L’umorismo lega poco con dittature militari, teocrazie e conflitti che si autoalimentano. E se da qualche anno Internet ha messo le ali alle matite alla George Grosz, trasformandole nei megafoni della primavera araba, il diritto all’irriverenza volterriana resta una chimera.
«I caricaturisti spaventano i tiranni più dei giornalisti, perché si rivolgono agli intellettuali ma anche agli analfabeti e oggi, grazie ai social network, possono fare a meno di una testata che li pubblichi» nota il cartoonist egiziano Sameh Samir. In una delle prime illustrazioni circolate in piazza Tahrir alla caduta del regime, l’ex presidente Mubarak chiede a Gheddafi e al re saudita Abdullah: «Quanti nemici avete voi su Facebook?».
Scherzare sul potere equivale a una bestemmia in Paesi come l’Arabia Saudita, che rompe i rapporti diplomatici con la Danimarca dopo l’uscita delle vignette sul Profeta, l’Iran parodiato da Marjane Satrapi o la Libia della fu Jamaria, dove un anno fa l’artista Kais al Hilali veniva freddato da un cecchino mentre affrescava il faccione del Colonnello su un muro di Bengasi.
«A Beirut siamo liberi di criticare il potere ma nel resto del Medioriente, almeno fino alle rivoluzioni del 2011, si potevano prendere in giro solo Israele e Stati Uniti» ammette Stavro Jabra, decano degli umoristi libanesi. Indipendentemente da come evolverà la situazione, la sete di democrazia ha emancipato la grafica.
«Da quando ho rotto il muro della paura c’è una forte connessione fra la mia arte e le strade siriane» racconta ad «Al Jazeera» Ali Ferzat, la mano più spiritosa di Siria. Anche Bashar al Assad la apprezzava finché, dopo la morte dell’«usignolo della rivoluzione» Ibrahim Qashoush trovato sgozzato nel fiume Oronte il 4 luglio 2011, non ne è diventato il bersaglio.
Ora che vive in Kuwait, Ferzat rivendica il ritratto del presidente nell’atto di dipingere anziché costruire i binari del treno chiamato «riforme». Deve a illustrazioni come quella la frattura delle dita: «Mi hanno attaccato nel centro di Damasco, nessuno è intervenuto. L’indagine annunciata dal ministero per trovare i colpevoli è svanita così».
Se il maggio francese teorizzava che una risata avrebbe sepolto i potenti, la neofita primavera araba improvvisa. I bersagli sono infiniti, suggerisce lo yemenita Kamal Sharaf, fustigatore a costo della galera dell’ex presidente Saleh così come dello status quo socio-culturale che, per ora inossidabile, gli è sopravvissuto.
Anche Omayya Juha, pioniera delle cartoonist palestinesi, affida all’ironia l’urlo di una Gaza che soffoca tra il blocco israelianoelastoricaipocritasolidarietà araba. Certo, come molti colleghi, non apprezzerebbe il paragone con il proverbiale spirito yiddish, ma quando sarà possibile criticare Hamas una risata travolgerà anche questo tabù.
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