domenica 24 novembre 2024
CHI SIAMO SUGGERIMENTI IMMAGINI RASSEGNA STAMPA RUBRICHE STORIA
I numeri telefonici delle redazioni
dei principali telegiornali italiani.
Stampa articolo
Ingrandisci articolo
Clicca su e-mail per inviare a chi vuoi la pagina che hai appena letto
Caro/a abbonato/a,
CLICCA QUI per vedere
la HOME PAGE

vai alla pagina twitter
CLICCA QUI per vedere il VIDEO

Lo dice anche il principe saudita Bin Salman: Khamenei è il nuovo Hitler


Clicca qui






La Stampa Rassegna Stampa
15.03.2012 Afghanistan: sempre peggio, a rischio Leon Panetta, ma anche gli aiuti umanitari
Maurizio Molinari racconta il 'giallo Panetta', Marco Bresolin intervista Alberto Cairo

Testata: La Stampa
Data: 15 marzo 2012
Pagina: 16
Autore: Maurizio Molinari-Marco Bresolin
Titolo: «Attacco a Panetta, giallo in Afghanistan-Un paese verso il declino che teme la guerra civile»

Afghanistan in primo piano. A pag.16, sulla STAMPA di oggi, due pezzi che illuminano la situazione. Quello di Maurizio Molinari, sull'attentato a Leon Panetta, che rivela quanto il controllo alleato del paese stia sfuggendo di mano, quello di Marco Bresolin, un'intervista ad Alberto Cairo, quanto mai opportuna, ci fa conoscere - finalmente -  una figura di operatore umanitario all'opposto di quel Gino Strada, lui sì star mediatica, dai molti, ambigui rapporti con il terrorismo talebano. Cairo, a differenza di Strada, offre nell'intervista una valutazione non ideologica - e per questo realistica - delle prospettive in arrivo nella regione.
Ecco i due articoli:

Maurizio Molinari: " Attacco a Panetta, giallo in Afghanistan "

Leon Panetta, attentato fallito

Leon Panetta arriva a sorpresa in Afghanistan per scusarsi per la strage di Kandahar ma al momento dell’atterraggio in una base militare un camion prende fuoco a breve distanza dal suo aereo ed è giallo sul vulnus nell’apparato di sicurezza che lo protegge. L’episodio avviene a Camp Bastion, una base aerea gestita dall’esercito britannico nella provincia dell’Helmand teatro di prolungati scontri con i taleban. Quando l’aereo del Pentagono sta toccando terra un camion guidato da un afghano percorre ad alta velocità la rampa che porta sulla pista. Il camion è in fiamme, l’afghano scende, intervengono le squadre della sicurezza e quando poco dopo Panetta scende dalla scaletta non vi sono più segni di quanto avvenuto ma genesi e dinamica dell’episodio sommano numerosi dubbi, rendendo impossibile scartare qualsiasi ipotesi inclusa quella di un fallito attentato.

George Little, portavoce del Pentagono, afferma che «il camion non è esploso e Panetta non è mai stato in pericolo» ma non offre spiegazioni del perché il camion fosse in fiamme. «Per ragioni che al momento ignoriamo, il nostro personale ha scoperto che la vettura era in fiamme - spiega Little - i militari ne hanno assunto il controllo, hanno spento il fuoco e curato il guidatore».

L’assenza di una spiegazione per un camion rubato in fiamme a pochi metri dall’aereo con Panetta solleva interrogativi sulla possibilità che spie taleban possano essere state al corrente del viaggio, tentando un clamoroso attentato. D’altra parte in più occasioni i taleban hanno dimostrato di saper violare la sicurezza americana: nel gennaio 2010 riuscirono a far esplodere un doppiogiochista nella base della Cia a Khost, uccidendo sette agenti.

A descrivere le fibrillazioni della sicurezza americana per quanto avvenuto al momento dell’atterraggio c’è anche il fatto che quando, poco dopo, Panetta è andato a incontrare un folto gruppo di Marines nell’adiacente Camp Leatherneck i comandi hanno improvvisamente chiesto a tutti i militari americani di separarsi dalle armi. Si tratta di una procedura insolita perché in genere sono i militari afghani a non essere ammessi armati in presenza del capo del Pentagono mentre ai soldati Usa viene consentito di portarle. I marines erano entrati nel luogo dell’incontro con Panetta ognuno con un fucile M-16 o M-4 e una pistola da 9 mm, ma all’ultimo minuto il comandante Brandon Hall ha fatto sapere che «per ordini superiori» la procedura sarebbe stata diversa. Non si può escludere che proprio l’episodio del camion in fiamme abbia destato allarme nella sicurezza di Panetta, che quando ha infine parlato ai marines ha detto: «Veniamo sfidati dai nostri nemici, da noi stessi e dal male intrinseco alla guerra». Parole nelle quali alcuni dei presenti hanno letto un riferimento alla strage di Kandahar, commessa da un sergente contro 16 civili. Il responsabile è stato trasferito ieri negli Stati Uniti dove lo aspetta un processo che potrebbe concludersi con la condanna a morte. Arrivando a Kabul dieci ore dopo il giallo di Camp Bastion, Panetta ha rinnovato al presidente Hamid Karzai la determinazione a «punire tutti i responsabili» della strage, ribadendo comunque che «i tempi del ritiro delle truppe combattenti» non saranno accelerati rispetto alla prevista scadenza del 2014. Anche Barack Obama e il premier britannico David Cameron a Washington hanno sottolineato la necessità di una «transizione stabile» senza accelerazioni che potrebbero essere nocive per la sicurezza.

Marco Bresolin:  " Un paese verso il declino che teme la guerra civile"

Alberto Cairo

Da più di 20 anni lavora in Afghanistan, dove dirige i sette centri ortopedici della Croce Rossa Internazionale. Da Kabul, Alberto Cairo guida una macchina che ha curato oltre 110 mila pazienti, invalidi di guerra o per malformazioni congenite. Un esempio di come l’assistenza a un popolo in difficoltà dovrebbe funzionare: non pensare solo all’oggi, ma soprattutto al domani. Per dirla con una classica metafora: qui la Croce Rossa non regala pesci, ma insegna a pescare. I malati non vengono solo curati, ma anche seguiti per l’inserimento lavorativo. «Vogliamo far ritrovare loro un posto nella società» spiega Cairo. Per questo tra gli oltre 700 dipendenti ci sono soltanto «sette stranieri, gli altri sono tutti afghani». I requisiti per l’assunzione? «Devono essere disabili, ex pazienti».

Nel 2014 ci sarà il ritiro delle truppe: cosa pensano gli afghani?

«C’è una grossa fetta della popolazione a cui non frega proprio nulla. Hanno altro a cui pensare: la povertà dilagante, gravi problemi di salute. Altri, invece, vedono nelle truppe una garanzia di stabilità e temono che tra due anni scoppi una guerra civile. E infine ci sono quelli che non vedono l’ora che gli occidentali se ne vadano. Provano un odio profondo verso di loro, dicono che hanno fallito perché non vedono l’utilità delle loro missioni. Noi, fortunatamente, per ora siamo ancora «protetti» dal simbolo della Croce Rossa, ma la xenofobia cresce sempre di più. Di certo alcuni errori non fanno altro che peggiorare la situazione...».

Prima le copie del Corano bruciate, poi il sergente killer...

«Forse è stato molto più sentito il primo episodio perché è legato alla religione. C’è chi amplifica questi episodi, anche perché quando si tratta di religione per qualcuno diventa quasi un dovere morale protestare».

E la sicurezza è sempre più a rischio.

«In termini di sicurezza, il Paese sta peggiorando di giorno in giorno. Noi facciamo anche cure a domicilio e di tanto in tanto usciamo, ma spesso è difficile. Siamo costretti ad evitare certe zone perché in alcuni periodi non si sa più chi comanda, chi le controlla».

Lei è arrivato in Afghanistan subito dopo la ritirata dei sovietici, come è cambiato in questi anni il Paese?

«Nel ’90 l’Afghanistan era sull’orlo del baratro, ma si credeva nella fine delle ostilità. Anche chi era contrario ai mujaheddin intravedeva un ritorno della pace con loro, che però non è mai arrivata. Poi c’è stato un ulteriore deterioramento con i taleban».

E dal 2001, con l’arrivo degli occidentali, cosa è cambiato?

«Nel 2001 c’è stata una grande speranza. Grande euforia. La gente diceva: “Ce la facciamo, il mondo si è ricordato di noi”. Una speranza superficiale, durata fino al 2004: si erano illusi che tutto cadesse dal cielo. Del resto era difficile chiedere ulteriori sacrifici dopo tanti anni di sofferenze. Col tempo l’interesse per l’Afghanistan è diminuito. E il momento giusto per la svolta è svanito. Si è tornati alla divisione in clan, la corruzione è salita alle stelle, ognuno pensa solo per sé. In questo contesto l’opposizione è cresciuta. I taleban hanno accolto tra le loro file di tutto e di più: ora l’opposizione è un pericoloso fritto misto. Un segno della frammentazione del Paese».

E le speranze di rinascita si indeboliscono.

«Da 20 anni sono a contatto con gli afghani: sono grandi lavoratori, hanno enormi capacità d’apprendimento. Un potenziale incredibile che però non si riesce a sfruttare. Per ora continuiamo soltanto a tamponare...».

Per inviare alla Stampa la propria opinione, cliccare sulla e-mail sottostante


lettere@lastampa.it

Condividi sui social network:



Se ritieni questa pagina importante, mandala a tutti i tuoi amici cliccando qui

www.jerusalemonline.com
SCRIVI A IC RISPONDE DEBORAH FAIT