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Il Foglio Rassegna Stampa
29.03.2012 Strage di Tolosa, l'Occidente ha paura di parlare di islamismo ?
commento di Giulio Meotti, Pierre-André Taguieff intervistato da Marina Valensise

Testata: Il Foglio
Data: 29 marzo 2012
Pagina: 5
Autore: Giulio Meotti - Marina Valensise
Titolo: «Merah, eroe di questi tempi - Ecco perché la Francia non riconosce di essere un’incubatrice del jihadismo. Parla Taguieff»

Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 29/03/2012, a pag. I, l'articolo di Giulio Meotti dal titolo "  Merah, eroe di questi tempi", l'intervista di Marina Valensise a Pierre-André Taguieff dal titolo " Ecco perché la Francia non riconosce di essere un’incubatrice del jihadismo. Parla Taguieff ".

Giulio Meotti - " Merah, eroe di questi tempi "


Giulio Meotti, Mohamed Merah

Caroline Glick, senior editor del quotidiano israeliano Jerusalem Post, ce lo spiega così: “Mohammed Merah non è un lupo solitario, aveva molti complici e alcuni non sono neppure musulmani. La reazione dell’occidente è stata quella della negazione”. Sulla strage di Tolosa è in corso un’operazione di dissimulazione che passa attraverso la costruzione di un grande equivoco. Un musulmano francese ha imbracciato un mitra e ha falciato tre paracadutisti, spiegando che “uccidere un soldato francese in Francia ha lo stesso impatto che uccidere dieci soldati francesi in Afghanistan”. Voleva far scorrere il sangue di chi combatte i suoi fratelli talebani a Kabul. Poi Merah ha ucciso un rabbino, i suoi due figli e un’altra ragazzina, nipote del rabbino capo del Marocco, di fronte a un noto istituto per lo studio della Torah.
Nelle ore che hanno preceduto l’irruzione delle unità di élite nel suo appartamento a Tolosa e lo scontro a fuoco che ha portato alla sua morte, giovedì scorso, Mohammed Merah ha dichiarato di non aver accettato una missione suicida di al Qaida perché voleva “restare in vita”, potendo moltiplicare gli attacchi che – come ha avuto modo di dire lui stesso – “hanno messo la Francia in ginocchio”. Merah non ha polverizzato il suo corpo per impartire la morte, ha voluto guardare le sue vittime negli occhi, le ha finite con un colpo alla testa, le ha filmate persino, le ha sterminate per quel che erano e sono: soldati ed ebrei. Simbolicamente, la salma di Merah sarà interrata in Algeria, terra islamica dove vive il padre, mentre le sue vittime ebree sono state già sepolte in Israele, un pegno che gli islamisti come Merah intendono spazzare via dalla carta geografica.
A conferma che Merah un’eccezione non lo era, sui siti internet islamisti si inneggia al “martirio del fratello Mohammed Merah”, definito “il terrorizzatore di Francia”. Scrive un commentatore: “Per ucciderlo la polizia ha dovuto sparare più di 300 pallottole”, mentre altri hanno ricordato che “l’assedio è durato più di 33 ore”. L’amministratore del forum el Shumukh ha scritto una preghiera in suo onore: “O Allah, accettalo in paradiso nei piani più alti tra i profeti, gli uomini pii e i martiri”. Eppure una parte della stampa europea, dei suoi intellettuali blasonati e della sua classe dirigente sta cercando di fare di Merah un caso psichiatrico. Si dice che aveva divorziato due giorni prima della strage degli ebrei di Tolosa. Si dice che non aveva un lavoro.
Si dice che “delirava” e che, come un qualunque serial killer, “provava piacere a uccidere”. Ieri abbiamo reso note le idee di Tariq Ramadan, che ha fatto di Merah un simbolo dell’alienazione sociale che cova nelle periferie francesi. I giornali francesi si sono costruiti una dicotomia confortante: “L’ignoble criminel, et la France raciste”. Merah sarà anche colpevole, ma la Francia è razzista e se l’è cercata. L’equivoco passa attraverso la costruzione di una paranoia. E’ facile perorare persino l’innocenza dell’attentatore parlando di una “situazione familiare problematica” o di una “condizione sociale poco invidiabile”. Se lo stragista è un “mostro”, le sue vittime sono cadute non in nome di un odio religioso e politico, ma dell’“orrore”, la parola più abusata e banalizzante nel caso Merah.
Ha scritto il filosofo francese André Glucksmann: “A poco a poco riaffiora il pregiudizio che i responsabili ufficiali siano responsabili di tutto: se la repressione avesse represso ‘in tempo’, se le autorità poliziesche, municipali, pedagogiche, psicologiche, mediche non avessero trascurato il caso di un ragazzo alla deriva, se i giovani dei quartieri difficili beneficiassero di cure intensive e di una sorveglianza continua, certo, c’è da giurarlo con la mano sul cuore, avventure così nauseabonde sarebbero bloccate sul nascere! E ognuno brandisce il proprio rimedio-miracolo – giuridico, sociologico o coercitivo – capace di proteggere la Francia dall’orrore”. E così la responsabilità si sposta, l’omicida non è più che un “ragazzo smarrito”, mentre si scopre che la Repubblica francese e le sue debolezze sono le fonti della strage. “Il carnefice è una vittima, le vittime sono carnefici. Soprattutto, non mettetevi in testa che un individuo di ventitré anni sia responsabile delle proprie azioni, l’omicida uccide solo perché prima è già stato ucciso spiritualmente, socialmente, psicologicamente; ucciso da una società razzista, non egualitaria, repressiva e così via.
Che la Francia se la prenda con se stessa! Quando si uccidono i suoi soldati (due volte traditori perché di origine maghrebina), quando si assassinano a bruciapelo i suoi bambini (mille volte colpevoli perché ebrei), è colpa sua”. Secondo la leader del Front national candidata alle elezioni presidenziali di aprile in Francia, Marine Le Pen, il pericolo fondamentalista viene “volontariamente minimizzato dal potere” e “si cerca di chiudere la parentesi Merah sostenendo che si tratta di un’eccezione”. La minimizzazione dell’attentato ha dato il destro a chi, come Le Pen, non conosce mediazioni e dichiara una guerra all’immigrazione tout court. Douglas Murray, commentatore per il Wall Street Journal e il Daily Telegraph, autore di saggi sull’Europa e direttore del Centre for Social Cohesion, è stato uno degli ispiratori intellettuali della svolta sul multiculturalismo del primo ministro inglese, David Cameron. Parlando al Foglio, Murray decifra l’operazione culturale in corso su Tolosa: “Quando all’inizio si pensava che l’attentatore fosse un neonazista, i media hanno subito costruito la figura del colpevole per eccellenza, tirando fuori persino fotografie con saluti fascisti e tatuaggi. C’è chi ha persino detto che veniva dalla destra, che era a vantaggio politico di Nicolas Sarkozy. Quando si è capito che l’assassino era un jihadista, è calato un gran silenzio sulla vicenda. E’ scattata l’operazione negazione. Allora la stampa si è inventata il ‘lupo solitario’”.
Secondo Murray, il fenomeno è ideologico e culturale. “E’ la malattia dell’occidente, una cecità ripetitiva di fronte a ciò che ci sta di fronte. E’ una totale mancanza di volontà nel comprendere il problema del multiculturalismo e dell’estremismo islamista che cresce nella nostra società. Alla fine, è il grande narcisismo che porta a pensare subito ‘siamo stati noi’. C’è una ostilità e una denigrazione ultra liberal verso la denuncia in Europa dell’islamismo, che viene bollata come ‘islamofobia’. Su Tolosa l’uso delle parole è stato decisivo per ammorbidire l’identità dell’attentatore. Hanno tentato di trovare delle scuse per il terrorismo islamico.
Quando in Norvegia Breivik ha ucciso tutta quella gente, nonostante fosse già stato dichiarato pazzo, la stampa ha costruito ad arte delle associazioni con il pensiero anti islamista in occidente. Nel caso di Merah, si sono esercitati nella più banale psichiatria”. Secondo Murray, Tolosa ci riporta al fallimento dei modelli comunitaristi di integrazione: “Il multiculturalismo sponsorizzato dallo stato ha trattato le nazioni europee come fossero osterie. Ha ritenuto che lo stato non dovesse ‘imporre’ valori ai nuovi arrivati. Piuttosto, deve venire incontro alle richieste degli immigrati. Ne è risultata una politica per cui gli stati hanno trattato e giudicato le persone in base ai criteri di qualunque ‘comunità’ all’interno della quale queste si sono trovate a nascere. Il modello multiculturale sarebbe potuto andare avanti molto più a lungo se non fosse stato per l’islam radicale. Gli attentati e i complotti terroristici in Gran Bretagna e in Europa, a opera di estremisti cresciuti sul territorio nazionale, hanno condotto a un punto di rottura che poche persone dotate di senno possono ignorare”.

Marina Valensise - " Ecco perché la Francia non riconosce di essere un’incubatrice del jihadismo. Parla Taguieff "


Pierre-André Taguieff, Marina Valensise

Il caso Merah, rivelatore dell’identità civile di una moderna democrazia che ha inglobato l’islam, con cinque milioni di musulmani, ma coltiva l’equivoco del lupo solitario paranoico pur di salvare la tolleranza o la faccia. L’idea inquieta la Francia, dove la guerra contro il jihad è il tema dirimente della campagna per le presidenziali, ma anche l’oggetto di una sorta di rimozione diffusa. “L’antisemitismo in calo e l’islamismo radicale come infima minoranza sociale sono i due dogmi dominanti nel discorso politico”, dice al Foglio Pierre-André Taguieff, lo storico del razzismo che da anni si batte in prima linea per uscire dalla palude del politicamente corretto. “Entrambi servono a minimizzare l’islamismo radicale, a costo però di farci perdere il senso della realtà”, insiste Taguieff. Eppure il presidente Nicolas Sarkozy e il suo sfidante socialista, François Hollande, non hanno reagito male alla strage di Tolosa. “Non hanno avuto l’ignominia di fare ricorso alla teoria climatologica, alla brutta aria islamofobica e razzista che si respira nella società francese, come il centrista François Bayrou o il candidato del Fronte della sinistra Jean-Luc Mélenchon, che hanno finito per avvolgere in vaghe cause generali la responsabilità di un assassino, col tipico uso cartesiano e giacobino dell’astrazione dissolvente. Almeno Sarkozy e Hollande hanno riconosciuto il fondamentalismo radicale come componente chiave dell’islam francese, pur insistendo sul carattere ultraminoritario dell’islamismo salafita, che resta in larga parte sconosciuto agli inquirenti edotti da esperti politicamente corretti come Gilles Kepel e Olivier Roy”. Meglio così allora? “Meglio di questi studiosi che passano la vita a minimizzare l’islamismo radicale pur di non nuocere ai loro amici e continuare a insegnare nei paesi arabi, anche al rischio di innescare effetti perversi”. Gli effetti perversi però ora sono sotto gli occhi di tutti. I francesi voltano lo sguardo da un’altra parte, dicono di voler girare pagina, come ha fatto Hollande, e stendono un pietoso velo sui pasticci dei servizi o sul fallimento del multiculturalismo. “Le élite dirigenti e buona parte delle élite mediatiche, in effetti, sono disposte ad ammettere il barbaro fatto di cronaca isolato, ma si rifiutano di riconoscere che la società francese è percorsa da focolai di islamismo radicale. Certo, non bisogna ridurre tutto al jihad, ma il jihad è una componente essenziale dell’islamismo, e questa novità, negativa per i liberaldemocratici progressisti sempre in allerta sul pericolo fascista, è la novità geopolitica degli ultimi vent’anni”. Come mai i francesi stentano a farsene carico? Perché mette i crisi i principi dell’universalismo democratico o per motivi elettorali? “I francesi sanno anche essere critici verso l’universalismo democratico, quando denunciano per esempio l’interventismo americano, ma in questo caso si rifiutano di ammettere la banalità di certi effetti perversi imprevedibili di quell’interventismo (come gli agenti doppi e tripli che di colpo si mettono a sparare contro i civili o i bambini ebrei di Tolosa). Prevale un forte etnocentrismo. La Francia si considera al di sopra di tutto: l’esercito, i politici, i servizi segreti sono i migliori del mondo. Così, persino gli antipatrioti come Eva Joly si scoprono patriottici. A quest’ondata di sciovinismo si accompagna una sistematica cecità nei confronti di una realtà che può dare fastidio. Michel Wieviorka insiste sul Monde e Libération nel dire che l’antisemitismo è in calo, ma lo fa solo per tenere un discorso accettabile per le élite. In realtà, è vero il contrario. Dal 2000 la giudeofobia in Francia ha toccato picchi di 500-600 episodi di violenza l’anno, facendo un salto rispetto agli anni Novanta. Il caso Merah ora provoca reazioni attutite. Lo stesso accadde col caso Ilan Halimi, il giovane ebreo sequestrato, torturato e ucciso da Youssouf Fofana, quando si parlò di un mostro degenerato, di un delinquente di banlieue. L’unica differenza è che allora il fondamentalista islamico era un nero, mentre oggi è un maghrebino, ma oggi come allora prevale la stessa volontà di fare di quel caso un’eccezione. L’unica che dice il contrario del politicamente corretto – prosegue Taguieff – è Marine Le Pen, che però demonizza i problemi, senza aiutare a risolverli. E certo, il contesto elettorale non aiuta, perché tutti denunciano la strumentalizazione, e strumentalizzano il caso. Ci vorrebbe un coraggio politico che però la cultura democratica non favorisce, perché un politico selezionato dai partiti il coraggio oggi non se lo può dare. Ci vorrebbero un De Gaulle o un Mendès France per difendere la democrazia senza farsi illusioni”.

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