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Il Sole 24 Ore Rassegna Stampa
11.03.2012 Il carteggio tra Leo Strauss e Karl Loewith
Recensito da Giulio Busi

Testata: Il Sole 24 Ore
Data: 11 marzo 2012
Pagina: 30
Autore: Giulio Busi
Titolo: «Leo e Karl, filosofi senza virgolette»

Sul SOLE24ORE di oggi, 11/03/2012, a pag. 30, con il titolo "Leo e Karl, filosofi senza virgolette", Giulio Busi recensisce il libro appena uscito sul carteggio fra Leo Strauus e Karl Loewith, "Oltre Itaca", pubblicato da Carocci.

 

Karl Loewith                                                         Leo Strauss

In tempi in cui la barba non è di moda, come riconoscere il filosofo? Sicuramente dalle virgolette. Dalla tendenza incontenibile a virgolettare ogni parola, anche la più piccola, per farla grande, trasformarla in concetto, unico e assoluto. A volte però, le virgolette diventano troppe anche per i pensatori impenitenti. Ecco allora che, i più avveduti, provano a smettere, diminuendo la dose fino a rinunciare del tutto, per riavere i termini nudi e crudi, non su di un piedistallo ma liberi e sinceri, come discorso vuole.
È il caso di due amici, appena trentenni e già con un curriculum filosofico di tutto rispetto. La parola che vorrebbero svirgolettare non è di poco conto. «Se veramente l'uomo si è liberato tanto di Dio quanto della morale, allora forse non ha più nessuna determinazione particolare. Ma non ne ha nemmeno bisogno se non è altro che uomo senza virgolette! Per ora, tuttavia, si continua a parlare dell'uomo tra cento virgolette». L'autore della frase è Karl Löwith, in una lettera indirizzata a Leo Strauss, suo quasi coetaneo e compagno di ansie.
La ragione delle ansie è presto detta. Siamo nel 1933, ed entrambi sono ebrei. Strauss viene da un ambiente osservante e ha mantenuto un legame culturale forte col giudaismo. Löwith è nato invece in una famiglia assimilata. Il padre Wilhelm, pittore, si è convertito al protestantesimo e ha fatto fortuna per le sue scene di genere, di gusto borghese e accademico. Strauss è emigrato a Parigi già nel '32. Come reduce di guerra, Löwith può conservare per qualche tempo il suo insegnamento all'Università di Marburgo. È però questione di poco. Nel 1934 si trasferisce a Roma, e da qui in Giappone, da dove passerà, nel 1941, negli Stati Uniti. Se Löwith e Strauss si scrivono, fittamente, non è solo per raccontarsi i guai reciproci, gli affanni dell'esilio, il baratro che inghiotte la loro Germania. Il dialogo epistolare, particolarmente intenso fino al 1935, riprenderà dopo la guerra, per concludersi solo nel 1971, due anni prima della morte di entrambi. Ma la fase più creativa, che fa di queste missive testimonianza importante del pensiero novecentesco, è senz'altro quella iniziale. Sembra quasi che la contingenza storica, con la drammatica svolta nazista, acuisca nei due la necessità di riflettere «sui fondamenti atemporali e atopici della filosofia», come scrive Carlo Altini nella sua bella introduzione all'edizione italiana del carteggio.
Poter parlare dell'uomo senza virgolette significa così perlustrare le possibilità di sopravvivenza della tradizione speculativa, al di là e nonostante la fine del moderno. Punto di partenza, da cui muovere per decifrare l'evidente tracollo dell'umanismo, è l'opera dei due maggiori interpreti delle ambizioni della filosofia tedesca: Nietzsche e Heidegger. Nietzsche impersona la rivolta contro lo storicismo ottocentesco, Heidegger s'impone come vate di una «svolta di senso», che promette un affrancamento dall'inautenticità. Löwith è stato uno dei primi allievi di Heidegger, ma i rapporti si sono in seguito assai raffreddati, sia per motivi teorici sia per il coinvolgimento di maestro nella propaganda culturale nazista. A cosa aggrapparsi, davanti allo sfacelo politico e sociale del 1933? Strauss guarda al passato. È convinto che ci si debba liberare dalla sterile polemica tra cristianesimo e anti-cristianesimo. Solo così si potrà riconquistare quella «visione positiva e concreta della natura» che era propria del mondo antico: la medicina contro la crisi della ragione può essere soltanto la filosofia greca. Per diventare post-cristiani bisogna insomma riappropriarsi del logos pre-cristiano. Löwith gli rimprovera però la nostalgia per un'età dell'oro che in realtà non è mai esistita: «Pur ammettendo che il sapere dei greci fosse integro – osserva Löwith – perché allora non prendere a modello anche il commercio di schiavi che per loro era del tutto naturale?».
Löwith, dal canto suo, insiste sulla «progressiva artificialità delle nostre attuali condizioni di vita». Per l'uomo che ha razionalizzato il mondo attraverso la tecnica, tutto è a un tempo naturale e innaturale. Lo stato originario non è dunque qualcosa di perduto, bensì ci sta davanti, e ci attira verso sé. E per conquistarlo, non è necessario divenire superuomini: basta essere, banalmente, uomini, purché si compia questo destino fino in fondo, mediocrità compresa. La frattura tra mondo e individuo non si sana uscendo dalla storia, ma intensificando la consapevolezza di quest'ultima fino a sublimarla.
L'intuizione è brillante, e anticipa una strategia ermeneutica già tutta postmoderna. Quella di Löwith è un'apologia dell'understatement, in un contesto filosofico tedesco drogato dal paradosso: «Non si può rischiare di dire, senza tante premesse, quanto sia semplice, in fondo, l'essere-uomo. E questo per paura di non essere considerati abbastanza "filosofi"». L'ultima parola, è vero, si fregia di nuovo delle famigerate virgolette. Ma è un peccato veniale, se si tiene conto della posta in gioco. Per Löwith, l'uomo «che dice sì alla vita nella sua interezza, senza selezionare, togliere o aggiungere nulla» diventa finalmente uguale a se stesso, ovvero libero.

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