Sul CORRIERE della SERA di oggi, 01/03/2012, a pag.21, con il titolo "Democrazia e partiti islamici, Primavere arabe a confronto", Maurizio Caprara informa sul convegno svoltosi a Roma a cura della Comunità di S.Egidio. Il titolo è corretto, il pezzo di Caprara anche. Quello che manca, sommerso da una melassa di buoni sentimenti - è paraltro la filosofia di S.Egidio - è il riferimento all'arrivo della sharia nei paesi del "dopo primavera araba". In Tunisia, checchè ne pensino gli intervenuti, è iniziato il giro di vite nella direzione teocratica. Che questo non dispiaccia nemmeno a padre Pizzaballa, lo comprendiamo, conoscendo la politica vaticana che lui rappresenta in Israele. Lo condividono meno i pochi coraggiosi che in Tunisia stanno opponendosi al leader del partito islamico, così calorosamente accolto a S.Egidio.
Ecco la cronaca:


ROMA — «Costruire una democrazia è opera più difficile e complessa che distruggere una dittatura», diceva ieri a Roma Rachid Ghannouchi, il capo del partito di maggioranza nella Tunisia del dopo-Ben Ali. Benché la tirannia in Siria sia ancora in piedi e sanguinaria, il leader della formazione musulmana «Ennahda», costretto in passato all'esilio, aveva talmente ragione che poco dopo il suo intervento due donne con l'hijab, velo islamico che copre molti dei capelli o tutti, giravano non distanti da lui accusandolo di aver abitato in Gran Bretagna mentre, stando al loro racconto, il figlio di una delle due veniva ferito nella «Rivoluzione» tunisina. «Si chiama Mohammed Rawafi, 19 anni. È scappato in Italia via mare, non si sa dov'è», diceva la donna con l'hijab nero, Rebeh Krahiem, assistendo, nel chiedere aiuto a quanti incontrava, la sua amica con il fazzoletto rosa che definiva madre del disperso.
Non succedeva alla Moschea di Monte Antenne. Sono scene a ridosso della Basilica di Santa Maria in Trastevere ai margini di un convegno della Comunità di Sant'Egidio, «Primavera araba, verso un nuovo patto nazionale». La strage degna di cronaca, in questo caso, è consistita in un'ecatombe di stereotipi.
Invitati di spicco, alcuni dirigenti dei «Fratelli musulmani». «Non si può dividere la società in base a credo, sesso e idee, ma solo sulla base di diritti e doveri. Noi abbiamo subito l'esser tenuti "fuori", non cadiamo in questa trappola», sosteneva Abdul Rahman al Barr, «fratello» egiziano. Impegni da verificare nei fatti, certo, perché la loro interpretazione può essere molteplice, come una frase di Abdul Malek, della stessa affiliazione in Libia: «La democrazia è un requisito imprescindibile del nostro movimento, ma deve essere compatibile con la nostra cultura e la nostra religione».
Nei suoi dialoghi interreligiosi, «Sant'Egidio» ha sempre rivendicato che non si possono dettare le tesi agli interlocutori. Suo merito è stato radunare nella stessa sala voci diverse mentre i cambiamenti nei Paesi arabi richiedono coltivazione di nuove relazioni per classi politiche e governi europei privi dei vecchi alleati nel resto del Mediterraneo. «C'è bisogno di improntare il nostro rapporto con l'altro e anche con il mondo islamico sulla simpatia e far cadere distanza e diffidenza», ha affermato Andrea Riccardi, fondatore della Comunità, oggi ministro della Cooperazione.
Pierluigi Pizzaballa, custode di Terra Santa, ha sottolineato che in Medio Oriente non si può «costruire una nazione senza tener conto anche dell'elemento religioso». Nel ricordare che «in Siria i cristiani sono sempre stati garantiti», ha esortato a puntare sul «partecipare» alla politica più che su «protezioni», invitando tutti a rileggere il proprio passato: «"I musulmani sono tutti vittime": non è vero. "I cristiani sono tutti vittime": non è vero». E un oppositore siriano, Haytham Manna, ha condannato l'ipotesi di soldati stranieri in Siria a vigilare su corridoi umanitari. «Può dividere», ha obiettato.
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