Sulla STAMPA di oggi, 01/03/2012, a pag.20, con il titolo "L'Italia all'Onu: fermate le mutilazioni genitali", Paolo Mastrolilli riferisce sul dibattito all'Onu, al quale ha partecipato anche il Ministro Fornero. Cronaca corretta, come il titolo, ma qualcosa non ci ha convinto. L'infibulazione - perchè di questo si tratta - viene praticata nei paesi arabi e musulmani, non soltanto in Africa, come si evince dal testo. Viene praticata anche in Europa, malgrado sia vietata espressamente. Dal resoconto Onu, viene estromessa, anzi, persino negata, ogni responsabilità di carattere religioso, come se il fatto che venga praticata nei paesi musulmani fosse una mera coincidenza. Nessun accenno nemmeno al fatto che questa pratica odiosa suggelli la schiavitù della donna musulmana che la subisce, quasi fosse un destino e non una scelta precisa dell'uomo islamico, nei confronti della donna.
Non è colpa di Mastrolilli se così si è svolto il dibattito, ma riteniamo che queste nostre osservazioni, se incluse, avrebbero aiutato i lettori a capire meglio a chi va attribuita la responsabilità di questa pratica orrenda.
Ecco l'articolo:
Martedì sera l’Assemblea Generale dell’Onu si è alzata in piedi, per cantare e ballare. Il «parlamento del mondo» si è preso un’ora di intervallo per ascoltare la voce di Angélique Kidjo, la cantante del Benin vincitrice del premio Grammy. Ma la ragione di questa iniziativa, presa dall’Italia, era seria e per nulla allegra: mettere fine alla mutilazione genitale femminile. Angélique, ambasciatore dell’Unicef, è salita sul palco insieme al ministro del Lavoro Elsa Fornero, per scuoterci dall’apatia e spingere l’Assemblea Generale ad approvare una risoluzione che condanni la pratica e porti al suo divieto in tutto il mondo.
I numeri sono impressionanti. Ogni anno circa tre milioni di bambine e ragazze sono vittime della mutilazione genitale: ottomila al giorno. Una marea di esseri umani, che porteranno per tutta la vita i segni di questa inutile superstizione, quando non moriranno per le complicazioni. Per quale motivo? Nessuno, con tutto il rispetto per la cultura e la tradizione dei Paesi dove questa pratica continua da secoli. Non c’è una ragione religiosa, e tanto meno sanitaria, per giustificare questa violazione dei diritti umani. Basta ascoltare la testimonianza di Sarah Dioubate, una ragazza della Guinea: «Un giorno mia zia mi portò ad essere tagliata. Avevo sei anni, ricordo solo il dolore. Ebbi la sensazione che mi veniva rubata qualcosa, per sempre. Qualche anno dopo, una volta cresciuta, chiesi a mia madre perché aveva permesso che subissi questa violenza. Mi rispose che la pressione della società era troppo forte, per opporsi».
Naturalmente l’eliminazione di una pratica del genere non è un risultato che si ottiene schioccando le dita. «E’ molto radicata - spiega Angélique - e bisogna lavorare sulla persuasione per cambiare gli animi. Poi in Africa ci sono parecchie persone che vivono di questo: tagliare le ragazze dà loro un lavoro, se possiamo definirlo così, e uno status nella società. Bisogna offrire alternative, per sradicare la pratica. Però, è ora che gli africani comincino a prendere le decisioni giuste per il loro futuro. Abbiamo le nostre leadership legittime, che devono affrontare i problemi che ci affliggono. A partire dalla povertà, che spesso è l’origine di tutti questi mali. All’Occidente chiediamo di aiutarci, rispettandoci: non venite a dirci cosa dobbiamo fare, perché abbiamo il cervello e lo sappiamo da soli. Sosteneteci nel farlo, però».
Nel 2007 Unfpa e Unicef hanno lanciato un programma in 12 Paesi africani per fermare la mutilazione genitale, attraverso aiuti economici e informazione. Il piano ha dato i primi risultati, visto che circa 8.000 comunità hanno rinunciato alla pratica. Però non basta. Perciò l’Italia ha approfittato dell’incontro annuale della UN Commission on the Status of Women, per spingere la risoluzione all’Assemblea Generale: «E’ realistico sperare - ha detto la Fornero - che sia approvata entro l’anno».
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