Israele: chi è favorevole a un attacco preventivo contro il nucleare iraniano? Analisi di Giulio Meotti, Amy Rosenthal
Testata: Il Foglio Data: 10 febbraio 2012 Pagina: 6 Autore: Giulio Meotti - Amy Rosenthal Titolo: «Nella mente dello strike - Dennis Ross ci dice che Israele non colpirà ora l’Iran, che teme il 'brutto colpo' dalla Siria»
Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 10/02/2012, a pag. II, l'articolo di Giulio Meotti dal titolo " Nella mente dello strike ", l'articolo di Amy Rosenthal dal titolo " Dennis Ross ci dice che Israele non colpirà ora l’Iran, che teme il 'brutto colpo' dalla Siria ".
A destra, Ahmadinejad chiede : 'E' ovvio che il nostro programma nucleare ha scopi pacifici, perchè lo chiedete?'. Ecco i pezzi:
Sta per scoppiare la guerra fra Iran e Israele, bombarderemo i siti iraniani prima del previsto, le sirene ci sveglieranno di prima mattina e il comando interno ci dirà come entrare nei rifugi. Il resto sarà storia”. Così Sever Plocker, vicedirettore del maggiore giornale israeliano, Yedioth Ahronoth, lancia l’allarme sul countdown, il conto alla rovescia verso la resa dei conti fra lo stato ebraico e la Repubblica islamica dell’Iran. Sullo strike è al lavoro un ristretto gruppo di cervelli attorno al primo ministro Benjamin Netanyahu. Accanto a “Mefistofele”, come malignamente su Haaretz è stato definito Amos Gilad, c’è Uzi Arad, dirigente di spicco del Mossad e figlio di un leader sionista imprigionato dai fascisti romeni di Antonescu. E poi Yaakov Amidror, il primo generale con la kippa dei religiosi, e l’analista militare Yoaz Handel, che ha appena pubblicato il report “Iran’s nukes and Israel’s dilemma”. E’ il primo documento sull’attacco preventivo uscito dalla squadra di cervelli del primo ministro. In tutto, scrive Handel, “ci sono 60 obiettivi da colpire in Iran”. Poi c’è l’influenza del “lituano”, Moshe Arens, ex ministro della Difesa ma per la stampa “l’uomo che ha inventato Netanyahu” (il padre dell’attuale premier, il professore di storia Ben Zion Netanyahu, fece da testimone di nozze ad Arens). La “dottrina Arens” sull’Iran si basa sul timore che Israele perda quel potere di deterrenza faticosamente conquistato con la costruzione della centrale nucleare di Dimona e con la smagliante vittoria nella Guerra dei sei giorni. Da allora il deterrente si è già eroso per la sofferta guerra del Kippur (1973), per l’acquiescenza mostrata nella prima Guerra del Golfo e per la sconfitta subita da Hezbollah nel 2006. Nel sostenere lo strike contro l’Iran, Arens dice che Israele non deve commettere nuovamente l’errore del 1991, quando aspettò che il tiranno iracheno lanciasse quaranta missili su Tel Aviv. “Fu la prima volta che il paese porse l’altra guancia”, ha ricordato Arens, all’epoca era ministro della Difesa. “Non scherzate di nuovo con Israele”. L’elaborazione strategica dello strike è avvenuta però al di fuori dell’attuale governo Netanyahu. Dieci anni fa Israele chiese a un gruppo di accademici e studiosi di formulare la dottrina dell’attacco preventivo. E’ il “Progetto Daniele”, dal nome del profeta biblico. Costituisce la giustificazione strategica per l’eventuale attacco ordinato dal primo ministro Netanyahu. Del gruppo hanno fatto parte, tra gli altri, l’ingegnere atomico israeliano Naaman Belkind, il generale della riserva Isaac Ben Israel e il colonnello dell’aviazione Yoash Tsiddon-Chatto. Il Foglio è a colloquio con l’accademico che ha scritto il “Progetto Daniele”, Louis René Beres, uno dei massimi esperti mondiali di genocidio all’Università americana di Perdue. “La deterrenza nucleare funziona soltanto fra attori razionali”, ci dice Beres. “Noi del ‘Progetto Daniele’ per primi abbiamo spiegato che l’‘equilibrio del terrore’ non funziona con Teheran. Per Israele non difendersi preventivamente da un dichiarato nemico esistenziale – ovvero consentire a un regime islamico apocalittico di diventare nucleare – sarebbe suicida. Mutuando da Thomas Hobbes, nessuno stato ha il diritto di suicidarsi e lo studioso di diritto Ugo Grozio nel 1625 ha scritto che la vita innocente deve essere protetta. Quando i leader iraniani proclamano di credere nell’apocalisse sciita, misure difensive vanno considerate a Gerusalemme. L’Iran sta finalizzando la costruzione di armi atomiche e il regime dichiara che serviranno a creare ‘un mondo senza sionismo’. L’Iran può diventare, letteralmente, uno ‘stato suicida’. Noi del ‘Progetto Daniele’ abbiamo spiegato ai primi ministri israeliani che Israele potrebbe fronteggiare un attentatore suicida macroscopico, uno stato che agisce senza pensare alle conseguenze. Un nemico che potrebbe lanciare armi di distruzione di massa contro Israele sapendo molto bene che ci sarebbero delle rappresaglie. La conclusione di questo scenario è che Israele resterebbe paralizzato dall’irrazionalità del nemico e che quindi l’unica alternativa è l’attacco preventivo”. Beres concorda con l’analisi su Newsweek di Niall Ferguson che Israele si trova di fronte a una nuova possibile guerra dei Sei giorni. “Lo stato ebraico nel 1967 optò per un attacco preventivo”, ci dice Beres. “La legge internazionale non è un patto suicida e include il diritto inerente degli stati all’autodifesa. Lo strike preventivo avrebbe un costo molto alto. Ma quali sono le alternative? Le sanzioni economiche, la guerra cibernetica, gli omicidi mirati possono ritardare la costruzione di armi nucleari atomiche, ma non possono fermarle. Di fronte a un primo colpo da parte dell’Iran su un paese della grandezza del New Jersey, qualcosa che significherebbe la scomparsa d’Israele, abbiamo il diritto a una difesa preventiva”. Oggi lo strike appare come una bandiera della destra israeliana, ma è stata formulata da uno dei padri nobili della sinistra ebraica. E’ il professor Asa Kasher, docente di Filosofia etica all’Università di Tel Aviv, l’uomo senza uniforme, il professore che siede tra i generali di Tsahal e che per due anni ha lavorato al documento che ha definito l’etica dell’esercito israeliano. Si chiama Tohar HaNeshek (“purezza delle armi”), significa usare le armi secondo regole morali. Il testo venne duramente criticato dalla destra israeliana per bocca dell’ex capo di stato maggiore Rafael Eitan: “Si tratta di fesserie che possono solo demoralizzare l’esercito, non ci sono armi pure, perché sono uno strumento per uccidere”. Eppure l’allora chief of staff Ehud Barak e il suo primo ministro, Yitzhak Rabin, abbracciarono il documento che da allora è diventato la base morale dell’esercito più agguerrito e peculiare al mondo. Kasher, considerato vicino al partito di estrema sinistra Meretz, è per tutti “the moralist”. Il professore oggi è a colloquio con il Foglio sull’Iran. “La giustificazione di un attacco preventivo israeliano poggia sulla dottrina della ‘guerra giusta’ e sullo spirito della legge internazionale”. Ci sono alcune condizioni per lo strike. “Una buona causa: generalmente soltanto l’autodifesa è considerata una buona causa. Nel caso dell’Iran, non c’è dubbio che sia un nemico aggressivo di Israele, è dietro a Hamas e Hezbollah e ha dichiarato apertamente di voler eliminare Israele. Una ostilità resa evidente anche dalla ripetuta negazione della Shoah da parte del presidente iraniano. Generalmente l’autodifesa è legata a un pericolo imminente. Nel caso dell’Iran, riferito alla sua capacità atomica e al desiderio di eliminare Israele, il pericolo imminente non è il lancio di testate atomiche, ma la capacità di farlo. Un attacco preventivo è quindi giustificato”. Poi ci sono le possibilità di vittoria: “Le operazioni militari coinvolgono perdite da entrambe le parti, quindi devono avvenire non come gesti simbolici. Se la capacità iraniana di produrre l’atomica rimanesse intatta, lo strike sarebbe simbolico e non giustificabile. Se invece il danno è ingente o viene posticipato il programma, l’autodifesa è giustificabile”. Lo strike deve essere, dice Kasher, l’ultima risorsa: “Poiché il conflitto militare causa delle calamità, deve essere evitato se il problema alla radice può essere risolto con altri mezzi. Le sanzioni sono uno di questi, ma se falliscono lo strike militare è giustificabile”. Ci deve essere, infine, la proporzionalità: “Noi siamo responsabili della vita dei cittadini israeliani, così come il Canada è responsabile dei cittadini canadesi. E’ tutto. Non c’è un governo mondiale responsabile, ci sono stati con proprie responsabilità. Poiché in gioco c’è l’esistenza d’Israele e la vita dei suoi cittadini, non c’è dubbio che un attacco militare all’Iran sarebbe proporzionato. Non esiste paragone più alto. I miei genitori sono arrivati qui prima dell’Olocausto, ma mia moglie è una sopravvissuta. Quale lezione possiamo trarre dalla guerra? Che non faremo affidamento su nessun altro quando si tratta di proteggere i nostri cittadini. E anche se i nostri nemici dovessero portare dei bambini sui tetti delle case per spararci addosso, non capitoleremo. E’ tragico, ma non molliamo”. L’idea dello strike è sposata anche dal filosofo morale Moshe Halbertal, l’allievo di Michael Walzer che ha collaborato al manuale di comportamento delle forze di difesa d’Israele: “Ci potrebbe essere una situazione in cui l’unico modo per prevenire un attacco nucleare contro Israele sarà quello di distruggere lo stato iraniano. Con questo voglio dire distruggere la sua capacità di agire come uno stato. Non è Hiroshima o Nagasaki. Ma sarebbe volto a distruggere laboratori nucleari, fabbriche, i reattori e tutto ciò che hanno. L’apparato statale che è necessario per ordinare e formare una cosa simile”. Martedì il quotidiano Yedioth Ahronoth ha rivelato che i diplomatici di stanza a Tel Aviv e Gerusalemme hanno appena chiesto al governo israeliano di dotare anche le loro famiglie di maschere antigas. E’ già pronto anche un piano di evacuazione. Ieri l’Alef, il sito web iraniano vicino all’ayatollah Ali Khamenei ripreso dalla Fars News Agency, ha pubblicato la giustificazione iraniana per l’eventuale attacco a Israele, definito “materiale corrotto”. Si cita l’ultimo censimento israeliano, secondo cui il sessanta percento della popolazione risiede fra Tel Aviv e Haifa. Scrive l’analista Alireza Forghani che un solo missile Shahab 3 è in grado di eliminare il “cancro”. Sulla costa israeliana, vive un terzo della popolazione ebraica mondiale.
Amy Rosenthal - " Dennis Ross ci dice che Israele non colpirà ora l’Iran, che teme il 'brutto colpo' dalla Siria "
Dennis Ross, Amy Rosenthal
Gli americani e gli israeliani hanno idee diverse sulla minaccia iraniana, scriveva ieri il New York Times, dando voce – ancora una volta, lo fa praticamente ogni giorno – a varie fonti che raccontano, ognuna a modo suo, le ipotesi di un attacco ai siti nucleari della Repubblica islamica d’Iran. Washington è cauta, Gerusalemme è sul piede di guerra: questa è la sintesi un po’ grossolana dello stato della relazione, al netto di tutte le liti e discussioni tra intelligence, esercito e politici all’interno di Israele. Dennis Ross non è convinto che le cose stiano davvero così: “Ora che ci sono le sanzioni – spiega al Foglio – sanzioni durissime, quelle che Gerusalemme voleva, per le quali faceva pressioni su tutta la comunità internazionale, ora che finalmente le ha ottenute, vorrà vedere come funzionano”. Cioè aspetterà. Dennis Ross è uno dei diplomatici più famosi d’America, se si parla di medio oriente, il suo nome salta sempre fuori: era con Bill Clinton a Camp David – Ross ha scritto un libro bellissimo su quel negoziato, in cui ha raccontato la lunga trattativa, il lavorìo sui testi, l’attenzione a ogni parola, e il tremendo “no” di Arafat quando pure gli era stato offerto tutto e di più – e ha aiutato Barack Obama e Hillary Clinton durante questa Amministrazione. Da novembre non lavora più nel governo e smentisce tutti quelli che sostengono il contrario: Haaretz la settimana scorsa ha scritto che Ross di fatto non se n’è mai andato, che ha una linea diretta del telefono con cui chiama la Casa Bianca, ma un giornalista tosto come Jeffrey Goldberg dell’Atlantic ha cercato di verificare la cosa e tutti gli hanno detto che non esiste nulla del genere. Victoria Nuland, portavoce della Clinton, ha detto: “Non ha nessun genere di ‘bat phone, red phone, funny phone”. E’ tornato a studiare, Ross, e a spiegare le dinamiche della politica mediorientale al Washington Institute for Near East Policy. Ross è convinto che Israele non attaccherà l’Iran, non adesso, “non avrebbe senso, visto che da sempre Gerusalemme cerca di convincere il resto del mondo che un Iran atomico è un problema di tutti, non un problema di Israele”, e ora che il mondo l’ha capito e ha adottato sanzioni pesantissime “credo che gli israeliani vorranno vedere che succede”. Certo è che il livello di minaccia da parte dell’Iran è cresciuto enormemente, soprattutto per quel che riguarda l’embargo e le ripercussioni sullo Stretto di Hormuz e gli approvvigionamenti energetici per l’occidente. Ci sono anche quelli che sostengono che le sanzioni non fanno che rafforzare il regime, perché può brandire l’arma del complotto contro il suo popolo e unirsi per reagire. Ross è convinto che la voce alta sia sintomo di debolezza: “La reazione dell’Iran è sempre la stessa: quand’è sotto pressione aumenta le minacce in modo da farci credere che non facciamo paura. Ma poi la storia ci dice che quando sono sotto troppa pressione, cercano di ridurla, facendo dei passi nei nostri confronti”. Questi passi però sono spesso inutili: che senso ha tornare a una negoziazione sul nucleare che ha già dimostrato la poca credibilità delle promesse iraniane? Ross è scettico, sa che finora quelle trattative hanno soltanto concesso tempo al regime di Teheran, ma ora il contesto è diverso: ci sono sanzioni dure, c’è l’Arabia Saudita che vuole neutralizzare ogni minaccia iraniana – “per questo ha detto che se l’Iran chiude i rubinetti energetici, ci pensa Riad a colmare il vuoto” – e c’è la crisi siriana. Già, Bashar el Assad. “E’ necessario mantenere la pressione sulla Russia – spiega Ross – Perché i russi possono fare la differenza. Spesso Assad ha detto che i russi sono una ‘polizza d’assicurazione’ per quelli attorno a lui. Senza questa assicurazione, gli equilibri all’interno del regime siriano potrebbero cambiare sensibilmente, con conseguenze sulla tenuta di Assad”. L’establishment della sicurezza a Damasco ha forti relazioni con i russi, da loro dipendono, un po’ come il Consiglio di sicurezza dell’Onu, che con il veto russo non può fare nulla. La transizione, continua Ross, dev’essere monitorata, con un occhio ai russi e intanto la creazione, “come ha detto la Clinton, di un ‘Friends of Syria Group’, un gruppo di paesi amici della Siria che, assieme al Consiglio nazionale siriano (l’opposizione al regime, ndr), riesca a far emergere un’opposizione che rappresenti sempre più il futuro”. Usare la forza contro Assad non è come usarla contro il colonnello Gheddafi, anche se molti tendono a vedere lo stesso modello da applicare – intervento umanitario. Ross dice che “ci sono alcune esitazioni, perché tutti sappiamo che i costi di questo impegno sono diversi, e più alti”. E qui si ritorna all’Iran. “Senza la Siria, la capacità dell’Iran di portare ‘materiali’ a Hezbollah diminuisce, e il Partito di Dio è l’unico interlocutore con cui l’esportazione della rivoluzione islamica ha avuto successo”. La crisi siriana unita allo scontro di potere a Teheran tra il presidente, Mahmoud Ahmadinejad, e la Guida suprema, Ali Khamenei, è il vero problema oggi in medio oriente (ben più, per esempio, dell’arrivo dei Fratelli musulmani in Egitto, che “devono comunque mantenere una posizione credibile rispetto agli impegni con il resto del mondo”). “Da ogni punto di vista – conclude Ross – Assad sarà un ‘very big blow’, un gran brutto colpo, per gli iraniani”.
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