Le confessioni di Art Spiegelman Nell'intervista di Silvia Santirosi, Philippe Victor
Testata: L'Espresso Data: 26 febbraio 2012 Pagina: 98 Autore: Silvia Santirosi, Philippe Victor Titolo: «Le confessioni di Spiegelman»
Sull' ESPRESSO n°9, 01/03/2012, a pag.98, Silvia Santirosi e Philippe Victor intervistano Art Spiegelman. Prima una breve biografia, poi l'intervista:
Art Spiegelman
Art Spiegelman nasce a Stoccolma nel 1949 e approda qualche tempo dopo negli Usa con i genitori, entrambi sopravvissuti ai campi di sterminio nazisti. Dà per la prima volta alle stampe nel 1977 una raccolta di storie brevi, "Breakdowns: Portrait of the Artist as a Young %@&*!" in cui esplora le possibilità narrative e grafiche del fumetto, arrivando a definire la propria grammatica ed estetica. Portando avanti la sua carriera di illustratore (di cui "Baci da New York", edizioni Nuages, 2002, offre un esempio), fonda e dirige "RAW" dal 1980 al 1991 con la moglie Françoise Mouly, attuale direttore artistico del "New Yorker". Questa rivista avanguardistica, interessata soprattutto a nuovi connubi tra fumetto, illustrazione e grafica, ha fortemente influenzato il gusto contemporaneo e ospitato artisti del calibro di Lorenzo Mattotti, Baru, Loustal, Chris Ware, Charles Burns o Gary Panter. Il successo mondiale e il Premio Pulitzer (1992) arrivano con "Maus", un'opera di 300 pagine (tradotta nel 2000 da Einaudi), in cui Spiegelman affronta il tema dell'Olocausto attraverso il racconto dell'esperienza vissuta da suo padre. Dopo anni di silenzio, saranno gli attentati dell'11 settembre a causare il ritorno al fumetto dell'artista americano. Le tavole, inizialmente pubblicate dalla rivista tedesca "Die Zeit", sono raccolte in "L'ombra delle torri" (Einaudi, 2004). Lo scorso anno è uscito per la casa editrice Orecchio acerbo "Jack e la scatola", un suo fumetto per bambini.
Silvia Santirosi, Philippe Victor: Le confessioni di Spiegelman "
Art Spiegelman arriva all'appuntamento con qualche minuto di ritardo e l'immancabile sigaretta tra le dita. Si siede e la prima cosa che chiede è un posacenere. Nel corso della chiacchierata lo riempirà con sette mozziconi. Il 2012 per lui è un anno speciale: è stato presidente del Festival del Fumetto di Angoulême - dandogli un'impronta più mondiale e meno europea, per non dire francofona - e ricorre il venticinquesimo anniversario della pubblicazione del primo tomo di "Maus", celebrato con un nuovo libro, "MetaMaus". "Spero che non parleremo solo di Maus", esordisce. E allora decidiamo di cominciare da qualcos'altro. Autore di fumetti, ma anche illustratore. Perché, dopo nove anni al "New Yorker", nel 2002 lo ha lasciato? "Questa intervista può essere l'occasione di correggere un malinteso: hanno scritto che avevo lasciato il giornale in segno di protesta, ma non è vero. Da allora non fanno che chiedermi per cosa protestavo. Per non parlare della reazione del mio editore che si è sentito insultato da parole che non ho mai pronunciato. Quello che realmente è successo è che avevo bisogno di lavorare al mio nuovo albo, "L'ombra delle torri", del 2004, e per questo era preferibile che mi ritirassi. Il "New Yorker" è una delle riviste più aperte al mondo, né conservatrice né tantomeno superficiale. Semplicemente i nostri bisogni in quel momento erano diversi e i nostri cammini dovevano separarsi. Dico questo perché in quanto narratore, sono molto attento a quello che si racconta di me". Per questo è reticente a farsi intervistare? "Quello ha più a che vedere con il film "Ricomincio da capo": la storia di un giornalista che deve fare un reportage sul giorno della marmotta, il 2 febbraio, e che si ritrova a vivere all'infinito la stessa giornata. Il fatto di essere stato intervistato così tante volte mi fa sentire esattamente così. Ogni volta penso, questa è la risposta 12C, quella la 50D. Dover rispondere a domande su un libro ("MetaMaus") costruito come una serie di interviste basate su altre interviste (quelle al padre) che hanno contribuito alla realizzazione di un altro libro ("Maus)", è un po' come passare tutto il tempo a guardare la propria faccia in uno specchio. Non è la cosa più interessante al mondo". Anche se comunque sta al gioco... "È un dovere, quando si ha un pubblico. C'est la vie". Françoise Mouly, sua moglie, dichiara in "MetaMaus" che dopo essersi lamentato per anni della mancanza di riconoscimento, di critica e pubblico, ora il problema è di non essere compreso... "Avete mai ascoltato degli ebrei in una sinagoga? È quello che definiremmo una grande lamentazione (ride, ndr). Un artista ha detto una volta che prima di raggiungere il successo solo sette persone lo capivano. E dopo, il numero non era cambiato. Il mio malcontento è dunque giustificato in ogni caso!". Ma è meglio essere incompreso o non riconosciuto? "Non riconosciuto, perché cerco di lavorare per essere capito. Il mio obiettivo non è essere oscuro. Qualche anno fa ero nella sala d'attesa del dentista con mia figlia. Faceva i suoi compiti e ad un certo punto mi ha chiesto: "Papà, cos'è l'arte?". Fortunatamente, era arrivato il mio turno, anche se sapevo che, uscendo, avrei dovuto risponderle. Mi sono ricordato di quello che avevano cercato di insegnarmi all'università: "L'arte è quello che qualcuno pensa sia l'arte". Non ne fui soddisfatto allora, figuriamoci ora! Quello che le ho dunque detto è questo: "L'arte è dare forma ai pensieri e ai sentimenti di qualcuno". E, al tempo stesso, un modo di comunicare e condividere qualcosa. Per esempio, i lavori che ho pubblicato in "Breakdowns", che è una specie di grammatica del mio linguaggio e che possono sembrare complessi, non sono stati creati per essere incompresi. Il fatto è che le idee che traducono non sono così semplici da rappresentare come "vado al cinema"". Il suo approccio sembra più quello di uno scrittore che di un disegnatore. Si considera più un uomo di lettere o di immagini? "Non privilegio un linguaggio rispetto all'altro: il mio consiste nel combinare parole e immagini. "Maus" è certamente nato dalle parole, dalla storia trasmessami da mio padre. Eppure resta intimamente un lavoro visivo. Questa complementarietà può spiegare, forse, perché questo libro rappresenta per molti appassionati di letteratura un primo passo nel mondo del fumetto. In generale, prima scrivo poi disegno. Se diventassi cieco, scriverei e se diventassi muto, disegnerei certamente di più. Tra parole e immagini c'è il fumetto, dove io mi sento a casa. In questo momento per me è più facile scrivere, non sono mai stato un grande disegnatore e sono per questo geloso dei miei colleghi. Penso però che non troverò mai nessuno che disegni male esattamente come voglio io. Ognuno deve essere capace di usare i suoi talenti e le debolezze. A ciascuno i suoi. Per questo è necessario che me ne occupi. E per la stessa ragione credo che gli albi migliori siano quelli realizzati da una sola persona". Tra le sue debolezze c'è anche l'essere ambliope? "Vedo molto male dall'occhio sinistro, è vero, ma quello per me è quasi un vantaggio: Rembrandt e molti altri pittori erano ambliopi. Se volete sapere cosa significa, andate in un museo, chiudete un occhio per qualche istante e poi ammirate i quadri. È come guardare attraverso un vetro. L'immagine non è più piatta, è reale. Nell'introduzione alla riedizione di "Breakdowns" c'è una sequenza chiamata "Eye ball" che parla proprio di questo". Venticinque anni dopo la pubblicazione di "Maus", è ancora stupito dal suo successo? "È facile abituarsi al successo, anche se non è stato così semplice lavorarci o pubblicarlo come speravo invece all'inizio". E come considera "MetaMaus", una terapia o piuttosto una sfida per i suoi lettori? "Sarebbe dovuto uscire per festeggiare i vent'anni di "Maus", ma ha preso più tempo. Sapevo che sarebbe stata una tortura. La cosa più difficile è stata immergermi nel mio passato e nella Storia, spiegare come e perché quel libro ha interferito e cambiato il mio futuro. Non credo sia stato una terapia né per me, né per nessun altro. Questo anniversario era l'occasione per rispondere alle domande che le persone si erano poste, mostrare bozzetti, ricerche e note, e far ascoltare alcuni estratti della voce di mio padre". Lui le aveva chiesto di non rivelare alcuni dettagli sulla sua vita, come la relazione con Lucia. Perché non ha rispettato la sua volontà? "Perché in questo modo si arriva a saperne di più su di lui. Non mi ricordo chi ha detto che avere uno scrittore in famiglia, è avere un assassino. È vero. Non potevo che scrivere la sua storia e la relazione che esisteva tra di noi. Per non parlare dell'obbligo che, in quanto narratore, sentivo di avere verso i lettori. Non si spiegherebbe altrimenti la frase che gli faccio pronunciare in "Maus": "Non voglio che tu parli di questo!"". Ci sono domande che rimpiange di non avergli fatto? "Perché non mi hai amato di più? Questo però è un altro libro. No, quello che rimpiango davvero è di non aver parlato con mia madre". Perché un libro e non un documentario? "Perché è qualcosa che resta nel tempo, contrariamente alle nuove tecnologie che non sopravvivono più di una manciata di secondi". E che cosa pensa allora della creazione di fumetti per i tablet? "Penso che un nuovo medium, cugino del fumetto che conosciamo oggi, apparirà presto. È sicuro. E sebbene non sia interessato a lavorare a un fumetto concepito per questi apparecchi, devo ammettere che ne scarico di vecchi e molto costosi, o che non sono più pubblicati, leggendoli sul mio iPad. Non è un caso che mi sia rappresentato sul poster del Festival d'Angoulême nell'atto di leggere un'opera di Töpffer". Questo periodo di transizione rappresenta un pericolo per il fumetto che conosciamo oggi? "No: è un periodo importante e ogni evoluzione tecnologica ha avuto un suo impatto. Per restare a Töpffer, lui ha beneficiato del progresso della stampa e in particolare quello della litografia. Credo che il fumetto sia meno vulnerabile di altri settori. Più un autore è attaccato alla specificità della sua tavola, meno sarà disposto a far cambiare le sue dimensioni, perché l'essere ingrandita o ristretta influenza enormemente la lettura. Si dice che quando una tecnologia di massa è rimpiazzata da un'altra, quest'ultima deve diventare un'arte o morire. È quello che è successo nel caso della scultura del legno. O per il teatro, per fare un esempio migliore. Perché esiste ancora, nonostante l'invenzione del cinema?". Un giorno vedrà la luce il progetto "Ku Klux Kats" di cui accenna in "MetaMaus"? "L'ho sospeso per consacrarmi a "Maus", volevo parlare di un'oppressione che era più vicina alla mia vita rispetto a quelle subite dagli afro-americani. Non sono mai stato veramente interessato al mio essere ebreo. Quello che per me era importante era la questione dell'oppressione degli uomini da parte di altri uomini. Quando mi sono lanciato nella versione lunga di "Maus" desideravo lavorare a qualcosa di più simbolico e al tempo stesso personale. Nelle tre tavole pubblicate dentro "Raw", qualche tempo prima, non facevo riferimento a nazisti ed ebrei: si trattava solo di gatti e topi. Il resto è arrivato dopo. Un po' come è successo con "MetaMaus". Non è semplicemente una guida per capire meglio "Maus". Per non parlare del fatto che, una volta assemblati tutti i materiali, è stato necessario sintetizzare ogni cosa. Nel rispetto della mia estetica e per evitare che quel libro fosse più lungo di quello che ne era all'origine". Anche se a volte accade... "Solo perché le persone non sanno comprimere. La maggior parte dei libri dovrebbero essere giornali, i giornali articoli, gli articoli paragrafi, e la maggior parte dei paragrafi nemmeno essere scritti!". In "MetaMaus" si legge che non avrebbe la forza di realizzare fumetti di 300 o 400 pagine. Che ne pensa di alcune graphic novel che si sviluppano su 500, 600 pagine? "Forse, se fossi capace di disegnare più facilmente, "Maus" avrebbe potuto essere un libro di 2 mila pagine. Ma il fumetto è per me l'arte della compressione. Penso che la maggior parte degli albi non sia destinata ad avere 300 pagine. Gli editori amano i libri lunghi perché li vendono meglio di quelli corti: ma questo è parlare del mercato dell'editoria, non di fumetto". Un'altra tendenza è il reportage a fumetti, il cui iniziatore può essere considerato Joe Sacco. Che ne pensa del suo lavoro? "Mi piace molto. Potremmo definire quello che fa come un ritorno all'epoca in cui la fotografia non era stata inventata, quando i disegnatori erano anche giornalisti. Ha immaginato un nuovo modo di fare fumetto. O meglio, ha fatto rinascere un mestiere che era scomparso". A cosa sta lavorando adesso? "Sto realizzando la vetrata per una scuola d'arte a New York. Dovrò andare presto in Germania per seguirne la realizzazione, che dovrebbe essere finita per maggio. A quel punto potrò procedere all'assemblaggio. Sono contento, anche se ho dovuto delegare parte del lavoro a qualcuno che sapesse lavorare il vetro. Spero venga bene, e che i colori non siano troppo tristi. Ho sempre sognato di lavorare a delle vetrate: le considero i primi fumetti della storia". E a quando un nuovo albo? "Dopo l'anno passato a prepararmi per il Festival di Angoulême e la mostra che verrà inaugurata al Centro Pompidou in marzo, molto stancanti, mi sono dato un anno per sparire. Dopo questa pausa, saprò rispondervi".
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