Testata: Il Foglio Data: 22 febbraio 2012 Pagina: 3 Autore: Daniele Raineri Titolo: «Hamas arriva divisa alla campagna di primavera contro Israele»
Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 22/02/2012, a pag. 3, l'articolo di Daniele Raineri dal titolo "Hamas arriva divisa alla campagna di primavera contro Israele".
Roma. Hamas si è divisa in due. La ragione di esistere dell’organizzazione palestinese resta quella di sempre: la distruzione dello stato di Israele e della riconquista di Gerusalemme, ma le due fazioni divergono su come raggiungere l’obiettivo e sulla scelta dello sponsor esterno. Da una parte c’è la leadership di Damasco, impersonata da Khaled Meshaal, che ora ha abbandonato la Siria perché non ci sarebbe potuta stare un giorno di più: il governo di Bashar el Assad ha scelto di schiacciare la maggioranza sunnita con una sanguinosa campagna militare di repressione (ieri ci sono stati 65 morti) che investe anche i profughi palestinesi che ormai da decenni fanno parte del panorama siriano. Imbarazzo enorme per Hamas, che pure aveva trovato nel regime un rifugio sicuro dopo la cacciata dalla Giordania. Quando l’anno scorso le divisioni di Damasco avevano bombardato i quartieri palestinesi nel porto di Latakia, la polizia di Hamas aveva soffocato brutalmente le proteste spontanee nelle vie di Gaza. Non poteva durare ancora. Dopo Damasco, Meshaal ha intrapreso un tour regionale che lo ha portato in Egitto, Turchia, Sudan e Qatar, per trovare una nuova casa. Non è sfuggito che Egitto, Turchia e Qatar sono paesi che – pur con giganteschi caveat – orbitano su rotte più vicine all’occidente e agli Stati Uniti di quanto non facciano gli sponsor storici del gruppo palestinese, Iran e Siria. Trovare una nuova casa al Cairo o a Doha è anche lasciare la Grande casa dell’asse siro-iraniano. Non stupisce che l’Iran abbia tagliato i fondi, con un annuncio punitivo. Meshaal, che si porta anche dietro lo stigma del leader che vive al sicuro, lontano da Gaza e dal pericolo di un conflitto con Israele, vorrebbe anche cambiare la facciata del conflitto, magari più somigliante alle manifestazioni di massa che hanno agitato i paesi arabi, dalla Tunisia all’Egitto, dallo Yemen (dove ieri c’è stato un voto per eleggere il nuovo presidente: ma c’era un solo candidato) alla Libia. “Le manifestazioni popolari – dice Meshaal – hanno la potenza di uno tsunami”. Il vantaggio sta nella simpatia che riscuotono nell’opinione pubblica mondiale – senza dubbio più degli attentati suicidi sugli scuolabus. Viene da notare che tunisini, yemeniti, libici, siriani ed egiziani lottavano e lottano contro le proprie forze di sicurezza, contro la propria classe dirigente, nelle proprie strade, non in quella altrui: a Gaza non c’è una Tahrir. L’altra fazione è quella della leadership della Striscia, con a capo Ismail Haniyeh, che, per la prima volta in cinque anni, ha intrapreso anche lui un tour regionale, a fine dicembre. Egitto, Sudan, Turchia e Tunisia. Il primo ministro di Gaza è uscito da Tunisi con lo status di leader regionale palestinese: accolto all’aeroporto dalla banda che eseguiva gli inni nazionali e da un picchetto d’onore di militare – come se fosse un capo di stato – con in fondo alla scaletta il primo ministro al Jabali e il leader del partito islamico vittorioso alle elezioni, an Nahda, Rachid Ghannouchi. Haniyeh ha girato il paese circondato da una folla entusiasta, ha predicato nella moschea della capitale e ha assistito alla conversione all’islam di una donna francese. A metà febbraio è di nuovo volato all’estero – dal 2007, da quando Hamas ha ingoiato la Striscia di Gaza, non era mai uscito – per andare prima in Qatar e poi in Iran, a rassicurare la leadership di Teheran: l’organizzazione palestinese considera la nazione sciita “una riserva strategica” per la causa e quindi l’alleanza non è in pericolo. Se Meshaal apre all’ipotesi di un padrinato alternativo, che sostituisca gli sponsor storici messi in crisi dalle rivolte – come si fa a stare a Damasco mentre i servizi segreti siriani imprigionano e torturano la Fratellanza, di cui Hamas è la costola palestinese – Haniyeh ci tiene a ristabilire i fondamentali: legame strategico con l’Iran, e nessuna via popolare, in stile “primavera araba”, alla sconfitta dell’entità sionista. “Un errore” A Teheran la Guida Suprema, l’ayatollah Ali Khamenei, ha esortato Haniyeh a stare in guardia contro “coloro che cercano il compromesso” e ha ribadito che l’Iran starà sempre dalla parte della “resistenza” palestinese. Il presidente Mahmoud Ahmadinejad ha anzi detto che è “dovere” dell’Iran stare dalla parte dei palestinesi. L’obiettivo contro cui si scagliano è l’accordo tra Hamas e Fatah siglato a metà febbraio a Doha, immancabilmente Doha, capitale del Qatar, motore immobile di qualsiasi cosa accada in medio oriente, dalla morte di Gheddafi alla sollevazione di Homs in Siria alle macchinazioni interne dei palestinesi per formare un governo di unità nazionale. Meshaal, il leader “esterno” che pensa a manifestazioni di massa contro i checkpoint israeliani a favore di telecamera per impiantare una nuova narrativa del conflitto nei media occidentali, è tra i promotori dell’accordo – che donerebbe di riflesso nuova legittimità al gruppo estremista – sotto la guida del presidente Abu Mazen. Haniyeh assieme agli iraniani è contro, vede in esso un indebolimento della pericolosità di Hamas, che è anche il capitale del gruppo: più sono temibili, più contano, più ricevono finanziamenti da fuori. Mahmoud Zahar, portavoce dell’ala di Gaza, ha detto all’agenzia di stato egiziana che l’accordo è stato un “errore” e che Meshaal prima di firmarlo “non ha consultato nessuno”. Non importa se è vero o è falso, è comunque segno di una frattura profonda. Anche se il patto tra Fatah e Hamas è nominalmente ancora in piedi, la fazione di Meshaal è già perdente: lui ha già annunciato che cederà presto il posto di leader dell’organizzazione, e la leadership di Gaza ha ripreso il lancio di razzi; a fine mandato, come ultimo risultato, ha riaperto le relazioni con la Giordania dopo l’espulsione nel 1999.
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