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La Stampa Rassegna Stampa
12.04.2012 Siria, come si può prendere sul serio Bashar al Assad ?
analisi di Vittorio Emanuele Parsi, sempre confuso sulla capitale israeliana

Testata: La Stampa
Data: 12 aprile 2012
Pagina: 1
Autore: Vittorio Emanuele Parsi
Titolo: «Il dittatore non si fermerà e l'America non può trattare»

Riportiamo dalla STAMPA di oggi, 1-37, l'articolo di Vittorio Emanuele Parsi dal titolo " Il dittatore non si fermerà e l'America non può trattare ".


Vittorio Emanuele Parsi

L'analisi che segue mette in rilievo quanto poco efficace sia la via negoziale con la Siria di Assad. Peccato che, poi, non arrivi a definire quale linea dovrebbe seguire l'Occidente di fronte ai massacri perpetrati dal regime e peccato per quel 'Tel Aviv' capitale di Israele. Parsi lo fa di proposito o sul serio ignora che la capitale di Israele è Gerusalemme ?
I nostri lettori glielo chiedano, please: lettere@lastampa.it
Ecco il pezzo:

Per capire quali chance effettive ha di radicarsi la tregua annunciata per oggi in Siria, è sufficiente porsi una semplice domanda. Esiste una sola buona ragione al mondo Basha el Assad dovrebbe dire sì alla trattativa?
Per cui uno spietato dittatore, un personaggio sicuramente spregevole ma probabilmente tutt’altro che sprovveduto dovrebbe acconsentire ad avviare un dialogo con i ribelli o anche soltanto prendere in seria considerazione la proposta di cessate il fuoco avanzata dall’inviato speciale delle Nazioni Unite, l’ex Segretario generale Kofi Annan? La risposta, altrettanto semplice ma desolante, è no. Chi invoca la via negoziale (dalla Lega araba alle Nazioni Unite, dalle potenze occidentali al fronte composito degli oppositori), ognuno con la sua propria idea della Siria post-Assad, è infatti diviso su tutto, tranne che su una cosa: il dittatore se ne deve andare e il regime deve finire. Un’opinione ampiamente condivisibile, intendiamoci, ma una pessima base negoziale. Assad e il regime che rappresenta dovrebbero graziosamente farsi da parte «per il bene del Paese», un argomento assai poco efficace nei confronti di un tiranno che di fronte a richieste ben più moderate, tredici mesi fa, non esitò a far sparare sulla folla, a far torturare a morte dei bambini, gettando i presupposti della guerra civile odierna.

La stessa richiesta di un provvisorio cessate il fuoco appare priva di senso, dal punto di vista del regime, considerato che storicamente le tregue han sempre favorito i più deboli e mai i più forti. E in termini militari, almeno per ora, il regime è decisamente più forte dei ribelli. Perché mai dovrebbe accettare di allentare la brutale pressione che sta esercitando da oltre un anno, che rappresenta ancora la carta migliore a sua disposizione? Non certo per evitare altre stragi, giacché la strategia stragista è stata quella deliberatamente perseguita dagli apparati di sicurezza, allo scopo di terrorizzare i nemici, ammonire minacciosamente gli incerti e stringere maggiormente a sé i fedeli, trasformandoli in complici di un vero e proprio bagno di sangue. La strategia tipicamente terroristica del regime ha infatti freddamente puntato sulla radicalizzazione dello scontro, di cui l’esacerbazione della violenza è componente essenziale, anche al fine di scavare un vallo di sangue tra i sostenitori e gli oppositori. Ha scelto l’escalation nella consapevolezza che, se questa non fosse bastata a schiacciare la rivolta, avrebbe comunque favorito l’emergere tra gli oppositori delle leadership più estremiste, così spingendo sotto le «ali protettrici» del regime tutte le minoranze della composita e frammentata società siriana, preoccupate che la fine del regime della famiglia Assad implichi l’avvento di un potere islamista sunnita: ipotesi per nulla peregrina.

Assad non ha alternative al continuare a combattere, attento solo a non irritare irreparabilmente i suoi due protettori che contano: Russia e Cina. Questo spiega la pantomima delle dichiarazioni moscovite del suo ministro degli Esteri e, più in generale, il balletto nei confronti delle iniziative dell’Onu e della Lega Araba. La Russia sarebbe probabilmente la sola in grado di esercitare un’azione moderatrice su Damasco, a patto però di poter offrire qualcosa al rais di diverso dalla resa senza condizioni. Cosa che la Russia, evidentemente, potrebbe fare solo con l’accordo degli Stati Uniti. Ma l’America di Obama, in piena campagna presidenziale, non può permettersi di mostrarsi «debole» con Damasco, tantopiù di fronte ai rischi che potrebbero derivare se una simile lettura dovesse prevalere a Teheran o Tel Aviv. Un’America che si mostrasse o fosse percepita irresoluta o debole finirebbe col perdere qualunque (residua) capacità di deterrenza sulla crisi ben più complicata legata alle scelte nucleari iraniane. Senza contare che avallare ora una via effettivamente negoziale nei confronti di Damasco significherebbe scontentare tutto il mondo arabo che, da Doha a Ryad, dal Cairo a Gaza, ha scaricato Assad. Oltretutto, un simile cambiamento di strategia mostrerebbe ancora una volta come Washington si è mossa durante tutto l’arco di crisi delle «Primavere arabe» senza coerenza strategica, azzoppata anche dal fatto di avere un segretario di Stato con ambizioni presidenziali, che in ogni scelta deve tener d’occhio non solo questa scadenza elettorale ma anche la prossima.

Il punto debole di tutto l’armamentario di «proposte negoziali» e «minacce» avanzate nei confronti di Assad è che esse vengono avanzate come se qualcuno fosse pronto a intervenire nel caso esse venissero rifiutate, come se fossero un ultimatum, mentre sono solo un bluff. Ed è la consapevolezza di questa debolezza, che fa forte Assad, quasi più di quanto lo facciano i suoi tanks e i suoi pretoriani.

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