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Informazione Corretta Rassegna Stampa
20.02.2012 IC7 - Il commento di David Meghnagi
Dal 12/02/2012 al 18/02/2012

Testata: Informazione Corretta
Data: 20 febbraio 2012
Pagina: 1
Autore: David Meghnagi
Titolo: «Il commento di David Meghnagi»
Il commento di David Meghnagi


David Meghnagi, Le sfide di Israele (ed. Marsilio)
http://www.informazionecorretta.it/main.php?sez=300&cat=rubrica&b=35307&ord=author

Uno delle più subdole maschere del nuovo antisemitismo è un presunto “antirazzismo”.
Chi non ha mai sentito dire “io non ho nulla contro gli ebrei, sono contro Israele”, oppure io “non sono antisemita ma antisionista”.
Come Freud insegna in quel “non” e in quel “ma” c’è tutto quello che non si dice esplicitamente per poterlo mettere in pratica meglio nella realtà.  
Dopo Auschwitz nessuno potrebbe in Occidente pubblicamente dichiararsi antisemita senza con ciò perdere la rispettabilità. 
Il razzismo e l’antisemitismo per esprimersi hanno bisogno di mascherarsi. Come? Spostando in apparenza le ragioni dell’opposizione e dell’ostilità.
Basta cambiare il nome di ebreo con Israele, dichiararsi “antisionisti” e non antisemiti perché tutto sia più facile.  
Nell’Unione Sovietica e negli Stati del Patto di Varsavia era una pratica quotidiana. I medici ebrei che Stalin intendeva assassinare erano accusati di collaborazione col sionismo e con l’imperialismo. Secondo un gergo che ricorda molto quello hitleriano, erano “cosmopoliti senza radici”, nemici della patria socialista. Se Stalin non fosse morto, l’esito era prevedibile. Gli ebrei sovietici sarebbero stati deportati in massa lontano dai confini occidentali dell’impero, in Siberia, dove sarebbero periti in molti.  Lo sterminio nazista si sarebbe completato in altri modi.
Nel mondo arabo la distinzione fra ebrei e israeliani è considerata un sofisma buono per le discussioni con gli europei. All’interno non ha mai avuto senso. L’odio contro Israele è esteso automaticamente a tutti gli ebrei.
A ogni tappa del conflitto mediorientale, le masse arabe si sono prese una “rivalsa” contro le loro minoranze ebraiche, attaccando i quartieri ebraici, saccheggiando le case, uccidendo bambini e gli adulti, considerandosi in guerra contro cittadini inermi colpevoli solo di essersi trovati ancora nel loro paese di nascita. L’aggressione contro gli ebrei era cominciata molto prima della nascita di Israele. Gli ebrei non erano mai stati cittadini come gli altri. Erano una minoranza tollerata soggetta a un “patto” di protezione imposta che comportava una fedeltà assoluta. 
Quando ero bambino, in Libia, alla fine degli anni cinquanta, frequentavo la scuola italiana. Nella mia classe campeggiava sulla parete una grande mappa geografica con un piccolo punto nero cancellato: Israele. Il nome era tabù. Non poteva figurare nemmeno su un giornale.  
Anche se ero ragazzo, il significato mi era evidente. La cancellazione del nome era parte di un progetto omicida. Si cancellava il nome pensando di potere un giorno cancellare anche la realtà delle persone.
Con la crisi del panarabismo e del nazionalismo “laico” e l’ascesa del fondamentalismo, questa distinzione ha perduto significato anche per il rapporto con il mondo esterno.  Per Bin Laden, Al Qaida e Hamas ebrei e sionisti sono la medesima “cosa” e non c’è bisogno di occultarlo.  Lo statuto di Hamas è esplicito al riguardo: il mito dei “Savi di Sion” non è un’invenzione del razzismo europeo. Per Hamas il mito è una verità di cui Israele è l’incarnazione malefica.  Con la sua sola esistenza Israele è la conferma del mito. Come a dire che l’unico modo a disposizione degli israeliani per tornare a essere “accettabili” è cessare di esistere come nazione, tornare a una condizione sottoposta, oppressa e tollerata.
Nonostante questo delirio, che nel mondo arabo ha avuto una lunga gestazione, sono in molti in Occidente a fingere di non vedere.
Sia chiaro, non è qui in discussione il diritto alla critica della politica dei governi israeliani con cui si può essere nelle singole situazioni in accordo o in disaccordo. Il diritto alla critica è il sale del pensiero e della democrazia. Sono le forme che la critica talora assume che hanno dell’inquietante, i diversi parametri utilizzati per giudicare le azioni. Per non parlare della demonizzazione e delle equazioni simboliche delle vittime che si trasformano in “carnefici”.
Proviamo a immaginare che cosa sarebbe accaduto se la campagna contro la presenza israeliana al Salone del Libro di Torino e di Parigi nel 2008, avesse avuto seguito. Proviamo a immaginare che cosa accadrebbe se la campagna per il boicottaggio delle università e delle merci israeliane dovesse imporsi. Non ci vuole molto a prevedere le conseguenze. Il giorno dopo toccherebbe agli studiosi che intrattengono rapporti scientifici con Israele e alle società che mantengono rapporti con aziende israeliane. In piccola scala è quanto, di fatto, già accaduto con l’espulsione dal comitato di redazione di una rivista britannica, di uno studioso israeliano non per le “sue idee” ma per il fatto di essere ebreo. Se fosse stato arabo israeliano, non sarebbe stato espulso. 
L’identificazione simbolica di Israele con “l’apartheid” è il primo passo per la sua delegittimazione come Stato e come nazione. Se dovesse passare questo grande equivoco, il resto sarebbe più facile. La fase successiva sarebbe la giustificazione di qualunque atto compiuto contro Israele e i suoi cittadini. Anche gli attentati terroristi più feroci potrebbero essere derubricati e non più considerati tali. Sarebbero giustificati come una conseguenza del comportamento di Israele. Mentre in realtà sono un atto politico originario in cui l’azione strumentale prefigura gli esiti complessivi del programma cui sono ispirati.
Rispetto agli anni settanta e ottanta la posizione di Israele nello scacchiere internazionale è di molto migliorata. Basta fare una comparazione con il numero di ambasciate esistente oggi nel mondo rispetto alla metà degli anni Settanta. Le applicazioni della tecnologia israeliana sono diffuse in ogni ambito, dall’agricoltura alla medicina, non c’è campo in cui Israele non sia presente.  Fare a meno della collaborazione sarebbe un atto lesivo per chi lo dovesse compiere. La letteratura israeliana è tradotta e apprezzata in ogni parte del mondo. Allo stesso tempo pericoli nuovi si vanno addensando rispetto al quale gli strumenti culturali tradizionali a disposizione non appaiono adeguati. Basti pensare allo scenario da incubo dell’atomica iraniana e alle crescenti ostilità provenienti da una Turchia neo ottomana.


http://www.informazionecorretta.it/main.php?sez=90

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