Non siamo d'accordo con Carlo Panella, e abbiamo il fondato sospetto che stia per cadere - o è già caduto - nello stesso errore che commise quando andò nella Persia diventata Iran e vide in Khomeini il liberatore del paese. Non si accorse che l'ayatollah per eccellenza se l'era allevato in casa la Francia, interessata a un cambio di regime, mirando a sostiuire gli Usa nei rapporti economici con Teheran. Lo Scià, pur non essendo un campione di democrazia, era un amico dell'Occidente, e, soprattutto, stava per varare una riforma che avrebbe espropriato al clero musulmano gran parte del latifondo di loro proprietà. Furono i mullah a guidare la "rivoluzione", quella che, allora, Panella chiamò "liberazione".
Ora, con la Siria, commette lo stesso errore, escludendone le caratterische etniche tribali, per lui sono i poveri contro i ricchi, nè vi vede l'arrivo di un regime teocratico per il fatto che "manca un Khomeini", come scrive. Tutto il pezzo è un insieme di wishful thinking, come il fatto che i militari contro Assad si siano ribellati per" portare la democrazia". Il fatto di conoscere per nome tutti i protagonisti del palsoscenico arabo non significa che abbia capito la trama dello spettacolo a cui assiste.
Ecco la prima puntata, alla quale, ahimè, ne seguirà un'altra (che puntualmente riprenderemo):
Roma. Le decine di migliaia di manifestanti che hanno sfilato nel quartiere Jabroud e nel centro di Damasco hanno incrinato il controllo del regime sull’unico bastione realmente in mano a Bashar el Assad. Contemporaneamente il contagio si è esteso e radicato anche ad Aleppo, dove le forze di sicurezza hanno sparato contro gli studenti che occupano l’università, causando almeno tre morti. Homs continua incredibilmente a resistere alla pressione di un assedio feroce che impedisce persino ai medici di curare i feriti, in un contesto di crudeltà dei miliziani di Assad e di resistenza degli oppositori che riporta alla memoria la rivolta di Varsavia del 1944. Il radicamento della protesta porta a una conclusione univoca: la Siria del 2012 è simile all’Iran della Rivoluzione del 1978-’79, con poche differenze che però non intaccano il dato di fondo. Non è una rivolta come lo sono state quella tunisina, egiziana e yemenita; non è un conflitto tribale intrecciato con un golpe di palazzo come è stata la ribellione libica, che ha potuto imporsi soltanto grazie alla forza militare della Nato. In Siria è in atto una rivoluzione, nel senso più pieno e tecnico del termine. Una rivoluzione che attraversa tutto il corpo della nazione, con una forte connotazione classista: poveri contro ricchi. La rivoluzione è iniziata dai contadini affamati dalla siccità nella provincia di Deraa, si è prima radicata nella provincia e con lentezza si è imposta nelle città, dove nelle ultime settimane persino le ricche famiglie sunnite, caposaldo del regime (controllano l’economia, a differenza degli alawiti che hanno il pieno controllo del partito Baath, dell’Esercito e di tutte le istituzioni dello stato), hanno iniziato a finanziare sottobanco i ribelli, alla ricerca di un salvacondotto. E’ una rivoluzione che mette in campo una straordinaria forza politica avversa al regime, al punto che il popolo siriano si dimostra capace di sopportare il peso di 10-15 mila vittime civili (il doppio delle vittime di tutte le altre rivolte arabe sommate), in manifestazioni, scontri, battaglie militari, su un arco temporale che ormai si prolunga da dodici mesi, senza che la sua forza diminuisca. Damasco non è Tripoli Definire lo scontro in atto in Siria una rivoluzione non è uno scrupolo lessicale, bensì è un passaggio di analisi indispensabile, non soltanto per capire la sua possibile evoluzione, quanto per comprendere quello che può accadere nel paese e nella regione una volta che il regime di Bashar el Assad, come pare ormai inevitabile, sarà costretto alla resa. Una rivoluzione popolare accumula una massa critica di energia politica e di forza, forma una miriade di quadri intermedi e di leader, motiva continuamente e inarrestabilmente i milioni di persone che le danno vita. E’ così che si forma lo spirito di vendetta per gli scherani e i gerarchi del regime; è così che si determina il futuro del nuovo stato e dei suoi assetti, in modo destabilizzante non soltanto al suo interno, ma anche nei confronti dei paesi confinanti. Questo è avvenuto nell’Iran khomeinista, ma non nelle rivolte di Tunisia, Egitto, Yemen e Libia. In questi ultimi casi, dopo aver dato in poche settimane la “spallata” a regimi marcescenti, favoriti putsch militari di palazzo (sempre e ovunque guidati dai principali ex collaboratori del rais deposto), non toccati i tanti gangli occulti e palesi dei poteri forti, si è determinato un “nuovo corso” in continuità con le leadership deposte. Una continuità che si intravvede addirittura nelle élite di comando che hanno abbandonato per tempo il rais contestato, come nel caso dell’Egitto dominato dai generali riuniti attorno a Mohamed Hussein Tantawi e nella Libia con un Consiglio nazionale di transizione che vede al vertice tutti stretti collaboratori di Gheddafi. Una situazione simile si è determinata in Tunisia e in Yemen. La dinamica politica di questi paesi è tutt’altro che rivoluzionaria: si assiste al confronto-scontro tra le nuove istanze di democrazia e di istituzioni elettive (unico, debole risultato delle rivolte) e le vecchie élite soprattutto militari, ben intenzionate a mantenere potere politico, controllo dell’economia, gestione degli eserciti. La rivoluzione iraniana, per la violenza e la radicalità dello scontro, segnò invece la scomparsa totale e radicale di tutta la struttura dello stato imperiale disegnato dai Pahlavi, l’epurazione feroce dell’esercito e il suo ridimensionamento a favore dei pasdaran, la spietata epurazione delle alte gerarchie sciite (a partire dal grande ayatollah Shariatmadari) e del corpo intermedio degli hojatoleslam e mullah non di cieca obbedienza khomeinista (furono circa 2.500 i religiosi eliminati in seguito alla rivoluzione). Qualcosa di simile accadrà in Siria, in un contesto però ben più caotico di quello iraniano a causa della prima evidente e radicale differenza tra le due situazioni: a Damasco non agisce nessuna leadership vagamente comparabile con quella esercitata dall’ayatollah Khomeini. Questa differenza pesa sui tempi e modi della rivolta, rende più difficile quello che in Iran fu rapidissimo – l’“egemonia” del movimento popolare sulle élite, sugli strati alti della popolazione, pagata peraltro poi con purghe feroci – ma offre uno straordinario spazio per una etero-direzione del movimento rivoluzionario, se soltanto l’occidente se ne rendesse conto. Ma né i paesi della Unione europea né gli Stati Uniti comprendono l’enorme spazio di manovra e l’enorme influenza politica che potrebbero accumulare appoggiando alcune leadership che già operano sul terreno con discreto seguito. Soltanto la Turchia di Recep Tayyip Erdogan, il Qatar dell’emiro Khalifa al Thani e l’Arabia Saudita di re Abdullah si stanno impegnando con forza per rafforzare, definire ed eterodirigere questi leader. E’ un’inerzia che ancora una volta ripete gli errori commessi da Jimmy Carter e dall’Europa nel 1978. Anche oggi assistiamo all’enunciazione di una dottrina del multilateralismo che Barack Obama vive come paralisi, impossibilità di agire se non con il consenso delle Nazioni Unite (dove si lavora a un’altra risoluzione “umanitaria”, per cercare così di convincere Cina e Russia). Sarebbe sufficiente replicare non le mosse di George W. Bush, ma quelle di Bill Clinton, che il 24 marzo del 1999 diede vita a una coalizione imperniata sulla Nato per muovere guerra alla Serbia di Slobodan Milosevic. Un’azione militare inizialmente non avallata dall’Onu (a causa del veto russo-cinese, che anche oggi paralizza il Consiglio di sicurezza sulla Siria), che portò nel 2000 alla caduta dello stesso regime di Milosevic. Quando i militari favoriscono la democrazia Come nella rivoluzione iraniana, e peraltro con meccaniche non dissimili dalla Rivoluzione dei garofani del 1974 portoghese, l’elemento caratteristico della rivoluzione siriana è la spaccatura orizzontale delle Forze armate provocata dalla rivolta morale di militari che, provando orrore per i massacri di cui sono stati partecipi, hanno deciso di disertare in massa schierandosi in armi con la rivolta. La figura del militare che ha ribrezzo di se stesso, dei civili che lui stesso ha massacrato e che, in un contesto esterno di assoluta pace, diserta e si coalizza con altri disertori per rovesciare il regime ai cui ordini combatteva è di grande interesse politico nel suo percorso di maturazione, ed è anche di notevole interesse per la gestione futura del processo rivoluzionario. In Portogallo furono le Forze armate con il Mfa ad ababbattere il regime e ad avviare la democratizzazione del paese a seguito del trauma di tutti i quadri intermedi (capitani e parte della truppa) conseguente ai massacri compiuti in Mozambico, Angola, Guinea e Capo Verde. Il maggiore Tomé, che era stato in Mozambico aiutante di campo del generale Kaúlza de Arriaga, macellaio dei ribelli del Frelimo, dopo il 25 aprile 1974 assieme a Otelo Saraiva de Carvalho entrò a far parte dell’estrema ala sinistra del Mfa. Quando gli chiesi cosa lo avesse convinto a svoltare in una maniera così drastica, mi rispose di aver “compreso l’orrore che stavamo commettendo leggendo Pasolini e Vittorini”. Una rivoluzione eterodiretta da Ankara In Iran, nel 1978-’79, le diserzioni incessanti e l’inaffidabilità dei reparti che si rifiutavano di continuare a massacrare i manifestanti costrinsero lo scià Reza Pahlavi a contare soltanto sugli Javedan (la Guardia imperiale degli Immortali), che furono infine sconfitti sul campo in una battaglia con gli avieri della caserma di Fahrabad, disertori fedeli a Khomeini. In Siria, il maggiore Riad al Asaad ha disertato nel giugno 2011 con alcune centinaia (ora decine di migliaia) di soldati e ufficiali, e il 29 luglio ha fondato in Turchia (con pieno sostegno dell’esercito turco) l’Esercito libero siriano, che ha ingaggiato con l’esercito regolare di Damasco decine di scontri, come nel caso degli assedi di Deir Ezzor, Rastan, Talbiseh e Jabal al Zawiya. Da due mesi regge la forza devastante dell’assedio di Homs e ha portato a termine alcune operazioni spettacolari come l’assalto con razzi Rpg e mortai a due sedi dei servizi segreti a Damasco e una a Hama. L’Esercito libero siriano gode di un consistente appoggio logistico, della fornitura di armi leggere, di munizioni e dell’intero apparato di comunicazioni forniti dall’esercito turco e anche dell’azione di commando inviati all’interno del territorio siriano dalla Turchia (Damasco sostiene di averne arrestati quindici in uno scontro a fuoco), dal Qatar, dall’Arabia Saudita e forse anche dalla Libia, come afferma il comandante militare di Tripoli, il filo qatariota Abdulhakim Belhadj. Anche sotto il profilo militare, la resistenza incredibile di Homs è dovuta all’appoggio in armi, uomini e viveri da parte delle forze libanesi che fanno capo a Saad Hariri presenti a Tiro e Sidone, distanti poche decine di chilometri (nonostante una frontiera siro-libanese minata e presidiata proprio per impedire queste infiltrazioni). Benché non esista traccia della collocazione politica di Riad al Asaad e del suo quadro di comando, è comunque evidente che in un prossimo futuro questi militari che si stanno conquistando sul campo la leadership saranno legati a filo doppio non tanto all’esercito turco, quanto al governo turco, senza il quale ben poco avrebbero potuto fare. Non è un caso che l’attuale leader del Consiglio nazionale siriano, Burhan Ghalioun, sia molto vicino all’Akp, il partito del premier turco Recep Tayyip Erdogan. Poco chiaro, a oggi, è invece il radicamento del Coordinamento nazionale per il cambio democratico (Ncb) guidato da Hassan Abdul Azim, che rappresenta l’ultima evoluzione del “socialismo arabo” di matrice laico-nasseriana che ebbe il suo leader in Jamal al Atassi, più volte tentato negli ultimi mesi di aprire un dialogo costruttivo col Baath, movimento concorrenziale sia del Cns sia dei Fratelli musulmani. E’ ben più chiara invece la dipendenza dalle suggestioni saudite dei Fratelli musulmani, guidati da Mohammed Riad Shaqfa, che vive da anni in esilio a Riad e che occupa la metà netta della direzione del Consiglio nazionale siriano guidato da Ghalioun. (Primo di due articoli)
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