Riprendiamo dal sito:
http://www.romaebraica.it/la-delegittimazione-di-auschwitz/
a cura di SHALOM, mensile della Comunità ebraica di Roma, il commento di Angelo Pezzana dal titolo "La delegittimazione di Auschwitz".
Noam Chomsky, Ilan Pappe, Henryk Broder
Ilan Pappe, storico israeliano, nato a Haifa, insegna storia all'Universita di Exeter (GB), il manifesto illustra come Pappe intende la storia del suo paese.
Accanto alla categoria di coloro ai quali gli ebrei stanno antipatici (il plurale è rigoroso), ce n’è un’altra, all’opposto, per la quale gli ebrei (sempre al plurale) sono tutti intelligenti, e, va da sé, tutti ricchi e potenti, valutazioni che creano imbarazzo e, diciamolo pure, fastidio, perché sotto un apparente apprezzamento è facile vedere un’odiosa classificazione che può generare un’altra forma di antisemitismo, quella che gli ebrei sono comunque diversi dalla maggioranza dei normali cittadini.
Sappiamo che la realtà è un’altra, ma il pregiudizio fa più strada della pura e semplice verità. Per questo fa piacere leggere ogni tanto qualche notizia che ci ricorda come opportunismo, infedeltà, furbizia, malafede e altri dati caratteriali siano equamente distribuiti, senza distinzione alcuna. Lo certifica tale Henryk Broder, 65 anni, nato in Polonia da genitori sopravvissuti alla Shoah, ma naturalizzato tedesco, avendo scelto la Germania quale luogo ideale per vivere.Una scelta che si è rivelata fruttuosa, avendovi fatto fortuna sia come giornalista (Der Spiegel) sia come abituale commentatore in trasmissioni televisive. La fama al di fuori dei confini tedeschi gli è venuta quando ha dichiarato che “Auschwitz è una oscena Disneyland della morte, un’oasi di benessere per il superamento del passato, dove la cosiddetta cultura della memoria consiste in rituali autoconsolatori per i posteri degli sterminatori” (riportato in una breve a firma di Dario Fertilio sul Corriere della Sera del 12 marzo).
Se quelle parole fossero state pronunciate da un negazionista doc, avrebbero certamente suscitato l’ennesima, giusta esecrazione, ma dette da un ebreo, figlio di sopravvissuti, sono state accolte da un lato da un generale, imbarazzato silenzio, dall’altro ci saranno stati di sicuro quelli che avranno tirato un profondo respiro di soddisfazione. Invece andavano commentate, dette da un ebreo invece che dal vescovo Williamson o da monsieur Faurisson, non fa differenza. Anzi, paragonare Auschwitz a Disneyland con quel che Broder ha aggiunto, è estremamente più grave perché chi le ha pronunciate è un ebreo.
Non è da oggi che la delegittimazione di Auschwitz è iniziata, dal tentativo di cristianizzarne il passato all’erezione di una croce, alta abbastanza da cambiare senso e destinazione a quella fabbrica di morte, fino all’accusa di volerne strumentalizzare la memoria per ‘nascondere la politica di Israele verso i palestinesi’, tutto è stato tentato per cancellare le tracce dello sterminio.
Quelle parole di Broder sono la conferma del suo successo ottenuto in un paese ancora alla disperata ricerca di essere assolto dai crimini commessi contro gli ebrei. E poiché Auschwitz sta lì a ricordalo, le considerazioni di Broder sono cadute, per molti, come un unguento su una ferita ancora aperta. Ma che sia stato un ebreo a dare una mano può avere anche una lettura positiva. Henryk Broder non è altro che l’esempio da citare a coloro che ciecamente dicono di amare gli ebrei (al plurale, senza distinzioni), contribuendo a diffondere quel pregiudizio ‘favorevole’ di cui scrivevamo più sopra, non meno pericoloso dell’odio.
Chomsky, Pappe & Co. – e adesso Broder - sono la prova tangibile che nell’amore – e nella stima – è bene rimanere entro i confini del singolare.