I figli di Abramo Robert Littell
Traduzione di Sara Brambilla
Fanucci Euro 18
Un libro appena letto, di cui ora dirò, mi ha riportato alla memoria uno dei romanzi di John le Carré, che s'intitola La Tamburina. Il grande autore di spy-thriller non s'è interessato soltanto ai conflitti spionistici tra Occidente e Urss durante la Guerra fredda ma anche al tema, purtroppo ancora attuale, del terrorismo palestinese e del Medio Oriente. Il libro che mi ha ricordato Le Carré è I figli di Abramo di Robert Littell.
Siamo in Israele, in un'epoca volutamente imprecisata. Tutto ciò che l'autore ci dice sullo sfondo storico è che gli Stati Uniti sono retti da un presidente donna e che a Washington stanno per essere firmati degli accordi di pace che, per una volta, potrebbero essere definitivi. Proprio alla vigilia della firma succede però che un minuscolo gruppo di oltranzisti arabi, guidato da un fanatico "Dottore", rapisce un rabbino altrettanto fanatico dopo aver sterminato con uno stratagemma la sua scorta. Littell (Brooklyn, 1935) ha lavorato a lungo come giornalista per il settimanale Newsweek e si sente. Mi riferisco all'attendibilità delle informazioni che dà, all'aggiornamento anche "teologico" che dimostra d'avere sia sull'Islam che sull'estremismo ebraico, ai meccanismi decisionali della Casa Bianca che nelle sue pagine sono molto più verosimili di quelli di tanti film. Ma il vero punto di forza del libro è l'abilità con cui la storia è sceneggiata. L'autore prende e lascia i vari filoni mostrandoci gli eventi da diversi punti di vista: quelli del "Dottore", dei servizi segreti israeliani, cioè sia il leggendario Mossad sia lo Shin Bet, e poi di Washington, degli estremisti delle due parti. Lo scopo di questi ultimi è comune e opposto: impedire la firma del trattato di pace; entrambi puntano a una vittoria totale senza ipotesi subordinate: o tutta la Terra o niente.
Uno dei sottofiloni della storia, che il lettore scopre progressivamente, sono proprio le affinità che legano nel fondo due dei protagonisti, ovvero il rabbino prigioniero e il "Dottore" suo carceriere. Dai loro dialoghi si sprigiona un insieme di malinconia, ferocia, disperata visione del mondo che va al di là di ciò che in genere ci si aspetta da un romanzo di spionaggio. Non dirò di più, ma a chi ama il genere e l'ambientazione garantisco una lettura tra le più avvincenti.
Corrado Augias
Il Venerdì di Repubblica