Sul FOGLIO di oggi, 11/02/2012, a pag.1/4, con il titolo "Kagan ci dice che l'America è viva", Mattia Ferraresi l'autore di " The world America made".
Mattia Ferraresi Robert Kagan Il nuovo libro di Kagan
New York. L’America è in declino. L’aquila non ha più gli artigli. L’egemonia è spezzata. La pax americana puzza di vecchio. L’unilateralismo è morto. Il multilateralismo anche. I cinesi sono alle porte. Gli Stati Uniti pagano la loro arroganza internazionale. E’ finito il tempo in cui Washington ficcava il naso negli affari altrui. Non è più il centro di gravità globale. E’ al tramonto. E in fondo se l’è cercata. Il bacino fraseologico del declinismo americano è senza fondo e da almeno una decina d’anni i suoi pezzi più sofisticati precipitano in pamphlet che fanno la fortuna di autori e case editrici. A interrompere il concistoro delle Cassandre è arrivato Robert Kagan, l’intellettuale neoconservatore che dopo la guerra in Iraq ha spiegato che gli americani vengono da Marte e gli europei da Venere. Nel suo “The World America Made”, di cui questo giornale ha pubblicato parti consistenti, Kagan irrompe nel club dei declinisti con una tesi tranchant. L’America è ancora una muscolare sorgente di libertà, ricchezza, sviluppo, forza morale e culturale; l’eccezionalismo non è scomparso se non nell’immaginazione di chi dipinge uno scenario in cui l’America rimpicciolisce come Alice nel paese delle meraviglie ed entra nella porticina delle potenze minori. Parlando con il Foglio Kagan mette le sue tesi nel contesto politico attuale e risponde alle critiche che gli sono piovute addosso, anche dai giornali italiani. Si parte da quella che l’autore chiama la “fallacia nostalgica” un’alterazione della percezione del passato: vista nello specchietto retrovisore dei declinisti, la storia recente dell’America appare come una sequenza di successi incontrastati, un dominio senza soluzione di continuità che non può che impallidire se paragonato alle minacce dell’oggi. “Il primo fattore da considerare è la tendenza a concepire il passato come il luogo dove gli ideali americani si davano in purezza, mentre oggi tutto è corrotto. Dieci anni dopo l’indipendenza alcuni politici dicevano che la nazione si era persa e bisognava tornare allo spirito originario. Quello che molti miei critici non capiscono è che io considero in un certo senso positiva questa tendenza: una parte dell’identità americana consiste proprio nella continua tendenza al rinnovamento, a ricercare le ragioni profonde del suo essere. Il secondo fattore è un antico sentimento di invidia delle altre potenze, penso soprattutto agli inglesi. Io, però, sono preoccupato dal fatto che a forza di ripetere che l’America è al tramonto, gli americani ci credano davvero, e si convincano che non si può fare altro, anzi che è giusto e doveroso, diventare dei gestori della crisi. Il rischio è che si prendano decisioni politiche sulla base di una profezia falsa, ma talmente ripetuta che finisce per autoavverarsi”, dice Kagan. Per scardinare le false profezie occorre tenere conto di “dati economici, militari, politici, morali e anche geografici. Se si considera la combinazione di questi fattori, e non ci si limita a un’osservazione parziale, si capisce che l’America domina ancora. E io dico che è un bene per il mondo”. L’intellettuale liberal Ian Buruma, anche lui sul carro del declino, sul Corriere della Sera lo ha stroncato in tre mosse. La prima: mettere in dubbio che l’attuale ordine mondiale non potrebbe sostenersi senza l’America. La seconda: insinuare che nello svolgere il suo pur immenso compito storico, l’America ha impedito ai suoi alleati di raggiungere la maggiore età. La terza: limitare il ruolo di Washington a un preciso obiettivo storico, contenere il comunismo fino a batterlo. Ottenuto quello, l’aquila mostra la sua forza rinunciandovi: “L’aver riconosciuto i limiti dell’America, come ha fatto Obama, non è segno di pessimismo codardo, ma di saggezza realistica”. Nella tesi di Buruma si sente un’eco dell’impostazione neo hegeliana di Francis Fukuyama, l’autore che nel 1989 ha proclamato la “Fine della storia”. La manifestazione dello spirito sfocia, infine, in un assetto politico dominato dai valori liberali. A quel punto la storia finisce e non c’è più bisogno di un gendarme globale che sostenga la corsa verso la razionalità. Kagan mira al cuore dell’argomentazione: “La critica di Buruma, molto comune fra gli internazionalisti liberal, è falsa, perché è basata su osservazioni storiche sbagliate. Avrebbe senso se dopo il crollo dell’Unione sovietica il mondo si fosse chiaramente attestato sul paradigma della democrazia liberale. E la Cina? La minaccia iraniana? Il terrorismo islamico? Certo, loro dicono che l’equilibrio è basato sulla forza economica delle nazioni, e che dunque l’America può influenzare il mondo con lo smart power, ma è una prospettiva naïf. L’assetto tendenzialmente multipolare che si è affermato dopo la Guerra fredda aumenta la necessità di un potere dominante che sia democratico, libero e accettato come tale. I declinisti minano alla radice l’idea che l’America sia un potere accettabile”.Il club del mondo post americano Josef Joffe ha diviso i momenti della pulsione declinista in diverse ondate, e quella, potentissima, iniziata alla fine degli anni Novanta è la quinta. Nel 2002 Charles Kupchan, analista del Council on Foreign Relations, ha proclamato la fine dell’era americana. Nel 2008 Fareed Zakaria, pluripremiata star della politica estera, ha dichiarato che viviamo in un mondo post americano. Richard Haas ha scritto che “il momento unipolare degli Stati Uniti è finito” e ha lasciato spazio a un assetto geopolitico misto, l’èra del “nonpolarismo”.A chi faceva notare che il ritornello declinista è una costante della storia americana, Gideon Rachman ha risposto con un lungo saggio su Foreign Policy dove l’incipit dà la misura dell’ostinazione apocalittica: “Questa volta è diverso”. John Ikenberry ha spiegato che il tramonto degli Stati Uniti è certo, ma non metterà a repentaglio la sopravvivenza dei valori liberali dell’occidente. Peter Beinart ha visto in una hubrys à la Icaro l’origine del cancro che ha consumato l’egemonia americana dall’interno. Altri hanno misurato la diminuzione del suo potere in termini di ricchezza, altri ancora di forza militare; c’è la scuola del declino relativo e quella del tramonto assoluto, oltre a varie scuole dell’apocalisse intermedia. L’ultimo testo di riferimento per questa corrente di successo è quello del tre volte premio Pulitzer Tom Friedman e di Michael Mandelbaum, professore della Johns Hopkins University: “That Used to be Us”. Kagan cerca di dimostrare che nonostante gli spauracchi della competizione globale, l’America detiene un primato inalienabile che deriva da diversi fattori., come quello economico: l’America possedeva “circa un quarto della ricchezza mondiale nel 1969” dice Kagan, cioè “la stessa fetta che detiene oggi, e l’ascesa cinese è vera in termini relativi”. Nel 2010 il pil della Cina è cresciuto del 10 per cento contro il 2,8 degli Stati Uniti; un dato che impressiona soltanto chi non ha fatto un confronto con il 1970: allora Pechino cresceva del 19,4 per cento, Washington era ferma al 3,5. Ma il passato, si diceva, ha sempre l’aureola. Kagan si oppone a una conventional wisdom consolidata aggiungendo il fattore “morale”, un “destino” americano che fa leva sulla preminenza della libertà, sia individuale sia commerciale. “Questo è il momento in cui l’America invece di ripiegarsi su di sé deve scommettere tutto sui valori che l’hanno resa grande”. In questo senso, l’intellettuale che ora consiglia Mitt Romney sulla politica estera è preoccupato da alcune scelte di Barack Obama: “Il taglio del budget del Pentagono è un grave errore, e non c’è nessuna ragione economica che possa giustificarlo. Gli effetti li vediamo: l’Iran e la Cina approfittano della percezione della debolezza per fare mosse che non avrebbero fatto, come minacciare di chiudere lo Stretto di Hormuz. Questo non significa che Obama stia sbagliando tutto: il focus strategico sull’Asia, ad esempio, lo giudico positivamente”. L’autore più citato e meno seguito da Obama Obama ha detto di aver apprezzato il saggio di Kagan. Lo ha commentato con i giornalisti prima di dire, nel discorso sullo stato dell’Unione, che “America is back”. Poi però la sua politica va nella direzione del ridimensionamento del potere americano. “Non c’è dubbio che il presidente, di qualunque partito sia, non possa permettersi di dire che l’America è in declino. Ma la contraddizione fra le parole e i fatti in questo caso è evidente. Mi pare che Obama incarni un conflitto classico: da una parte c’è l’America che vuole occuparsi degli affari domestici, dall’altra quella che sente il compito di guidare la scena internazionale. Spesso si vogliono entrambe le cose insieme, e il circolo vizioso in cui è il presidente lo dimostra”. Se a novembre vincesse Romney, che in ogni discorso accusa Obama di essere il curatore fallimentare della potenza americana, cosa cambierebbe? “Innanzitutto si cambierebbe il budget del Pentagono, non c’è dubbio. Poi si parlerebbe di più con i nostri partner in Europa, che sono fondamentali perché condividono i nostri valori. Obama si è ricordato di loro soltanto quando è scoppiata la crisi dell’euro”. Vedere il mondo con gli occhiali del declinista è quello che rischia di condurre al “suicidio preventivo” della superpotenza americana. Il rischio è che l’ipocondria che domina il dibattito sul ruolo dell’America nel mondo porti all’esito irrazionale della mostrificazione di sè a priori. Il saggio kaganiano mostra che il riflesso condizionato che trascina verso la relativizzazione americana contiene un pericolo mortale: obliterare l’eccezionale valore che l’America rappresenta per il mondo in termini storici e culturali. “Forse il progresso di cui godiamo non è il risultato dell’evoluzione inevitabile della specie umana, quanto, piuttosto, il prodotto di un’irripetibile combinazione di circostanze. Questo irripetibile prodotto si chiama America”.
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