Usa/Pakistan, rapporti sempre più deteriorati Quale ruolo ricopre il Pakistan nella lotta al terrorismo ?
Testata: Il Foglio Data: 05 aprile 2012 Pagina: 3 Autore: Redazione del Foglio Titolo: «Così un ricercato d’oro in Pakistan si prende gioco dell’America»
Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 05/04/2012, a pag. 3, l'articolo dal titolo "Così un ricercato d’oro in Pakistan si prende gioco dell’America".
Usa/Pakistan
Milano. Esperti, commentatori, persone informate sui fatti discutono da tempo – da sempre – dello stato delle relazioni tra America e Pakistan, cercando di tirar fuori dai dettagli un’analisi veritiera. In realtà, bastava guardare ieri che cosa accadeva a Rawalpindi, enorme città pachistana a due passi da Islamabad, vicino al quartier generale dell’esercito pachistano. Hafiz Muhammad Saeed, sessantunenne fondatore del gruppo miliziano Lashkar-e-Taiba, ha riunito i giornalisti in una conferenza stampa in cui ha spiegato che gli americani stanno cercando di tappargli la bocca per evitare che lui convinca il governo pachistano a non riaprire i passaggi agli approvvigionamenti della Nato (che come si sa sono imprescindibili per il funzionamento delle forze alleate in Afghanistan). Soprattutto Saeed ha voluto fare un plateale affronto agli Stati Uniti. Martedì infatti Washington aveva messo una taglia da dieci milioni di dollari sulla testa di Saeed, un ammontare colossale, degno del Mullah Omar e di nessun altro: Saeed è accusato di aver organizzato l’assedio e la strage di Mumbai nel 2008, è uno dei più noti insider del tremendo servizio di intelligence pachistano, va spesso a pranzo con i generali dell’esercito di Islamabad, e soprattutto è una star degli show televisivi, dove esprime indisturbato le sue opinioni. Ancora ieri ha detto perfido, smentendo il suo coinvolgimento a Mumbai: “Non capisco come mai gli americani abbiano così poche informazioni su di me: non vivo mica nelle caverne o sulle montagne, io”. Il mito delle montagne peraltro è stato smentito – se mai ce ne fosse stato bisogno – dalla testimonianza di una delle mogli di Bin Laden catturate ad Abbottabad nel blitz in cui il leader di al Qaida è stato ucciso (le altre due mogli non hanno voluto parlare perché è contro la loro religione avere contatti con uomini sconosciuti) e che ora sono state condannate a sei settimane di carcere e poi alla deportazione nei loro paesi di origine. Amal Ahmad Abdul Fatah, yemenita, la più giovane delle mogli, ha invece aperto bocca e ha raccontato la vita quotidiana con l’uomo più ricercato del mondo – vivo o morto. Si sono sposati nel 2000 perché lei voleva tanto “sposare un mujaheddin”. Nel luglio di quell’anno si sono trasferiti a Kandahar, e lì erano quando c’è stato l’attacco alle Torri gemelle a New York. Poi hanno iniziato a girare, rigorosamente in Pakistan (e intanto le forze alleate bombardavano ogni caverna di Tora Bora), tra Karachi, Peshawar e Rawalpindi, grazie al sostegno di alcune famiglie pachistane. Sono anche stati sulle montagne, ma non quelle che sono state colpite dagli attacchi. Dal 2003 al 2006 Abdul Fatah ha dato alla luce quattro figli, partoriti in ospedali statali, anche se pare che la questione sia stata risolta in fretta, “2-3 ore con un documento di identità falso”. Nel 2003 la famiglia si è trasferita a Haripur, una piccola cittadina vicino a Islamabad, dove è rimasta in affitto per due anni, prima di arrivare – finalmente – ad Abbottabad. Questo racconto non è per nulla rassicurante, se si pensa che quelli erano gli anni considerati idilliaci. Ma oggi i rapporti sono ancor più sgretolati. Come spiega Ahmed Rashid nel suo ultimo libro, “Pakistan on the Brink: The Future of America, Pakistan and Afghanistan”, la politica di sostegno agli islamisti da parte del Pakistan impedisce la possibilità di trovare un accordo con Kabul e tra Kabul e i talebani e aumenta il rischio di guerra civile. L’America pensa che con il ritiro e con un alleato un po’ instabile ma pur sempre alleato ci sia una via per la transizione. Ma non c’è. Ed è inutile credere che cambierà qualcosa innamorandosi di Imran Khan, “un leader moderato” come viene definito, più per wishful thinking che per reale moderazione: per la New York Review of Books, Kahn è già “il Kennedy del Pakistan”.
Per inviare la propria opinione al Foglio, cliccare sull'e-mail sottostante